Terre di Leone e la loro Valpolicella

di Lorenzo Colombo

Giovanni Battista Perez, nel suo “La provincia di Verona ed i suoi vini”, Memorie Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona ,vol. LXXXVI, 1900, scriveva: “…gli aromatici vini di Marano” Ci siamo ricordati di questa frase, nella quale ci eravamo imbattuti diversi anni fa, assaggiando i vini di Terra di Leone, prodotti appunto a Marano di Valpolicella, vini che si connotano appunto per una caratteristica che, durante l’assaggio dei vini di un altro produttore, anche lui di Marano, avvenuto nel lontano 2013, faticavamo a descrivere e che così avevamo sintetizzato: “…inoltre c’è un qualcosa di non ben definito, difficile da esprimere, quasi una certa sensazione di leggera “aromaticità” che non ricordiamo di aver mai notato nei seppur tanti vini della Valpolicella assaggiati…” 

Ma partiamo dall’inizio. 

Martedì 27 ottobre, abbiamo partecipato ad un pranzo stampa, presso lo Spazio Nico Romito, a Milano, durante il quale sono stati presentati alcuni dei vini prodotti da Chiara Turati e Federico Pellizzari, titolari di Terre di Leone, azienda nel 2005 ma già a metà degli anni novanta parte il progetto partendo da un ettari di vigneto di proprietà del nonno di Federico, che si chiamava Leone (e qui si spiega il nome dell’azienda).


Attualmente Terre di Leone dispone di sette ettari a vigneto, parte in proprietà e parte in affitto, tutti a Marano di Valpolicella, il sistema d’allevamento è a Guyot con densità d’impianto di 7.000 ceppi/ettaro, vi si coltivano le cinque varietà autoctone della Valpolicella: Corvina, Corvinone, Rondinella, Molinara ed Oseleta. Vi si ritrovano però anche vecchi vitigni ormai semiabbandonati, sono infatti 15 quelli ritrovati nel vecchio vigneto del nonno, 14 di essi sono a bacca nera e solamente uno a bacca bianca, successivamente estirpato.


Due le linee produttive, la Terre di Leone, dedicata ai vini più importanti, tutti appartenenti alle denominazioni della Valpolicella, dove si utilizzano esclusivamente vitigni autoctoni, Corvina e Corvinone le principali, ma anche Rondinella, Molinara ed Oseleta. Chi vuole assaporare questi vini non deve avere fretta, vengono infatti commercializzati molto tempo dopo rispetto a quanto previsto dai disciplinari di produzione, basta dire che ora sono in vendita l’Amarone dell’annata 2010 e l’Amarone Riserva del 2011. Unico vino fuori dal coro nella linea Terre di Leone è l’IGT Rosso Veneto “Dedicatum” nel quale vengono utilizzati, dipendentemente dall’annata i 14 vecchi vitigni. 


L’altra linea prende il nome di Il Re Pazzo, sono vini questi dai tempi d’affinamento più brevi, meno impegnativi negli intenti, anche se parlare di “meno impegnativo” per un Amarone ci pare una parola grossa. Anche in questa linea c’è un vino fuori dalla denominazione è il’Igt Rosso Veneto “Mappale 108”. 


La produzione dei vini prevede la fermentazione ad acino intero, quindi le uve non vengono precedentemente pigiate, ma unicamente diraspate, per quanto riguarda l’affinamento si utilizza esclusivamente legno francese con capacità dai 5 ai 25 ettolitri. Sono circa 45.000 le bottiglie prodotte annualmente e, curiosamente e contrariamente alla maggior parte delle altre aziende della Valpolicella, che vedono come sbocco principale per i lori vini l’estero, il mercato principale per Terre di Leone rimane quello italiano. 


Veniamo ora ai vini degustati, sono quattro, tutti appartenenti alla linea Terre di Leone: 

Valpolicella Classico Superiore 2016 

I vigneti si trovano bei comuni di Marano di Valpolicella e di Fumane, a 420 metri d’altitudine con esposizione Sud e Sud-Est, i suoli, d’origine vulcanica, sono composti da tufo basaltico e parzialmente calcarei e sono disposti su terrazzamenti sostenuti da marogne. La composizione del vino prevede 40% Corvina, 20% Corvinone, 25% Rondinella, 10% Molinara, 5% Oseleta. La vendemmia si svolge tardivamente, le uve, dopo un breve periodo d’appassimento in fruttario, vengono vinificate dopo essere state diraspate e senz’essere pigiate; dopo la fermentazione alcolica il vino s’affina per 24 mesi in tonneaux di rovere francese e quindi sosta per un anno in bottiglia prima della commercializzazione. 


Cominciamo col dire che è certamente tra i nostri migliori assaggi di Valpolicella, un vino buonissimo, al vertice della tipologia, al quale abbiamo attribuito un punteggio elevatissimo (che, trattandosi di degustazione palese non riportiamo). 

Si presenta con un color rubino-granato di media intensità, intenso ed elegante al naso, dove cogliamo note balsamiche e vanigliate, frutto rosso selvatico e quella leggera e strana aromaticità descritta all’inizio. Succoso e fresco alla bocca, con bella vena acida e delicata nota speziata, spezie dolci, ma anche un pizzico di pepe, buona la sua persistenza, ma soprattutto il suo equilibrio e la sua eleganza. 2.500 le bottiglie prodotte. 

Valpolicella Ripasso DOC Classico Superiore 2015 

La provenienza delle uve e le prime fasi di lavorazione rispecchiano quelle del vino precedente, dopo il ripasso con la rifermentazione del Valpolicella Classico Superiore sulla vinaccia dell’Amarone il vino si affina in tonneaux e botti di rovere francese da 10 hl. per circa 24 mesi ai quali seguono ulteriori 12 mesi di sosta in bottiglia. 

Il colore è granato-rubino di discreta intensità. Intenso al naso dove prevalgono note surmature e sentori di ciliegie mature, accenni vanigliati dolci, spezie dolci e aromi balsamici completano il quadro olfattivo.Strutturato, morbido e succoso, né nuovamente il frutto rosso maturo ad emergere, con sentori di ciliegie e prugne,, lunga la sua persistenza, su note di spezie dolci. Circa 2.500 le bottiglie prodotte per un prodotto di ottima qualità. 


Prima di passare ai due Amarone assaggiati occorre una precisazione, fornitaci da Federico di fronte alla nostra perplessità nell’andare a degustare un Amarone del 2010 ed un Amarone Riserva più giovane, ovvero del 2011, soprattutto sapendo che si tratta di vini attualmente in commercio La spiegazione in verità è assai semplice, ovvero, a partire dall’annata 2011 Chiara e Federico hanno deciso di commercializzare una Riserva, la 2011 è quindi la prima annata di produzione di questa tipologia. Le uve per questi vini provengono dagli stessi vigneti dei precedenti, unica piccola differenza è che questi hanno un orientamento Sud-Ovest e Sud-Est. Cambia inoltre la loro composizione e la percentuale dei vitigni che, tolta la Molinara prevede: 40% Corvina, 30% Corvinone, 20% Rondinella, 10% Oseleta. Dopo la vendemmia le uve subiscono un appassimento in fruttaio per circa 110 giorni, dopo di che vengono diraspate e fermentate.
Cambia infine, tra i due vini, l’affinamento, sia per quanto riguarda il periodo, come pure (in parte) per quanto riguarda i contenitori. 

Amarone della Valpolicella DOCG Classico 2010 

Color granato, mediamente intenso, con unghia aranciata.
Intenso al naso, alcolico, si percepiscono sentori di prugna secca, ciliegia sotto spirito ed una nota di tabacco dolce. Strutturato, morbido ma fresco, succoso, con una leggera nota piccante che rimanda al pepe, lunga la sua persistenza. Affinamento in botti di rovere francese da 25 hl. per circa 60 mesi e successivamente in bottiglia borgognotta per almeno 12 mesi. 


Amarone della Valpolicella DOCG Classico Riserva 2011 

Alla vista è molto simile al vino precedente. Al naso denota una nota balsamica-vanigliata, sentori di tabacco dolce ed una notevole eleganza. Decisamente fresco al palato, con un bel frutto speziato, elegante, lunghissima la sua persistenza su note di liquirizia dolce, piacevolissima la beva. Un grande vino, curiosamente facile da bere (per quanto possa essere facile la beva di un’Amarone. Affinamento in botti di rovere francese da 10 hl. e da 25 hl. per 80 mesi e successivamente in bottiglia borgognotta per 12 mesi. 


Entrambi vini di grande qualità, con una marcia in più, secondo noi, per la Riserva 2011, un vino quest’ultimo, da posizionarsi ai vertici della tipologia.

Pizza Mater: il futuro della pizza in tempi di pandemia - Delivery IGP



di Roberto Giuliani

Amalia Costantini è ormai nota a livello nazionale, il suo Mater (ex Pizza Mater) è riconosciuto fra i migliori locali italiani per la pizza gourmet, fatta esclusivamente con il lievito madre, che lei coccola quotidianamente da oltre 10 anni. Il locale si trova a Fiano Romano, a meno di 2 km. dal casello Roma Nord dell’A1; nato nel 2015, in pochi anni ha avuto una crescita esponenziale, tanto da essere stato inserito nella maggior parte delle guide e, quest’anno, da aver conquistato i tre spicchi del Gambero Rosso.  Amalia ha sempre amato cucinare, ma il lievito madre è per lei qualcosa di speciale, io ho avuto modo di sentirne persino il profumo, dolce, buonissimo; da Mater, oltre a una serie di pizze di altissimo livello, Amalia propone calzoni, supplì originali, hamburger di vario genere, timballini di gricia, le mitiche polpettine Mater (che non sono altro che olive ascolane al contrario, carne fuori e oliva dentro) e mille altre bontà, dolci compresi (ad esempio le sue cheesecake sono le più buone che abbia mai mangiato); ogni prodotto è frutto del lavoro di Amalia e del suo staff, le materie prime sono di altissima qualità e vengono lavorate sul posto. L’arrivo del Sars-Cov2 ha prodotto subito delle conseguenze, infatti a fianco di Mater c’è l’Irish Mater pub, che avendo pochi posti, è stato chiuso, non era possibile adattarlo alle nuove regole. Gli hamburger e le birre nascono da lì, ora si possono apprezzare anche con il delivery. 


Ho deciso di intervistarla per la nostra nuova rubrica, perché un’esperienza come quella affrontata in questo maledetto 2020, va raccontata in prima persona, è l’unico modo per capire fino in fondo le difficoltà che attraversa chi lavora in questo settore. 

Come hai affrontato il periodo di lockdown di marzo-aprile? Hai chiuso totalmente l’attività o hai fatto il delivery? Con quali modalità? 

Marzo e aprile sono sicuramente stati i mesi più duri del lockdown, quelli in cui il mondo ci è crollato addosso a causa dell’improvvisa e inimmaginabile chiusura totale di tutte le nostre attività. Abbiamo avuto però la possibilità, in questo periodo di riflettere e organizzarci sul come sarebbe stato possibile reinventarsi.  Mezzi di trasporto, nuovo gestionale per le ordinazioni, bancomat wireless, nuovo packaging e le nuove buste per il trasporto comodo e igienico dei nostri prodotti e tutto il resto che è servito per organizzare un servizio di delivery (parola che molti, ancora ad oggi e specialmente in un paese come Fiano romano, faticano a comprendere) che potesse essere utile e all’altezza di quanto era stato fatto nei nostri locali fino a quel momento. Non è stato semplice ma alla fine del mese di aprile siamo riusciti a ripartire.  Le modalità adottate dovevano essere di semplice interpretazione per chi, come noi, doveva affrontare qualcosa di sconosciuto. Igiene, prodotti all’altezza, packaging adeguato, servizio puntuale, cortesia, queste sono le caratteristiche del servizio di delivery e di asporto sulle quali noi abbiamo puntato. Naturalmente per dar vita a questa nuova tipologia di servizio abbiamo dovuto cambiare alcune cose, primo fra tutti L’IMPASTO della nostra pizza. Era necessario infatti creare un qualcosa che risultasse più fragrante e adeguato al trasporto, di conseguenza, fondamentale è stata anche la scelta del CARTONE in pet, novità assoluta sul territorio sul quale dovevamo operare. Il nuovo connubio tra impasto con blend di farine dedicato e il nuovo packaging ha dato risultati totalmente inaspettati che, sommati alla completezza dell’offerta (panini, fritti, birre artigianali anche alla spina consegnate in appositi brik di cartone e menu dedicati ai bambini), sono stati la vera chiave di volta di questo oscuro periodo. 


Quando hai ripreso l’attività, cosa è cambiato? Quali modifiche, eventuali, hai adottato? Il numero di tavoli e di persone che avevi prima del covid, di quanto si è ridotto? 

A un certo punto ci è stata data di nuovo la possibilità di riaprire per il servizio al tavolo ma con grandi limitazioni. Questo è stato forse il periodo più difficile da affrontare. Servizio serale con posti ridotti, l’attenzione maniacale all’igiene personale che ogni cliente doveva tenere all’interno del locale e tutte le ulteriori restrizioni da adottare senza mai abbandonare però quanto di buono era stato ottenuto con il servizio di asporto e delivery. Tutto questo naturalmente utilizzando una forza lavoro al 50%. Bisognava fare ulteriori scelte. La nostra è stata la più difficile. Con il pub ormai chiuso dal giorno 8 marzo 2020 e senza alcuna possibilità di riapertura, dati i pochi posti già esistenti al suo interno, io e i miei ragazzi abbiamo deciso di procedere con un menu per il servizio al tavolo a dir poco azzardato. Fiano Romano, 30 posti a sedere solo pizze a degustazione, lasciando tutto il resto (70% del nostro lavoro) al solo servizio di asporto e delivery. 

E ora che siamo in seconda fase, quali difficoltà hai dovuto affrontare?  Il tuo staff ne ha risentito? Dal punto di vista economico, hai ottenuto degli aiuti dallo Stato? In che misura? 

Parlare a questo punto di seconda fase non è più possibile, le fasi sono fatte di regole certe e durature nel tempo. In questa seconda fase di pandemia, invece, l’incertezza regna sovrana e i continui cambiamenti di rotta insinuano in noi e nei nostri dipendenti paura e timori. Gli aiuti, se così vogliamo chiamarli, sono arrivati anche tempestivamente per quanto ci riguarda ma purtroppo totalmente inadeguati a quelle che erano le previsioni meno rosee di profitto delle nostre tipologie di attività. Purtroppo non sono bastati neanche a mantenere un reddito certo a tutti i nostri dipendenti pre-pandemia. Siamo passati infatti da 12 dipendenti a 3 più la forza lavoro della mia famiglia che fortunatamente non mi ha mai lasciata sola e mi ha permesso anzi di dedicarmi al prossimo durante i mesi più duri del lockdown, nei quali ho potuto recarmi presso molte abitazioni per la consegna di pacchi alimentari. 


Hai delle idee, dei progetti per continuare al meglio l’attività?  Secondo te il governo ha sbagliato qualcosa nei confronti della tua categoria durante questo periodo di pandemia? Cosa avrebbe potuto fare che non ha fatto? 

Ora questa nuova chiusura serale, a parer mio, è inconcepibile e inopportuna, visto quanto accade di giorno in scuole, mercati, supermercati, poste, trasporti ecc. penalizza esclusivamente un settore che ha una sola fascia d’orario per poter ottenere qualche risultato. Sicuramente si sarebbe potuto fare di meglio ma anche di peggio. Non sono io a poter esprimere giudizi su un qualsiasi governo oggi alla dirigenza di questo paese in un momento così complesso, dico solo, e parlo esclusivamente per la mia attività, che con il protrarsi della chiusura e l’impossibilità di effettuare una qualsiasi tipologia di servizio serale, mantenendo in piedi solo delivery e asporto, non si arriva più in là della fine di dicembre. Le strutture non riescono a sorreggersi con un servizio che dà a noi circa un quinto delle entrate del passato.

Marilena Barbera: io e il vino al tempo del Covid-19 - Delivery IGP


Per il mio primo articolo dedicato alla rubrica Delivery IGP non potevo non intervistare una delle vignaiole più intelligenti e social che conosca: Marilena Barbera. Con lei abbiamo parlato, ovviamente, di Covid e di come le piccole aziende vitivinicole come la sua hanno affrontato l'emergenza anche da un punto di vista commerciale.


Ciao Marilena, anzitutto una domanda personale: come stai affrontando questa emergenza?

Ti dirò, tutto sommato bene. In Sicilia siamo stati fortunati dal punto di vista epidemiologico, e vivere a Menfi, un piccolo paese di campagna, aiuta anche psicologicamente. C’è tutta la natura intorno, un paesaggio meraviglioso, il mare a pochi passi, condizioni climatiche straordinarie che ci permettono di vivere all’aperto praticamente 12 mesi all’anno. E’ un contesto che, mi rendo conto, consente di affrontare la pandemia con una serenità molto maggiore rispetto a chi vive in città, o in regioni dove il clima ti impone di rinchiuderti in casa durante l’inverno.

Veniamo ora al tuo mestiere di vignaiola. Mi puoi dire come hai affrontato aziendalmente la situazione e quali sono state le ripercussioni?

All’inizio ovviamente siamo stati colti di sorpresa: il primo lockdown è stato durissimo. La paura di una malattia sconosciuta, l’incertezza economica, la frustrazione di assistere alla totale incapacità gestionale di una classe dirigente profondamente inadeguata. Noi abbiamo chiuso subito, per proteggere noi stessi e le nostre famiglie. Dal 3 marzo e fino alla fine di luglio abbiamo gestito l’ufficio in smart working e, naturalmente, abbiamo adottato tutte le precauzioni necessarie per il lavoro di campagna. Per fortuna in cantina di lavoro rimasto ce n’era poco, perché la maggior parte degli imbottigliamenti era già stata completata tra gennaio e febbraio. 

Immagino che la parte più dura sia stata quella commerciale...

E' stata ovviamente una situazione estremamente delicata. Voglio dire: tutti i nostri clienti sono stati chiusi d’imperio da un giorno all’altro, con nessuna prospettiva se non l’attesa pomeridiana dei bollettini medici televisivi. Terrificante, a ripensarci.

Come l'hai gestita?

Mi sono dunque mossa su due fronti: Italia ed Estero. L’estero, quasi tutto, ha continuato a lavorare. Per me, che esporto molto, è stato un grande sollievo. Il problema era continuare a vederci senza poterci fisicamente incontrare, dato che i viaggi sono stati sospesi (e ancora lo sono). Quindi ho organizzato una hot line con gli importatori, abbiamo condiviso le rispettive reti di relazioni, abbiamo organizzato interviste su IGTV, degustazioni su zoom, abbiamo prodotto video e mandato videomessaggi personalizzati ai clienti che ci garantivano continuità di lavoro. Abbiamo messo a sistema un patrimonio di relazioni che esistevano, ma che non erano mai state gestite in maniera sinergica. E questo, credo, ha fatto la differenza, garantendo non solo il rispetto dei budget concordati a inizio d’anno, ma in alcuni casi e per alcuni vini anche il loro superamento. In questo momento il mio fatturato estero supera del 20% quello del 2019, e non mi stupirei se crescesse ancora un pochino da qui a Natale.


Nel nostro Paese è andata ugualmente?

Tutt’altra musica invece si suona qui in Italia. Perché siamo più lenti e perché siamo tendenzialmente degli analfabeti informatici. Il sito ce l’ha fatto nostro cugino, le mail le guardiamo se c’è tempo, i social servono per condividere gattini o, peggio, i meme su Salvini. Negli Stati Uniti in una settimana hanno cambiato la legge che per 100 anni ha impedito ai ristoratori di vendere le bottiglie di vino all’asporto, mentre qui in Italia stiamo ancora a discutere se sia etico che un produttore abbia un e-commerce “perché farebbe concorrenza alle enoteche”. Quello che ho fatto io, che poi è quello che faccio da 7 anni, è stato potenziare proprio il canale diretto. Che non copre ancora la perdita di fatturato del canale tradizionale, ma offre una bella rete di sicurezza. Al mio shop storico su Vinix, che quest’anno ha movimentato più di 4.800 bottiglie, ho affiancato un ulteriore marketplace: un sistema innovativo basato su una piattaforma logistica integrata che consente di acquistare online e di ricevere, in un’unica spedizione, le bottiglie di oltre 100 vignaioli italiani senza minimi d’ordine né vincoli nella composizione dell’acquisto. Un sistema che garantisce, fra l’altro, le consegne a privati in tutta Europa e nel Nord America ). Risultati? Quest’anno il canale telematico per me vale il 42% del fatturato Italia. Questo è stato possibile grazie ai social, sui quali ho impostato delle promozioni mirate con una buona segmentazione, e alle newsletter – che prendono tanto tempo, ma sono convinta diventeranno sempre di più un canale insuperabile per la gestione delle relazioni e la costruzione della fiducia.

In quei primi mesi di pandemia sei stata anche una dei dei punti di riferimento del movimento "il vino non si ferma". Puoi spiegarmi di cosa si tratta?

Credo che “il vino non si ferma” sia nato dallo sgomento di cui parlavo all’inizio, quel trovarsi di fronte a qualcosa di cui non si percepivano i contorni e di cui non si ipotizzava l’esito. Nasceva come un think tank, un modo per mettere insieme le energie e per elaborare proposte da inoltrare a chi avrebbe dovuto ascoltare le istanze che nascevano nel mondo della produzione. Un modo per affrontare insieme i problemi della filiera, e per mettere insieme i piccoli produttori, i ristoratori, gli enotecari, i distributori, i sommelier, tutti quelli che vivono di vino insomma. Ci proponevamo di essere d’aiuto, fiduciosi che dall’altra parte (la parte della politica, per capirci) ci fosse qualcuno interessato ad ascoltarci. Che cosa abbiamo trovato dall’altra parte? Disorganizzazione, spesso inettitudine, ancora più spesso attenzione ai particolarismi, narcisismi ed ego smisurati, spartizione di risorse senza alcuna trasparenza, promesse di risorse che non ci sono mai state, inefficienze di sistema, ritardi burocratici, mancanza di risposte. Quello che ho visto con estrema chiarezza è che il nostro è un sistema irriformabile, impossibile da penetrare o da migliorare. A queste condizioni non voglio più perderci tempo!

Ti aspettavi questa seconda ondata di epidemia? Come la stai affrontando?

Certo che me l’aspettavo, e ho sempre pensato che la prima ondata fosse solo un assaggio di quello che sarebbe accaduto in seguito, non foss’altro perché stavamo andando incontro all’estate, mentre adesso stiamo solo in autunno, ed è ancora lunghissima. La sto affrontando con la consapevolezza di avere impostato delle strategie commerciali e di posizionamento che hanno già iniziato a produrre i loro frutti, e quindi con molta più serenità.
Certo, mi mancano i viaggi, mi manca il contatto personale con i clienti e con gli importatori, mi mancano le degustazioni e le piccole fiere dove i rapporti umani sono diretti ed emozionanti. Dedichiamo il tempo che abbiamo a coltivare le relazioni con i nostri clienti, prestando la massima attenzione alle loro richieste, alle esigenze che dovessero manifestarci, fornendo loro supporto e valore tutte le volte che possiamo. Dedichiamo le nostre energie ad investire: che sia un nuovo vino, un restyling delle etichette, una giovane vigna o magari una vecchia (magari), ricordandoci sempre che fare il vino è un mestiere bellissimo, e che siamo davvero fortunati ad essere parte di questo mondo.

Si è parlato in passato che l'emergenza Covid, per le aziende che hanno le cantine piene di vino che non sono riuscite a vendere, possa essere affrontata con la distillazione di emergenza. Te pensi sia una soluzione?

Beh, come sai, la distillazione è diventata realtà con il DM 6705 e un finanziamento iniziale di 50 milioni di euro, a cui si sono aggiunti altri 28 milioni lo scorso settembre. Guardiamola in dettaglio questa misura, per capire di cosa stiamo parlando: un prezzo di 2,75 euro ad ettogrado con base 10% di alcol, che si traduce in circa 30 centesimi al litro dai quali devono ancora essere detratti i costi di denaturazione e di trasporto in distilleria. Pensiamo davvero che questi 30 centesimi lordi coprano le spese sostenute dai produttori per la coltivazione, raccolta e trasformazione dell’uva, oltre a quelle di almeno un anno di affinamento? Non solo questa misura non interessa ai vignaioli, ma sottrae loro risorse che potrebbero essere utilizzate, come dicevo prima, per valorizzare il vino anziché distruggerlo.
In quest’ottica, che è poi l’ottica del vignaiolo, il consiglio che mi sento oggi di dare ai miei colleghi - e a me stessa - è di investire quante più risorse possibili in marketing e strategia commerciale, e di impostare una buona programmazione per la produzione dei prossimi anni.


Fammi un esempio...

Impostare al meglio la vendemmia appena conclusa e la prossima: ad entrambe dovremmo chiedere vini che ci permettano una più rapida rotazione del magazzino, vini facili da bere e che possano essere offerti a prezzi in grado di farci ammortizzare le sofferenze di questo difficile 2020, e del prossimo difficilissimo 2021. Una strada possibile, ad esempio, può essere quella di produrre un “vino speciale”, un’edizione più maneggevole di un vino che è già nella nostra gamma oppure proprio un vino del tutto nuovo, funzionale a sostenere il nostro reddito e, in un’ottica di filiera, ad aiutare un po’ anche la marginalità dei nostri clienti ho.re.ca. Non dovremo farlo per sempre, se in futuro non ci sarà più utile, ma non dovremmo neanche vergognarci di proporlo se dovessimo averne bisogno. Sui mercati esteri, parliamo apertamente con i nostri importatori: vi assicuro che la maggior parte di loro sarà felice di partecipare ad un progetto smart che può aiutare sia noi che loro a far girare le nostre etichette.

Ultima domanda: come vedi la comunicazione del vignaiolo nel prossimo futuro?

Dobbiamo tutti lavorarci di più: questo è il tempo di dedicarci al nostro sito web, a renderlo più ricco e funzionale; comunichiamo di più con i nostri agenti e distributori, anche loro stanno soffrendo come noi e più informazioni, più flessibilità, più innovazione possono aiutare anche loro. Non abbiamo ancora un database dei clienti o è fermo all’anno 1000? Bene, rimettiamoci mano, rendiamolo completo e aggiornato: servirà da piattaforma per inviare delle newsletter o delle semplici email di saluto. Aiutano, eccome. Sembra strano dirlo, ma questo è un periodo di trasformazione, non di blocco. E ogni trasformazione porta con sé delle opportunità, che possono diventare delle grandi opportunità se non ci lasciamo scoraggiare dalle difficoltà che sono inevitabilmente ad esse collegate!

Il vino del Collio Friulano secondo Paraschos

Nel Collio, dove tutte le famiglie del vino hanno origine italiana o slovena, il cognome Paraschos, che tradisce la sua origine greca, è una curiosa eccezione che ha origini lontane ovvero quando negli anni ‘70, il salonicchese Evangelos Paraschos, decide di trasferirsi a Trieste per studiare Farmacia. La sua sembra una carriera abbastanza segnata poi, l’incontro con la moglie Nadia, figlia di ristoratori di Gorizia, crea una svolta inaspettata nella sua vita. Grazie al suocero, infatti, scopre la sua passione per la terra e, in particolare, per la vigna domestica che inizia a lavorare con il solo obiettivo di fornire un po’ di vino al ristorante di famiglia.

Evangelos Paraschos

Gli scherzi del destino per Evangelos non sono finiti perché, se produci vino nel Collio e negli anni ‘90 incontri ed inizi a frequentare Stanko Radikon e Josko Gravner, allora clienti del ristorante, è chiaro che la tua vita da vignaiolo inevitabilmente cambierà. In meglio! E così, nel 1997, Evangelos prende il coraggio a due mani e compie il grande passo acquistando all’asta i primi 4 ettari di vigneto tra San Floriano e Oslavia costruendo, l’anno successivo, la sua prima cantina e uscendo sul mercato, nel 1999, con la sua prima vendemmia mentre bisogna aspettare il 2003 per la sua prima annata "naturale".

La cantina e parte dei vigneti - Foto: L'indovino

La viticoltura, ieri come oggi, ha un solo credo:  zero concimi chimici, diserbanti o antiparassitari nocivi. I vigneti sono tutti inerbiti, il terreno viene mosso solo d'inverno se necessario. Le concimazioni avvengono solo saltuariamente ed esclusivamente con letame animale appropriatamente stagionato. Oggi, grazie anche al prezioso aiuto dei figli Iannis ed Alexis, Evangelos gestisce circa 7 ettari di vigneto dove troviamo maggiormente friulano, pinot grigio, ribolla gialla e merlot. In quantità minore sono presenti anche malvasia, chardonnay, sauvignon e pinot nero. Le parcelle sono localizzate tra i territori di San Floriano, Oslavia, Gradisciutta, Lucinico e Sant’Andrea.

Foto: Winetaste.it

In cantina, ovviamente, si segue una filosofia naturale e non interventista per cui l’uva, una volta vendemmiata manualmente, viene fatta fermentare sulle bucce, in maniera spontanea e senza controllo della temperatura, per circa una settimana usando tini aperti di legno o, preferibilmente, di plastica alimentare o vetroresina. “Ogni tipologia di uva raccolta in vendemmia – racconta Alexis - va all’interno di un solo tino e viene vinificata separatamente. L’assemblaggio avviene solo alla fine. Questo per un discorso di pulizia e per evitare ogni contaminazione di tipo batterico”. 



Una volta sfecciato, il vino viene poi passato all’interno di grandi botti di rovere dove rimane in affinamento per almeno due anni prima di essere imbottigliato e commercializzato.


C
on Alexis, che passo a trovare una mattina di estate, degustiamo i seguenti vini:

Paraschos – Kai 2016 (100% friulano): questo Friulano in purezza, provenienti da vigne di 80 anni localizzate a Gradiscutta e Lucinico, rappresenta un biglietto da visita vincente non solo per i Paraschos ma per tutto il territorio del Collio che non può non essere rappresentato da questo vitigno unico così come il vino che, grazie alle vigne vecchie, risulta straordinariamente complesso e vibrante. Aromi di fiori, erbe aromatiche, e frutta a polpa gialla e salgemma anticipano un sorso pieno, vigoroso, ricco di spunti minerali e, soprattutto, lunghissimo e straripante nel finale.


Paraschos – Kai 2
009 (100% friulano): il friulano di Paraschos evolve ma non invecchia. Anzi, aggiunge carattere e complessità ad un quadro generale già di per sé sontuoso e quasi inscalfibile. Al bouquet olfattivo del precedente vino, questo Kai viene impreziosito da sensazioni di nocciola tostata, humus, caramella all’orzo e bastoncino di liquirizia. Il sorso, con al sua vivacità e la sua prorompente freschezza, è un inno al Collio e ad uno dei suoi vitigni prediletti.


P
araschos – Orange One 2017 (50% ribolla gialla, malvasia e friulano): da questo uvaggio tipico del Collio nasce questo orange wine, dove le uve vengono macerate anche fino a quattro settimane, che i Paraschos hanno voluto produrre come tributo al vino tradizionale che si faceva in zona nel passato. Naso, come tutti i vini di questa tipologia, estremamente sfaccettato e dotato di tridimensionalità grazie a tre assi olfattivi caratterizzati da frutta esotica matura, spezie orientali e sensazioni di tostatura. Sorso affatto pesante ma dotato di leggerezza, equilibrio e una certa briosità tannica che lo rende compagno adatto di carni succulente.


Paraschos – Amphoreus “Malvasia” 2017 (100% malvasia istriana): dalle viti più vecchie di malvasia istriana (90 anni di età) dei vigneti di Lucinico e Sant’Andrea si selezionano i grappoli con le bucce più sane che, dopo una diraspatura, vengono lasciati macerare in anfore terracotta cretesi, incerate internamente con cera d’api del Collio, per tutta la durata della fermentazione e del seguente affinamento
(circa 12 mesi) fino a completo illimpidimento e stabilizzazione naturale del vino. Al naso questa malvasia risulta graffiante ma al tempo stesso armonica, si fa apprezzare per i suoi aromi di albicocca disidratata, agrumi canditi, ginestra passita, erbe di campo e cera d’api. Al sorso si apprezza la grintosa texture del vino che gioca su un teso equlibrio tra acidità quasi salmastra e una morbidezza glicerica che avvolge il palato senza eccessi.


Paraschos -
Amphoreus “Ribolla Gialla” 201
5 (100% ribolla gialla): rispetto al vino precedente, come logico immaginarsi, questa ribolla gialla sembra essere ancora in fase embrionale, il corpo e sopratutto il graffio tannico di questo vino hanno ancora bisogno di tempo per amalgamarsi e svilupparsi. Con il suo respiro aromatico di miele millefiori, tiglio, pesca gialla matura e mandorla amara e la sua vigorosa silhouette gustativa è un vino importante che diventerà a mio giudizio prodigioso se ce lo dimentichiamo in cantina per almeno altri 5 anni.



Paraschos – Merlot 2014 (100% merlot): da viti di merlot abbastanza giovani (circa 15 anni di età) nasce questo rosso davvero interessante con un naso articolato dove ritrovo note di mora, confettura di visciole, tabacco da pipa e lievi sentori di china e grafite. Sapore pieno, armonico, la vendemmia non certo calda dona al vino linearità e rigore ed una splendida verve acida quasi salmastra che accompagna un finale nitido e succosissimo. Piccola curiosità: a casa Paraschos il merlot è stato imbottigliato per la prima volta nel 2004, ovvero, la prima vendemmia delle viti da loro piantate nel 2001 a Sant’Andrea. Gli innesti per le nuove vigne sono stati presi dai tralci delle vecchie viti di merlot coltivate nello stesso paese e vecchie anche più di 80 anni.


Nasce Delivery IGP: il vino al tempo del Covid-19



In tempi di ZOOM, Google Meet, videoconferenze, aggregazioni solo e soltanto sul web ci sembra giusto rimarcare il fatto che qualcuno aveva cominciato a farlo da più di 10 anni! Il gruppo di Garantito IGP (dove IGP sta per I Giovani Promettenti).

Sono ormai dieci anni che ogni settimana c’è un articolo condiviso in più giornali online, firmato Garantito IGP. 

Una prova di longevità non indifferente in un mondo dove quasi tutto dura lo spazio di una giornata. L’idea iniziale non era particolarmente ambiziosa, ma decisamente concreta: provare a creare un polo di aggregazione in una fase in cui si assisteva al progressivo sfaldamento dei gruppi di lavoro e di critica.

Un’idea semplice: tre giornalisti coetanei, allora pimpanti cinquantenni, Nord, Centro e Sud che si alternavano ogni settimana. Carlo Macchi, Luciano Pignataro e Franco Ziliani.

Carlo Macchi

Nel corso di questi dieci anni ci sono stati diversi cambiamenti: uscito Ziliani, che preferì il “Garantito da me”, sono entrati Roberto Giuliani, poi Stefano Tesi e l’indimenticabile Kyle Phillips. Insieme abbiamo fatto tante degustazioni e abbiamo via via scoperto, pur nelle nostre diversità, una profonda stima reciproca e una affinità caratteriale tipica della nostra generazione di Peter Pan, quella capacità di fare lo sberleffo anche nel momento più serio, nel luogo più solenne. A cominciare dal nome che ci siamo dati, I Giovani Promettenti.
Poi ancora altri cambiamenti, l’arrivo di Lorenzo Colombo, la tragica scomparsa di Kyle e il successivo arrivo di Angelo Peretti e Andrea Petrini e la seguente decisione di Angelo di lasciarci.

Da quel momento la squadra è rimasta la stessa. 

In questi giorni particolari ci siamo ritrovati, come esempio di redazione online, e ci è venuta la voglia di raccontare quello che sta succedendo nel mondo del vino e del cibo al di là della solita recensione e degustazione: una sorta di Radio Londra capace di raccontare dall’interno una delle stagioni più strane e difficili per i produttori di vino e il settore della ristorazione, in Italia e nel mondo. Certo, questi due settori hanno attraversato tante crisi, ma questa è sicuramente molto particolare. 

Luciano Pignataro

Ci è venuta voglia di raccontarla chiedendo proprio ai diretti interessati, almeno sino a quando non si vedrà una luce: vogliamo commentare quello che succede con i protagonisti e da protagonisti e offrire così una chiave di lettura agli appassionati. L’abbiamo chiamata Delivery IGP e vi terrà compagnia ogni lunedì, mercoledì e sabato, con interviste a produttori, ristoratori e comunque personaggi chiave del nostro settore. Per essere informati senza perdere il sorriso. 

Naturalmente Garantito IGP e il VINerdì IGP restano fissi al giovedì e al venerdì, così per quasi tutta la settimana sarete in nostra compagnia Buona lettura.

Carlo Macchi e Luciano Pignataro 
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Dieci anni fa tondi tondi – ed ecco lunghi brividi per la schiena – mi chiama il Macchi. M’aspettavo il solito motteggio e invece lui era sorprendentemente serio. Senza girarci troppo intorno, mi chiede se fossi disposto a entrare, in sostituzione del dimissionario Franco Ziliani, nel network Igp fondato da lui, Pignataro e Ziliani medesimo.  All’epoca Alta Fedeltà aveva a malapena un anno di vita, io ero ancora assai acerbo di cose online e la mia diffidenza verso l’ambiente non si era del tutto dissipata. 

Stefano Tesi

Ma un po’ la curiosità, un po’ l’idea di dividere il viaggio con amici e colleghi affidabili e simpatici e un po’ l’opportunità di sperimentare quel mondo a me all’epoca piuttosto sconosciuto mi convinsero presto. E da subito fu tutto molto divertente.  Dopo la rubrica del “Garantito” venne quella del “VINerdì”. Ora arriva il Delivery per raccontare quel che succede a 360° nell’enogastro in tempi di covid, ma nel solo modo che piace a noi: l’informazione indipendente (oltre che promettente, si capisce). 

Stefano Tesi 
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"Caro Roberto, ti va di entrare a far parte di Garantito IGP? Sai del progetto, è nato ad aprile con l'intento di creare un gruppo con qualità ed esperienza in una rete sempre più disgregata e dove non è facile orientarsi". "Ciascuno dei soggetti coinvolti in Garantito IGP, mantiene l'attività che ha sempre svolto, quindi continua a gestire il proprio sito/blog, l'intento non è quello di fare un unico sito, ma di condividere uno spazio nel quale ognuno porta il proprio contributo e la propria esperienza enogastronomica". 

Roberto Giuliani

L’idea mi piacque subito, creare un gruppo che raccontasse di enogastronomia condividendone i contenuti in ciascun sito, ma anche fare esperienze sul campo come degustazioni collettive o promuovere l’ormai noto “Premio Gambelli”, che ogni anno elegge il giovane enologo che nello stile richiama in modo evidente la “visione” del compianto Giulio “Bicchierino” Gambelli, sono stati per me uno stimolo importante. In fondo venivo già da un gruppo composto agli inizi del 2000 con l’Acquabuona, Tigulliovino e sempre Franco Ziliani. 
Sono ormai 9 anni che condivido questa esperienza con gli IGP e sono molto contento di questa nuova avventura, il Delivery IGP, che spero verrà apprezzata dai nostri appassionati lettori, dal canto nostro ce la metteremo tutta! 

Roberto Giuliani 
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Sono entrato a far parte del Gruppo IGP nel giugno 2013, dopo una chiacchierata con Roberto Giuliani, che già ne faceva parte, avvenuta durante l’Anteprima della Vernaccia di San Gimignano nel febbraio di quell’anno.

Lorenzo Colombo

Roberto fece la proposta agli altri membri del Gruppo che allora erano, oltre a lui, Carlo Macchi e Luciano Pignataro (entrambi fondatori, assieme a Franco Ziliani, che dopo pochi mesi ne uscì), Stefano Tesi e il compianto Kyle Phillips, scomparso prematuramente pochi mesi dopo il mio ingresso.
Allora scrivevo per Vinealia, associazione nata nel 1998 che, dopo aver pubblicato 12 numeri su carta (da gennaio 1999 a dicembre 2000), fu tra i primi a trasferire il magazine sul Web, rivista per la quale scrissi centinaia d’articoli a partire dal 2005.
Il 17 dicembre 2018 Vinealia cessò le pubblicazioni ed oscurò il sito, da quel giorno ho aperto un mio blog www.ioeilvino.it e, naturalmente, continuo a far parte del Gruppo IGP.

Lorenzo Colombo 
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Se volete dare una colpa circa la mia presenza all’interno di Garantito IGP la dovete dare al buon Roberto Giuliani che ben sette anni fa ha voluto Lorenzo Colombo e me all’interno della famiglia. Se col primo si è cercato da subito di innalzare ulteriormente la qualità delle pubblicazioni, col sottoscritto l’intento, sottaciuto al grande pubblico, è stato quello di abbassare leggermente l’età media del gruppo che soprattutto nella zona toscana sfiorava livelli di guardia. 

Andrea Petrini

Nonostante ciò sono sette anni sono ancora qua e, a parte gli scherzi, sono grato che col mio piccolo blog di periferia “Percorsi di Vino”, edito dal 2007, sia ancora parte di Garantito IGP i cui fondatori sono da sempre punti di riferimento per un “giovane” wine blogger come me che ha sempre voglia di imparare. Ora, con Delivery IGP cercheremo di raccontare l’Italia enogastronomica, e le sue difficoltà, nella maniera più trasparente e qualificata possibile. Come sempre. 

Andrea Petrini 

Cantina Frentana - Donna Greta Terre di Chieti IGP Pecorino 2018

di Stefano Tesi

Ho avuto la fortuna di assaggiare il sontuoso 2016, ahinoi non più reperibile, e allora ho comprato un cartone di eccellente 2018: un po’ per berlo subito e un po’ per dimenticarlo in cantina. 


Pietroso, ricco, variegato e lunghissimo, è la riprova dell’avvenuto sdoganamento (se ce ne fosse ancora bisogno) del vino “cooperativo”.

L'Appetito, il libro che ti fa venire fame solo leggendolo

di Stefano Tesi

Col lockdown, pieno o leggero che sia, non ha molto senso recensire ristoranti dove per un pezzo nessuno potrà andare. E, quanto alle opportunità di asporto e delivery, ci saranno presto novità su questi schermi. Ma di ciò è presto per parlare.
Viste quindi le prospettive di una lunga costrizione sul divano, cosa di meglio che suggerire letture edificanti? E’ il caso di questo libello che ho letteralmente – il verbo non è scelto a caso – divorato.

L’ha scritto Serena Guidobaldi, un’amica nonchè collega con la quale ho condiviso numerose ed entusiasmanti avventure pedestri, essendo lei, col “garantito” Charlie Macchi e il sottoscritto, uno dei fondatori del “Pellegrinaggio artusiano”, ovvero la zingarata enogastropodistica che abbiamo più volte portato in giro per l’Italia.

Serena Guidobaldi

Ma si diceva del libello. Che poi, formato a parte, tanto libello non è. Anzi, occorre dire che una delle prime cose che si notano immergendosi nella lettura di questo romanzo storico, asciutto per dimensioni ma tutt’altro che asfittico, è proprio il contrasto tra la leggerezza del titolo e del taglio tipografico tascabile da un lato e la densità del racconto dall’altro. Un racconto denso nel tema e pure nel tipo di scrittura, tutta da masticare e quasi da metabolizzare: a suo modo complessa e immaginifica, piena di citazioni, finezze, riferimenti, sottintesi e uno scenografico vernacolo romanesco. Un testo articolato, dunque, ma non privo di crudezza e a volte di un gusto grandguignol tipicamente fumettistico, che infatti non rinuncia a illustrazioni gotiche e a parentesi teatrali. Serena del resto è anche una brava autrice di graphic novel e si vede.


L’opera si intitola “L’Appetito” e già in ciò è tutto un programma. Il titolo suona soavemente provocatorio, considerato che il fil rouge della storia non è certo il borghese – e in fin dei conti perbenista, per non dire eufemistico – appetito, appunto, ma quella sua declinazione popolare, viscerale e spesso dolorosa che si chiama “fame“. La fame atavica del popolino, quella che in certi strati miserabili si succhiava col latte materno e che, anche in caso di un destino fausto, ci si portava dietro tutta la vita, come una canagliesca condizione dello spirito, un cinico riflesso condizionato capace di indurre, in apparenza giustificandoli, ogni bassezza, ogni stratagemma, ogni inganno e, ovviamente, ogni delitto. E’ in questo scenario che si dipana una fosca storia a cavallo tra tante cose: due città, Roma e Parigi; due secoli, il il ‘700 e l’800; la rivoluzione, l’impero, la restaurazione. Dove una lunga striscia di sangue, di sugo, di minestre e di scodelle accompagna le vicende, vivide e sordide, di un’umanità macilenta in ininterrotta relazione col cibo. Gente per la quale, suo malgrado, il mangiare funge da legante quotidiano delle ore della giornata fra tragedie, amori, morti, avventure, beffe e prigioni. 

Non sta bene, recensendolo, rivelare la trama di un libro che anche sulla trama basa la sua forza. E non lo farò certamente io, perchè l’opera è pure agile e la lettura avvincente. Tra graveolenti odori di zuppa, serramanici scintillanti, parroci di malaffare, emigrati d’antan, balordi de noantri, ricchi e poveracci, sembrerà spesso di calarsi nelle atmosfere e perfino nei suoni del Marchese del Grillo. Ma con lo stomaco molto più vuoto e con molta meno voglia di scherzare. Eppure lo spirito se ne gioverà.

“L’Appetito”
di Serena Guidobaldi
Eris Edizioni, 2020, 190 pagine, 13 euro.