InvecchiatIGP: Edi Kante - Chardonnay 1997


di Luciano Pignataro

C’è un tesoro in Italia ma pochi intenditori lo hanno capito e ne approfittano: i vini bianchi italiani in alcune regioni invecchiano alla grande. Stavolta siamo in Friuli da una vecchia conoscenza tra gli amanti del genere, Edi Kante che dal 1980 imbottiglia buonissimi bianchi capaci di sfidare il tempo sul Carso, territorio particolarmente vocato in questo segmento. C’è stata la fase tra gli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 in cui il Friuli era indeciso su che strada incamminarsi, molti hanno immaginato una seconda Borgogna con l’uso abbastanza eccessivo dei legni, poi il bivio che ha visto da un lato lo stile alla Gravner, dall’altro un ritorno alla freschezza e alla mineralità, giocata soprattutto sugli autoctoni. 

Ecco perché quando Gianni Piezzo, esperto e navigato sommelier della Torre del Saracino di Gennaro Esposito, mi ha proposto  lo Chardonnay di 24 anni fa non ho resistito e ho detto subito di sì. Ricorderete che la 1997 fu definita l’annata del secolo, soprattutto per la sua eccezionale regolarità. Il vino nasce da un vigneto a 250 metri in una zona fresca del Carso triestino con una reso di meno di un chilo per pianta, si parla di 700 grammi circa. 


Copio e incollo il protocollo di produzione: f
ermentazione in assenza di solforosa e permanenza in barrique vecchie per 12 mesi. Successivo assemblaggio in acciaio per una naturale stabilizzazione. Affinamento e maturazione, i passaggi decisivi, avvengono in bottiglia in condizioni di cantina naturali a 12 gradi di temperatura costanti in una cantina, scavata nella roccia, che ricrea le medesime condizioni di umidità, temperatura e pulizia delle cavità carsiche. L’imbottigliamento avviene senza filtrazioni. 

Il risultato dopo tanti anni è ben spigato dalle righe che ci precedono. Mentre l’uso eccessivo del legno ha presentato molti bianchi friulani stanchi all’appuntamento con lo stappo, in questo caso la freschezza è quasi integra, avvolta in una incredibile complessità olfattiva che rimanda alle note di pasticceria, al miele, alla nocciola tostata, in un corredo leggermente fumè. Nessun segno di cedimento, la beva è vibrante, precisa, pulita e termina con una piccola nota amara che ripulisce il palato. 

Edi Kante - Foto: Vinopuro.com

C’è poco da dire, lo Chardonnay quando viene rispettato è davvero una grande uva ovunque venga piantata. Ecco dunque, un piacere immenso, che un bianco giovane non potrà mai regalarti. Questo vino vivo, bevuto insieme a cari amici in una giornata piovosa e autunnale in riva al mare così lontano dai luoghi di produzione, ci ha riconciliato con noi stessi, portandoci verso quella piacevole atarassia in cui, come primo segale positivo, non guardi più il telefonino e l’orologio e ti lasci andare.

Territorio de' Matroni - Lacryma Christi del Vesuvio DOC Bianco 2017

Dopo aver girato e vendemmiato in mezzo mondo, Andrea Matrone è tornato nella proprietà di famiglia a Boscotrecase fra fossati lavici e vigneti. 


Questo bianco del 2017 da uve caprettone e falanghina, non filtrato, 
regala il sapore genuino della frutta vulcanica, con la tipica nota amara finale. Vivo e giovane anche a quattro anni dalla vendemmia.

www.catinematrone.it

Il mare, Gennaro Esposito e quel Brunello di Montalcino 1998 di Bondi Santi

di Luciano Pignataro

Ed eccoci qui, in riva al mare, quello romantico e intimo di novembre con nuvole e un po’ di pioggia. E poi la grande cucina di Gennaro Esposito: le condizioni ideali per esaltare la generosità di Antonella Amodio che ha serbato questa bottiglia donatale personalmente da Franco Biondi Santi. 


Era il 1998 e Montalcino era ormai decollata grazie ad un’abile azione di marketing, la celebrazione delle annate iniziate con la posa delle mattonelle d’autore a iniziare dal 1992, il vino italiano prendeva consapevolezza di se stesso e si scatenavano le prime violente polemiche fra chi aveva introdotto la barrique, i modernisti, e chi continuava a lavorare l’uva tra vasche di cemento e botti grandi di Slavonia, i tradizionalisti. 

L’annata 1998 è segnata ufficialmente con quattro stelle, una di meno rispetto alla straordinaria 1997 ma lanciata con eguale entusiasmo anche se Veronelli avvertì ad aspettare gli esiti di cantina di una stagione particolare a causa di una prolungata siccità nei mesi di luglio e agosto che portarono ad un anticipo di vendemmia. 

La Riserva 1998 fu trattata con i guanti da Franco Biondi Santi, erede della famiglia che aveva creato il Brunello di Montalcino selezionando i cloni adatti di Sangiovese grosso, assolutamente indifferente alle mode del momento: le uve erano quel dl Greppo, dalle viti più vecchie piantate negli anni ’70. Tre anni di affinamento in botti di rovere di Slavonia, lungo affinamento in bottiglia e voilà. 


Quando si ama il vino certe bottiglie vengono aperte con emozione e rispetto, ciascuno di noi ha conosciuto Franco. Biondi Santi rimanendone affascinato, Antonella ci ha addirittura lavorato per un periodo. Impossibile non pensare alla sua mano che tocca questa bottiglia. Gianni Piezzo, il sommelier di Torre del Saracino, l’apre lentamente ma con mano sicura: il tappo è assolutamente integro e il vino, rosso rubino scarico con riflesso arancione inizia il suo ultimo viaggio nei bicchieri. 

Gennaro Esposito

Si dice che si beve con il naso, e questa 1998 si presenta in effetti con rimandi di frutta rossa di bosco, note tostate, caffè e nocciola, foglie di ciliegio secche, persino una nota agrumata di arancia e di cenere. Un naso autunnale, è il caso di dire, suggestionati dal tempo che assedia la sala del ristorante. I ricordi delle prime anteprime di Brunello, un mondo completamente diverso da oggi, senza social, senza computer, la nascita di un terroir che ha saputo valorizzarsi come pochi altri in Italia dopo la crisi del Metanolo, l’attenzione del mercato americano, i primi incontri e l’entusiasmo di essere protagonisti di una svolta epocale che si poteva toccare con mano e raccontare. 

Franco Biondi Santi

Al palato il vino è integro, avvolgente, matura, la fusione di tutte le componenti, compreso il legno di rovere, è semplicemente perfetta, la freschezza rivela una vocazione alla longevità quasi eterna, come se avessi aperto una bottiglia troppo giovane. In realtà la mia idea è che era proprio questo il momento per aprirla, non solo per le condizioni organolettiche, ma perché le bottiglie sono sempre aperte al momento giusto quando il contesto è in grado di capirle e di onorarle. 

C’è una nota crepuscolare in questo racconto, saranno gli anni che sono passati così velocemente, ma forse la consapevolezza di non riuscire a rivivere a livello istintivo questi momenti pionieristici in cui l’Italia del vino si è fatta conoscere nel mondo no più solo per i fiaschi. Ma anche la gioia di averli vissuti e di poterli ancora raccontare, così, all’improvviso...

InvecchiatIGP: Poggerino, Chianti Classico 1989


di Carlo Macchi

Bastava guardare l’etichetta di questo Chianti Classico per farsi un’idea della vendemmia 1989, sicuramente una delle peggiori dal 1970 ad oggi. L’etichetta, che riusciva a far leggere a malapena solo il nome della cantina e l’annata, ricordava molto da vicino l’uva che in quella tremenda vendemmia arrivava in cantina, sotto giornate di pioggia. 


La 1989 è stata una vendemmia lontana anni luce da quelle attuali: intanto il Chianti Classico era un vino molto poco conosciuto nel mondo e incominciava in quegli anni ad affacciarsi con successo sul mercato internazionale. Nel territorio del Chianti Classico le strade bianche erano la maggioranza e anche per arrivare da Poggerino, dal giovanissimo Piero Lanza, i chilometri di sterrato non erano pochi. Le cantine non erano certo quelle di oggi, dove la pulizia e la tecnologia dettano legge, e già questa piccolissima cantina di Radda in Chianti era quasi una mosca bianca in quanto a (semplici) attrezzature di cantina. 


Ma la cosa veramente diversa era il clima. Anche se arrivata tra due grandi vendemmie (1988-1990) la 1989 non fu solo un’annata fredda e piovosa ma fu figlia di un periodo che, tolto le due annate suddette, rappresentò quasi una miniglaciazione chiantigiana. Dal 1986 al 1995 solo due annate su dieci ebbero clima favorevole, le altre furono nella migliore delle ipotesi fredde o fresche, se non anche piovose. Quindi alcolicità basse (12° era già un bel risultato per la zona di Radda, e non solo) acidità alte, vini piuttosto scontrosi nei primi anni e possibilità di invecchiamento per i vini base quasi non considerate. Solo oggi, riassaggiando i vini di quel periodo, si scoprono delle vere chicche, anche e soprattutto nei chianti classico “base”, quei vini fatti bene e non gravati dal peso delle prime esperienze con la barrique. 


Questo 1989, aperto quasi per scherzo, si è presentato sin da subito in ottima forma: aromi terziari sviluppati (terra bagnata, funghi, tartufo) ma nessun segno di ossidazione o di cedimento. La stessa cosa in bocca, dove un’acidità ancora pimpante dettava le regole a tannini oramai soffici ma vivi e dove il poco alcol dava una sensazione di rotondità subito però affiancata e superata da un’elegante sapidità. 


Stiamo parlando di un Chianti Classico di 32 anni, fatto con poca tecnica ma tanta attenzione in una delle zone più alte di Radda in Chianti, da vigneti impiantati durante i Piani Feoga dei primi anni Settanta e quindi fatti per fare quantità e non qualità (oggi probabilmente sono stati reimpiantati da tempo), durante una vendemmia tragica. Questo fa capire quanto il Chianti Classico “base”, quanto il sangiovese chiantigiano, possano dare nel tempo. 

Tanto di cappello a Piero Lanza, perché un vino del genere fu allora un difficile ma meraviglioso punto di partenza per la realtà che oggi è Poggerino.

Alessandro Motta - Vino Bianco Lazzardo


di Carlo Macchi

Un Moscato secco passato in legno? Un azzardo! E invece è stata una grande sorpresa! Naso “da moscato” ma con aromi più eleganti e senza alcun ricordo del legno, bocca fresca, sapidissima e niente finale amaro. 


Lazzardo di Alessandro Motta, anche ottimo produttore di Barbera d’Asti, è riuscito pienamente.

Le Due Lanterne a Nizza Monferrato: evviva la tradizione!!


di Carlo Macchi

Se dici Nizza viene subito in mente la bella cittadina francese sul mare, basta però aggiungere Monferrato e dal mare passi a “Quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così” che, secondo Paolo Conte, hanno quelli di queste zone quando il mare lo vedono.  Nella Piazza centrale di Nizza, un quadrato praticamente perfetto, la faccia un po’ così ce l’abbiamo noi, ma la causa è la fame. Le Due Lanterne diventa quindi il porto sicuro dove approdare. 


Il locale non è certo grande ma ha due sale abbastanza spaziose, rese ancora più vivibili da giusti spazi tra i tavoli. La cucina è dichiaratamente ancorata alla tradizione piemontese e il menù, ci dicono, non ha grandi variazioni se non quelle dovute alla stagionalità. 

Cardo Gobbo

Questo è il momento del cardo gobbo di Nizza e per questo ci fiondiamo sia sul cardo gobbo con peperone e bagnacauda, nonché sul Soufflè di cardo gobbo con fonduta. Il soufflé è indubbiamente saporito ma il nirvana si raggiunge con il cardo gobbo con peperone e fonduta, un insieme di sapori e di consistenza da brivido e da chilo di pane da consumarci assieme. 

Tajarin

I tajarin al ragù di salsiccia sono la logica prosecuzione nella tradizione e a questo punto vi fornisco la mia personale scala di valutazione di un piatto di tajarin: ferma restando la bontà del ragù un tajarin di alto livello si differenzia da un buon tajarin perché solo il primo può essere “aspirato” in bocca. Ha cioè quella giusta consistenza, punto di cottura e il condimento lo rende assolutamente non colloso ma flessibile, rilassato e armonico, che il tutto permette di goderselo non mettendo in bocca la forchetta ma aspirandolo e facendolo scivolare in gola , goduriosamente, dalla forchetta stessa. Quello delle due lanterne era così e quindi tre piatti centrati su tre. 


Per secondo un ottimo coniglio all’Arneis (le ossa spolpate nel piatto testimoniano la sua bontà) è quasi una scelta obbligata, come del resto il carrello dei formaggi con, non si transige, la cugnà piemontese fatta in casa (quella con le nocciole dentro). Tutto questo in poco più di un’ora perché il servizio è molto attento ma per niente invadente. 

La carta dei vini è ovviamente incentrata sul Nizza e sulla Barbera ma abbiamo apprezzato anche la presenta di ottime etichette langarole a prezzi veramente molto interessanti.  Il conto sarà interessante pure lui, perché prendendo tre piatti (senza vino) non spenderete più di 35 euro. 


Con la pancia piena e bella tonda torniamo nella piazza quadrata di Nizza e prima di montare in auto la frase che mi gira in testa è “Le due Lanterne sono proprio la quadratura del cerchio!”

Torna Benvenuto Brunello: 11 giorni dedicati ad operatori del settore ed appassionati (19-29 Novembre)


Undici giornate di degustazioni con 119 cantine per un totale di 4000 bottiglie di vino pronte a essere stappate. È ‘Benvenuto Brunello’, l’evento capostipite delle anteprime italiane che, in occasione dei suoi 30 anni, debutta con un format autonomo e sicuro nell’inedita collocazione autunnale. L’evento, suddiviso in 6 tappe dal 19 al 29 novembre con quartier generale al Chiostro Sant’Agostino del borgo medievale, vede il Consorzio del vino Brunello di Montalcino tenere a battesimo il Brunello 2017, il Brunello Riserva 2016 e il Rosso di Montalcino 2020. Tra le referenze, anche gli altri due vini della denominazione: Moscadello e Sant’Antimo.


Si parte il 19 e 20 novembre con il primo weekend dedicato esclusivamente alla stampa nazionale e internazionale, già sold-out da mesi. Sono circa 90 i giornalisti selezionati, tra italiani ed esteri provenienti da Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Cina, Russia e Polonia, mentre Germania, Francia, Svizzera e Olanda rappresentano il territorio europeo. Non solo degustazioni per l’apertura del palinsesto targato ‘Benvenuto Brunello’. Infatti, oltre alla presentazione del calice ufficiale del Consorzio (19 novembre, ore 12.00), la valutazione della vendemmia di quest’anno e il Premio Leccio d’Oro, anch’esso alla 30^ edizione, sono i temi al centro del convegno in programma sabato 20 novembre (Teatro degli Astrusi, ore 11.00). Nel pomeriggio, il talk show sui ‘30 anni di Benvenuto Brunello’ e la presentazione della Piastrella della vendemmia 2021.

Domenica 21 novembre è la data apripista degli appuntamenti per winelover e operatori del settore, a cui sono riservate altre 5 giornate (dal 25 al 29 novembre, dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00; biglietteria online sul sito del Consorzio).

Al 30° Benvenuto Brunello, spazio anche alle valutazioni delle nuove annate da parte di quasi 90 sommelier e patron di ristoranti stellati a cui si aggiungono dieci Master of Wine, gli esperti della più autorevole e antica organizzazione dedicata alla conoscenza e al commercio del vino con sede a Londra (22 novembre). Tra le sessioni dell’evento di presentazione delle nuove annate del Consorzio del vino Brunello di Montalcino, anche quella in versione social con 50 tra influencer ed enoblogger (23 novembre) e quella riservata ai produttori del Rosso principe dei vini toscani (24 novembre).

InvecchiatIGP: I Capitani, Irpinia Bianco Faius 2013


di Roberto Giuliani

Chi conosce Ciriaco Cefalo e suo figlio Antonio, sa bene che in casa I Capitani, i vini bianchi sono trattati alla stregua dei rossi, concepiti per durare nel tempo. Il problema è sempre stato quello di doverli valutare giovani, appena usciti, perché è quello il momento in cui devi scriverne, affinché qualcuno poi possa trovarli in commercio. Così è accaduto molte volte che con Antonio ho dibattuto sulla questione, poiché un bianco come il Faius, che nell’annata 2013 era composto da fiano al 50% e greco e falanghina per la restante parte, maturati in barrique per circa 8 mesi, dà il meglio di sé dopo almeno 4-5 anni. Un peccato per chi approccia questo vino con l’intento di berlo appena acquistato. 

Azienda Famigliare!

Del resto non si può pensare di lasciarlo in cantina per anni, invenduto, anche perché, soprattutto con i bianchi non c’è ancora oggi né una ristorazione illuminata né un sufficiente numero di consumatori disposti ad acquistarli con un’annata “vecchia”. Così, l’unico lavoro che quelli come me possono fare è, quando è possibile, raccontare questi vini “prima e dopo”, in modo da offrire una lettura ad ampio spettro delle loro caratteristiche nel tempo. 


E il Faius 2013, Irpinia DOC, non può non essere raccontato, sono vent’anni che conosco l’azienda e so bene di cosa è capace questo vino. Anche questa volta non mi ha deluso, rivelando una ricchezza e una profondità da vero cavallo di razza. Impressionante quanto è espressivo dopo solo pochi minuti dall’averlo versato nel calice: spazzata via la fisiologica riduzione, emerge un quadro che spazia da melone galia e albicocca canditi a scatola di sigari, dalla mandorla tostata al miele di zagara e castagno, fino a slanci verso i tropicali mango, papaia e guava, ma si potrebbe andare avanti per molto perché è davvero complesso. Il tutto estremamente vivo, non ossidato o stanco, percezione che non cambia all’assaggio (rigorosamente sopra i 13 °C), dove la base acida che lo ha sorretto in questi 8 anni è ancora percepibile, ben fusa con la polpa che ne trae vantaggio scansando eccessi terziari che ne determinerebbero la possibile discesa. 


Invece tutto è in sintonia, direi armonico, integro e generoso, come non sarebbe mai potuto essere nel 2015, quando è uscito. Del resto o iniziamo a capire una volta per tutte che in Italia ci sono fior di vini bianchi longevi, o tanta meraviglia non la troveremo mai.

Château du Cleray - Famille Helfrich - Sauvion Haut-Poitou Sauvignon Blanc 2020


di Roberto Giuliani

Les Grands Chais de France, fondato nel 1979 dalla Famille Helfrich è il primo esportatore di vino francese nel mondo. 


Questo Sauvignon proviene dal dipartimento di Vienne, terreno calcareo, costa una decina di euro e profuma di peperone giallo, mela verde, lime e pompelmo. Bocca succosa e sapida.

InvecchiatIGP: Villa di Geggiano, Chianti Classico Riserva 2007


di Andrea Petrini

La Villa di Geggiano, di proprietà della famiglia Bianchi Bandinelli dal 1527, si trova a circa 6 km da Siena e, dal punto di vista vitivinicolo, si trova in pieno Chianti Classico, tra i vigneti del comune di Castelnuovo Berardenga. La struttura, che in origine consisteva in un casale con due torri, deve il suo aspetto maestoso oggi grazie a radicali rifacimenti e restauri effettuati tra il 1780 ed il 1790 e da allora, grazie anche ad una disposizione testamentaria di Giulio Ranuccio Bianchi Bandinelli che vietava la possibilità di porre in essere modifiche, la villa è rimasta sempre la stessa, compresi gli eleganti arredi e decorazioni settecentesche in stile “veneziano rustico” con motivi ornamentali tratti dalle Carte di Francia e dalle stoffe Toile de Jouy che rivestono le pareti di alcune sale. 


La Villa di Geggiano (utilizzata da Bernardo Bertolucci come set del film “Io ballo da sola”), dichiarata Monumento Nazionale nel 1976, è anche una apprezzata azienda agricola le cui origini risalgono al 1725 quando Niccolò Bandinelli, che da anni produceva vino nelle cantine della Villa, iniziò ad esportare in Gran Bretagna. Oggi, i fratelli Andrea e Alessandro Boscu Bianchi Bandinelli, e il socio Malcolm Caplan, seguono i principi dell'agricoltura biologica nella gestione dei circa 50 ettari di vigneto dai quali, ogni anni si producono circa 40.000 bottiglie. 

Andrea Boscu Bianchi Bandinelli

Pochi giorni fa, durante un press tour a Castelnuovo Berardenga, ho potuto degustare il Chianti Classico Riserva 2007 di Villa di Geggiano che mi è piaciuto talmente tanto che ad Andrea Boscu Bianchi Bandinelli ho chiaramente detto che avrebbe trovato la recensione all’interno di InvecchiatIGP. 


Questo Chianti Classico Riserva, blend di sangiovese (95%) e cabernet sauvignon (5%), dal punto di vista organolettico rappresenta l’esempio di lampante di come un vino possa assomigliare a chi lo produce. Dal punto di vista aromatico il vino vanta un corredo olfattivo molto raffinato ed austero, accomodato su sensazioni di piccole bacche scure, fiori rossi secchi, macchia mediterranea, cuoio, tabacco da pipa, sandalo ed humus. Al sorso è ancora assolutamente integro, in equilibrio, un raro vestito da sera che ammalia con gentilezza tannica e freschezza minerale. Coerente nei rimandi olfattivi di legni antichi e cuoio. 

Un Chianti Classico Riserva che dimostra come il tempo sia solo un buon amico per i grandi vini italiani. 

Fattoria Carpineta Fontalpino – Chianti Classico “Fontalpino” 2019


di Andrea Petrini

Se il territorio di Castelnuovo Berardenga, in Chianti Classico, si caratterizza per la sua grande luminosità, allora questo Fontalpino, prodotto dalla bravissima Gioia Cresti, ne è l’esatta fotografia. 


Questo sangiovese in purezza è fulgido e leggiadro come un passo di danza classica e fa della beva, assolutamente irresistibile, il suo punto di forza.

Vertis, il Verdicchio di Matelica di Borgo Paglianetto alla prova del tempo


di Andrea Petrini

Con poco più di due milioni di bottiglie prodotte da 19 produttori di vino, l’areale del Verdicchio di Matelica si estende per circa 300 ha attraverso i comprensori di 8 comuni (Matelica, Esanatoglia, Gagliole, Castelraimondo, Camerino e Pioraco nella provincia di Macerata; Cerreto D'Esi e Fabriano in quella di Ancona), nel cuore dell’Alta Vallesina, la sola vallata marchigiana con disposizione Nord-Sud. Un posizionamento parallelo e chiuso rispetto al mare e quindi alla sua azione mitigante, in cui si viene a creare un microclima diverso rispetto a tutte le altre vallate regionali: continentale nelle ore notturne e quindi capace di preservare al meglio l’acidità delle uve; mediterraneo durante il giorno, con un irraggiamento che esalta il contenuto zuccherino degli acini. Proprio queste particolari condizioni, unite ai terreni calcarei e all’altitudine dei vigneti (tra i 400 e gli 850 metri sul livello del mare), influenzano il ciclo vitale del Verdicchio e conferiscono alle uve caratteristiche peculiari che identificano in maniera inequivocabile i vini di Matelica. 


Tra le aziende più rappresentative del territorio, conosciuta già anni fa grazie alla mia continua frequentazione marchigiana, c’è sicuramente Borgo Paglianetto, nata nel 2008, che attualmente si estende per circa 25 ha all’interno delle colline matelicesi le cui uve sono certificate biologiche così come anche tutti i processi di vinificazione e cantina. 


All’interno del suo catalogo prodotti, che prevede ben sei tipologie di Verdicchio, compreso uno spumante metodo classico, il Vertis è stato sempre il vino aziendale che mi ha regalato più emozioni per cui sono stato piacevolmente sorpreso quando, grazie ad Alberto Mazzoni, direttore dell’IMT, è stata organizzata in cantina una verticale storica di questo Verdicchio di Matelica che normalmente viene vinificato ed affina in acciaio per 8 mesi e viene messo in commercio dopo successivi altri 4 mesi. 


Prima di dare qualche info sulle varie annate degustate (dal 2019 fino al 2008) una piccola curiosità sul nome: Vertis deriva dal latino “vertere” (“volgere”) e sta a significare “il punto più alto” ovvero, secondo Borgo Paglianetto, la massima espressione del vitigno di appartenenza grazie anche ad uve proveniente dai vitigni più vecchi, di oltre venti anni, ed esposti a sud. Di seguito le mie note di degustazione che, causa numerose annate, per non annoiarvi troppo, saranno abbastanza sintetiche. 


Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2019
(100% verdicchio): l’essenza del Verdicchio matelicese è tutta in questo bicchiere che contiene un vino luminosissimo, essenziale, teso, agrumato, piacevolmente minerale e con un finale lungo e leggermente ammandorlato. Vino che, presso una scuola sommelier, porterei come esempio didattico del territorio di Matelica vestito di bianco. 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2018 (100% verdicchio): rispetto al precedente ha un naso meno “squillante” e verticale, c’è meno tensione ma più complessità visto che alla frutta bianca croccante si aggiungono erbe aromatiche, salvia su tutte, e cenni di camomilla. Sorso di grande equilibrio e piacevole chiusura sapida. 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2017 (100% verdicchio): l’annata calda e secca non ha certo aiutato i Verdicchi di Matelica che, come questo Vertis, risultano spesso rotondi, “paciocconi” senza essere però, lo sottolineiamo più volte, seduti. Sorso piacevole a cui manca solo un po’ di freschezza e dinamismo in chiusura. 


Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2016 (100% verdicchio): l’annata particolarmente classica, come dicono quelli bravi, regala un Vertis che ha forza e armonia al tempo stesso. Sa di frutta gialla polposa, succosa, quasi esotica, ha cenni di anice e soffi salmastri. Di impatto alla gustativa ma rimane di equilibrio circense e termina con un finale salino e austero. 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2015 (100% verdicchio): dopo la prorompente 2016, questa annata di Vertis sembra leggermente sottotono ma solo perché il vino si veste di eleganza floreale e di sensazioni di selce bagnata che ritrovo specialmente alla beva, soave, che disegna un Verdicchio di Matelica come una dolcissima ballerina che danza sulle punte dei piedi. 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2012 (100% verdicchio): figlio di una annata calda salvata in extremis da gradevoli e costanti piogge settembrine, questo Vertis, dopo quasi dieci anni, subisce una evoluzione piacevolmente anomala visto che tira fuori aromi idrocarburici e di erbe medicinali che lo fanno somigliare aromaticamente ad un riesling della Mosella. Sorso coerente, austero, non di grande persistenza. 


Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2011 (100% verdicchio): l’annata ottimale, con solo il mese di Agosto molto caldo, regala a Matelica, in generale, e a Borgo Paglianetto in particolare, un Verdicchio di gioventù pazzesca i cui caratteri aromatici e gustativi somigliano molto a quelli del 2019. Vino di classe cristallina ed emozionante da comprare a casse…..se lo trovate! 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica DOC “Vertis” 2008 (100% verdicchio): primo anno di produzione del Vertis che dopo 23 anni pecca leggermente in terziarizzazione spinta che esprime sentori di frutta secca, caffè e cera d’api. Sorso ancora importante che inizia però a sgranarsi e a mostrare tutti i segni dell’età.