Il vino del Lazio, lo sappiamo un po' tutti, non gode di grande fama e questo lo possiamo facilmente desumere sia sfogliando le guide di settore, dove i premi sono ridotti al lumicino, sia parlando con la maggior parte dei ristoratori/enotecari di Roma e provincia che, non esenti loro stessi da colpe di carattere comunicativo e commerciale, ne vendono davvero poco e di non eccelsa qualità.
Eppure il vino del Lazio, tanto tempo fa, non era così male, evito di citare per la milionesima volta ciò scriveva Columella ma, senza scavare troppo nella notte dei tempi, è interessante soffermarsi su ciò che scriveva Salvatore Mondini* nel 1899:"Nel Velletrano e nei Castelli romani si coltivano le vigne intensamente, in terreni d’origine vulcanica. I vini che se ne ottengono sono robusti, sapidi e conservabili; e se ne aiuta la conservazione facendoli passare a primavera dalle cantine sopra terra, o tinelli, in ottime grotte sotterranee. (....) A questo primo gruppo di vigneti appartengono anche quelli del Suburbio di Roma, ora più estesi che nel passato; i quali danno prodotto meno pregiato di quello dei Castelli romani, principalmente a causa delle colture orticole che vi si intercalano in abbondanza. La natura vulcanica dei terreni impartisce ai vini dei Castelli romani caratteri speciali, che acquistano pregio con l’invecchiamento e li rendono ottimi anche pei buongustai più esigenti.
Il secondo centro di produzione vinicola è costituito principalmente dal Viterbese, dove la coltura della vite non è così fitta ed intensiva come nei Castelli romani, ma è quasi sempre a palo secco; e le strisce di terreno, che si lasciano tra un filare e l’altro, sono assai strette. Prevalgono le uve bianche; le cantine sotterranee sono meno numerose, ma tuttavia i vini ben fatti si conservano facilmente.
Il terzo gruppo è costituito dal circondario di Frosinone, confinante colla provincia di Caserta, dove le viti sono principalmente coltivate maritate agli alberi. I vini, che se ne ottengono, sono ordinariamente buoni e conservabili nell’inverno. (…) un notevole aumento nelle piantagioni di viti nella provincia di Roma, si è verificato in questi ultimi anni lungo il litorale marittimo e specialmente presso Civitavecchia, Nettuno e Terracina.
I vini del Lazio in generale si possono classificare in vini secchi e in vini pastosi o alquanto dolci. Il più importante mercato pei vini di questa regione è la città di Roma, dove sono ancora preferiti, ed un tempo erano anche molto ben pagati, i vini dolci, volgarmente detti pastosi o sulla vena.»
Qualche anno prima, Camillo Mancini nel testo "Lazio Viticolo e Vinicolo" descriveva così alcune gemme del Lazio:
- il Cesanese, specie quello castellano, che regge il confronto con il pinot nero da cui si possono ottenere vini comparabili alle migliori produzioni del Bordeaux
- l’Aleatico di Gradoli
- discreti anche i moscati
Inoltre,
proseguiva, “già qualcuno si industria di fabbricare dello champagne”, non con
grande successo a parere dell’autore, e “Interessante anche la produzione di
vermouth che potrebbe diventare un’ottima industria per molti paesi del Lazio”.
E
allora, perchè nel Lazio ci siamo persi? Beh, la risposta la fornisce lo stesso
Mondini che, a termine delle sue disquisizioni, già al tempo potrebbe aver
capito un problema nascente: "(....) se
i vini del Lazio fossero fabbricati bene ed accuratamente conservati, non vi è
dubbio che la loro composizione ed i loro caratteri organolettici li farebbero
classificare fra i migliori prodotti in Italia. Disgraziatamente però, tanto la
fabbricazione che la conservazione del vino lasciano molto a desiderare, e
tranne alcune eccezioni, la massa dei produttori è ancora assai lungi
dall’avere adottato quelle pratiche, che altrove hanno fatto ottima prova".
Per uscire da queste sabbie mobili c'era bisogno di una scossa, probabilmente di un cambio generazionale che portasse con sé nuove idee e voglia di rischiare. Non è stato facile e, ancora oggi, parliamo di una nicchia, ma c'è un gruppo di produttori, spesso giovani, che sta cercando di dare nuovo impulso alla viticoltura della Regione cercando, in maniera "naturale", di rispettare in cantina quanto di buono ha dato la Terra. Per capire a che punto siamo arrivati è stata Palazzo Tronconi, assieme a Sandro Sangiorgi, hanno organizzato un seminario dove sono stati invitati dieci vignaioli della "nouvelle vague" del vino del Lazio. Dieci i vini degustati, cinque bianchi e cinque rossi, rigorosamente alla cieca.
Di seguito le mie note di degustazione:
Inizialmente è pungente poi col tempo e la giusta ossigenazione si apre sferzando il naso con ventate di frutta gialla estiva e succosa contornata da sensazioni di fiori di camomilla. Si beve senza problemi grazie ad una freschezza e una sapidità decisamente corroboranti. Un vino centrato e diretto che, scoperto, si è rivelato essere il Convenio "Malvasia Puntinata" 2017 di Casale Certosa.
Dal colore, un giallo quasi ambrato, capisco che lo stile di questo vino tende all'ossidazione e il corredo olfattivo, tutto frutta secca, terra e fiori gialli secchi, non fa che confermare, spero, le mie aspettative che sono superate alla gustativa dove il vino si fa apprezzare per grande equilibrio, sostanza e deciso allungo sapido. Un vino che, scoperto, si è rivelato essere Arcaro 2016 dell'azienda D.S. Bio (100% maturano).
Col terzo vino non ci siamo proprio, è scomposto, inespresso, con sensazioni aromatiche "perose" che fatico a comprendere. Lo bevo e se non sapessi che è vino direi che, forse, è una buona birra artigianale sperimentale. Una volta rivelato ci sono rimasto male perchè l'etichetta era quella del Ribelà Bianco 2017 (malvasia, trebbiano, bombino) Fortunatamente è un vino non ancora in commercio e, fossi stato nei produttori, non lo avrei portato in degustazione visto quanto ancora è indietro. P.s.: di Ribelà ho degustato in passato ottimi vini e questa, fortunatamente, è solo un'eccezione!
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Foto: Sara Hoehn |
Il quarto vino mi ha messo in difficoltà appena messo il naso nel bicchiere per via di una volatile decisamente sopra le media che, a mio giudizio, tendeva a mettere un coperchio piuttosto pesante alla complessità olfattiva di questo nettare che, scavando scavando, si componeva di tante sfumature fruttate e vegetali. Sorso molto rustico, qualcuno direbbe "buccioso", ma la tanta materia a disposizione viene ben gestita da una carica acido/sapida davvero interessante. Un vino anch'esso giovane che promette bene. Trattasi del Costa Fredda 2016 (100% passerina) di Carlo Noro.
Il quinto bianco parte anch'esso con una carica olfattiva sulfurea che, inizialmente, tendeva a sopraffare ogni altro aroma del vino che, fortunatamente, col tempo si apre svelando tutta la sua carica meterica composta da sensazioni di cera e agrumi che si fondono con soffi minerali e di erbe aromatiche. La bocca è graffiante, tesissima e ricca di sapidità. Forse il miglior bianco della batteria. Trattasi del Donna Rosa 2015 (100% passerina) di La Visciola.
La batteria dei rossi si apre con questo vino gioviale grazie alle sua carica aromatica di fruttini rossi leggermente surmaturi che, leggermente freddo come ci è stato servito e mancando quasi totalmente di tannino, tende all'irresistibilità di beva. Probabilmente nessuna guida avrà il coraggio di recensirlo ma, vivaddio, questo è un vino che sa di festa, amici e tanti taglieri di salumi. Trattasi, una volta svelato, del Zitore 2016 (100% lecinaro) di Palazzo Tronconi.
Il rosso successivo, appena lo versano, lo riconosco alla cieca almeno per quanto riguarda la zona. E' color granato, sa di erbe aromatiche, terra nera, radici, macis, piccoli frutti rossi. Al gusto fa venire i brividi per gusto, carattere, equilibrio e profondità. Un rosso stupendo fatto da chi ha trovato la quadratura del cerchio. Non poteva non essere il Cirsium 2015 (100% cesanese) di Damiano Ciolli. Nota: vino ancora non in commercio.
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Foto: Sara Hoehn |
Terzo rosso e terza sorpresa positiva. Davanti a me un vino straordinariamente espresso, almeno inizialmente, e dotato di un corredo aromatico di rara eleganza dove ad un attacco ciliegioso seguono note di viola, erbe aromatiche fresche e profonde sensazioni minerali. Al sorso mi scompiglia i sensi grazie ad una bocca fresca e succosa, ad un corpo apparentemente snello ma gustoso, tannini di buona estrazione e finale lungo e sapido. Se dovessi trovargli proprio un difetto riguarda la tenuta nel bicchiere: dopo un'ora il vino mi è sembrato sedersi leggermente ma siamo di fronte ad un (quasi) capolavoro. Trattasi del Rosso 2016 (sangiovese e grechetto rosso) di Podere Orto.
Il quarto rosso anch'esso è inconfondibile una volta che avvicini il naso al bicchiere da cui emergono, emozionanti, toni di confettura di visciole, gelso, pepe, viola sotto spirito, cioccolato bianco. Piacevolissimo all'assaggio, mai banale o seduto grazie ad una acidità sferzante che rende la beva irrefrenabile grazie anche ad un finale gustoso e pulito. Anche alla cieca non potevamo non riconoscere l'Alea Viva (100% aleatico) 2016 di Andrea Occhipinti
L'ultimo rosso della giornata è probabilmente quello più "crudo" della batteria, c'è un mare molecole odorose che aspettano solo il tempo per districarsi da questa matassa aromatica che promette ma, al tempo stesso, sembra abbandonarti. Al palato è ancora esuberante, graffiante, distratto ma il degustatore attento non può non accorgersi di questa materia gustativa affascinante ma al tempo stesso adolescente che sembra dirti "ciao, ci vediamo tra qualche anno se vuoi uscire con me". Il vino è un altro grande Cesanese di Olevano Romano ovvero è il Calitro 2015 (100% cesanese) di Cantine Riccardi Reale.
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Foto: Sara Hoehn |
Dovendo tirare le somme direi che, limitatamente a questa serata dove alcuni vignaioli hanno giocato non presentando i loro vini di punta, il Lazio che in tanti vedono come una Regione bianchista mi ha invece sorprese per i suoi rossi che ho trovato più inquadrati da un punto di vista aromatico e, soprattutto, di maggiore lettura territoriale. Il risultato comunque è abbastanza convincente e io, pur toccando ferro, comincio a crederci veramente....
*Salvatore Mondini, Produzione e commercio del vino in Italia, Ulrico Hoepli, Milano 1899