Di Roberto Giuliani
La forte ascesa, per ora inarrestabile, del Prosecco, ha spinto ad allargare sempre più l’area produttiva, basta farsi un giro in auto per accorgersi che ormai si trovano numerosi vigneti anche a valle, con sistemi di potatura standardizzati e mirati a fare quantità più che qualità. Con una produzione che continua a salire, forte di una richiesta al momento abbondantemente superiore all’offerta, non si può guardare tanto per il sottile e la qualità diventa un fattore secondario. Non è una scoperta il fatto che in gran parte del nostro Paese, l’aperitivo si fa soprattutto con il Prosecco, facile da trovare al bar come al supermercato, grazie a una mole produttiva che ha già abbondantemente superato il mezzo miliardo di bottiglie e a un prezzo medio davvero alla portata di tutti.
In questo contesto far comprendere al consumatore che questo vino non è tutto uguale, ma esistono fasce qualitative differenti, zone elette e zone meno o quasi per nulla vocate è impresa assai ardua. Potremmo fare un discorso analogo, ad esempio, nel mondo Chianti; anche lì, la zona storica ha rischiato di rimanere completamente schiacciata dal boom economico che ha portato a coinvolgere aree produttive differenti all’interno della denominazione riducendo il territorio classico a sottozona del Chianti. Successivamente le due denominazioni sono state divise, ma il Chianti Classico, per liberarsi dal fardello di sembrare una costola del Chianti, ha dovuto puntare sul simbolo del Gallo Nero, che dal 2005 è diventato il marchio esclusivo della denominazione, che lo accompagnava dal lontano 1924, quando fu fondato il “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca di origine”. Nel caso del Prosecco, il momento del salto definitivo è avvenuto nel 2009, quando le due denominazioni storiche e qualitativamente superiori Conegliano-Valdobbiadene e Asolo, hanno ottenuto la DOCG.
Ma questo passaggio legislativo è bastato a modificare l’immagine collettiva del Prosecco? Certamente no, anche se la strada in qualche modo è stata spianata affinché si creasse un percorso d’elezione, fra comunicazione e qualità delle aziende trainanti, oggi possiamo dire che anche queste due DOCG stanno riscontrando sempre maggiore successo, in una fascia di prezzo medio-alta per la tipologia.
E qui si apre un’altra questione, altrettanto spinosa: quanti possono dire di sapere cosa è capace di fare negli anni questo vino, da sempre destinato come gran parte dei bianchi, a essere bevuto appena uscito?
Bene, nel caso del Prosecco, possiamo dire che è un’opportunità assai remota, perché non esiste una tradizione di storicizzazione, le aziende più “vecchie” possono avere un po’ di annate conservate, ma magari non hanno mai pensato che potesse interessare a qualcuno stapparle.
La visita presso l’azienda Col Vetoraz di Santo Stefano di Valdobbiadene, che il nostro gruppo Garantito IGP ha effettuato sabato 23 aprile, su invito della brava Lorella Casagrande dell’agenzia Carry On di Conegliano, ci ha permesso di scoprire, attraverso una straordinaria verticale di ben 16 annate di Valdobbiadene Brut, che non solo è capace di invecchiare, ma addirittura diventa estremamente più stimolante e complesso. Chiacchierando con Loris Dall’Acqua, amministratore delegato ed enologo di Col Vetoraz, abbiamo avuto conferma dei nostri sospetti, una verticale di così tante annate, fra l’altro tutte in condizioni di assoluta bevibilità, al momento non è in grado di offrirla nessun altro. Se ci sbagliamo, saremo ben contenti di scoprire che qualche altro produttore ha uno storico del genere.
Loris ci ha spiegato che un altro passo per liberarsi di un’immagine che sta un po’ stretta, è stato quello di avere eliminato la parola “Prosecco” dall’etichetta, possibilità che il disciplinare prevede. Si tratta di una decisione non senza qualche controindicazione dal punto di vista commerciale, il termine Prosecco è ormai conosciuto in tutto il mondo, ma l’azienda ha già conquistato un proprio spazio e, con una produzione di 1 milione e 250mila bottiglie annue, possiamo dire che è leader nell’area di Valdobbiadene. Fra l’altro l’azienda ha scelto di produrre esclusivamente Valdobbiadene Docg, un altro modo per comunicare il territorio, elemento cardine della sua filosofia.
Il fatto di avere a disposizione un 20% di uve provenienti da propri vigneti e un 80% da 72 viticoltori fidelizzati, con visite in campo e quattro riunioni collettive all’anno per ottenere la massima qualità possibile, consente all’azienda di selezionare volta per volta, secondo l’annata, le migliori destinate ai propri vini, prelevate nella fascia pedemontana affinché il patrimonio acido e aromatico siano preservati. I terreni della fascia pedemontana del sistema collinare Conegliano Valdobbiadene si sono formati in era terziaria, periodo miocenico. Sono terreni calcareo-silicei ricchi di scheletro, ideali per ottenere eleganza e sapidità. I pendii molto marcati impongono lavorazioni manuali, vendemmia compresa, certamente più impegnativa ma con il vantaggio di poter fare una selezione accurata dei grappoli migliori senza rischiare di rompere qualche acino.
Col Vetoraz si è strutturata per poter vinificare separatamente le uve di ogni vigneto. Questo consente di poter valutare le reali potenzialità di ogni singola partita, prima della costituzione delle grandi cuvée. Per questa ragione in cantina si trovano 128 serbatoi inox non di grandi dimensioni e numerose presse. Una volta effettuata la pressatura, il succo decantato viene sottoposto ad analisi organolettica. I vini non subiscono nessun trattamento, nemmeno chiarificante. Questo garantisce il mantenimento dell'integrità aromatica e strutturale del frutto di partenza, sviluppando un naturale indice di rotondità e un'espressione carbonica avvolgente e cremosa.
Assaggiando quei 16 campioni è emersa evidente la filosofia dell’enologo: lasciar parlare il territorio e le annate, senza fare alcun “aggiustamento”, lasciando che il vino esprima esattamente ciò che la natura gli ha consegnato; per questo motivo nessun millesimo mancava all’appello, dalla 2006 alla 2021. Tutte le annate sono state prodotte con 8 g. litro di zucchero residuo.
2006 – mostra un colore oro intenso, ma comunque vivo, luminoso, colpisce subito per il grande equilibrio tra profumi e trama gustativa; emergono note di miele di acacia, mango, uva passa, agrumi canditi. In bocca è sapido, ha mantenuto un’ottima freschezza nonostante l’ovvio calo di CO², più passano i minuti e meglio si esprime, rivelando una vitalità e una profondità inimmaginabili per questa tipologia di vino.
2007 – qui, sulle colline di Valdobbiadene, l’annata è stata piuttosto fredda, ben diversa da gran parte delle zone viticole italiane. Se ne è giovato il vino, che rivela un colore simile al precedente, ma più acceso e profondo, manifesta note di pasticceria, crema, nocciola; c’è maggiore spalla al palato, un equilibrio ancora non pienamente raggiunto e un’acidità sorprendente con 15 anni sulle spalle.
2008 – siamo sempre su tonalità molto intense, dal punto di vista olfattivo ha più bisogno di ossigenarsi per eliminare qualche venatura gommosa; al gusto esprime ancora una volta una bella sapidità, che è un po’ il marchio del terroir. Il linguaggio è un po’ meno avvincente, non perché sia alla fine del suo percorso, ma probabilmente sono i tratti dell’annata, più severi e meno aperti.
2009 – il vino più sorprendente, sia perché esprime ancora suggestive note floreali e di pesca, di albicocca e pera, miele; sia perché ha un sorso piacevolissimo, ampio, ancora una volta sapido, profondo, invitante, davvero suggestivo, in qualche modo ci porta oltralpe per eleganza e complessità.
2010 – Scendiamo di tonalità al paglierino brillante, decisamente più chiaro, ha profumi da annata fresca, floreal-fruttati, un po’ meno ampi ma pur sempre piacevoli. Al gusto appare una sfumatura di nocciola tostata, c’è grande freschezza, altro vino che testimonia un percorso per nulla finito.
2011 – qui i tratti espressi dalla 2010 sono ancora più marcati, non penseresti mai di avere di fronte un Valdobbiadene di 11 anni, le note primarie sono ancora molto evidenti, perde un po’ in complessità ma è del tutto logico vista l’estrema giovinezza.
2012 – una versione a mio avviso più austera, ancora piuttosto chiusa al naso, molto meglio in bocca dove esprime un frutto dolce e piacevole, buona freschezza, da seguirne l’evoluzione.
2013 – altro vino che mi ha molto colpito per intensità e freschezza, dinamico, in continuo movimento, non gli daresti più di un paio d’anni, esprime toni di fiore d’acacia e della vite, agrumi gialli; bocca freschissima, stimolante, ha tutte le carte per evolvere a lungo.
2014 – anche qui è stata un’annata piovosa e difficile, il vino ha colore paglierino chiaro, naso dagli accenti floreali marcati, richiama la rosa e il biancospino; in bocca si sente un po’ di più l’evoluzione, sicuramente l’annata ha i suoi limiti, a mio avviso è l’unico che è meglio non aspettare ancora per berlo. Va bene ora.
2015 – si torna a salire come intensità di colore, ma senza eccessi, siam sempre sul paglierino appena più intenso; molto agrumato al naso, ancora piuttosto chiuso e rigido. In bocca si sente un po’ l’annata calda, c’è un buon equilibrio ma gli manca un po’ di slancio che ravvivi il sorso.
2016 – una bella annata, caratterizzata da intensità sia di profumi che di sapore, c’è energia e materia, lui merita di essere atteso, è solo all’inizio di un lungo percorso.
2017 – da qui scompaiono i sentori più complessi a vantaggio di grande florealità e un frutto fresco; la freschezza si manifesta in modo evidente anche al palato, sembra un vino d’annata, anche di buona intensità.
2018 – qui torna l’acacia, la pesca bianca, la susina, sorso fresco ma non pungente, si beve bene, con il vantaggio di non avere la spigolosità del vino appena uscito.
2019 – attacca con sfumature di cedrata, poi emerge il biancospino, leggero gelsomino; bocca giovane e stimolante, siamo ormai su un vino tutto in formazione.
2020 – questo millesimo si caratterizza per un’evidente nota di pera Williams, poi pesca e cedro, bocca assolutamente verticale, giovanissima, anche perché la carbonica è ancora integra.
2021 - guarda caso ha il colore più chiaro in assoluto, quasi con tonalità verdoline, assaggiato per ultimo ha il solo limite di venire da una batteria che ha mostrato molte meraviglie, pertanto sembra solo buono; in realtà ha grande pulizia espressiva e una materia assolutamente coerente, sapido e succoso.
La Chiosa
Una verticale sorprendente, che ha ribaltato completamente l’immagine della tipologia, dimostrando che, partendo da una base eccellente, si possono ottenere risultati impensabili, gli anni permettono a questo vino di acquisire complessità senza avere cedimenti né stanchezze. Al momento io berrei con grande piacere la 2009, che ho trovato superba sotto ogni aspetto, e la 2006 che ha raggiunto una maturità e profondità ottimali, un vino intenso e di grande persistenza.