Marisa Cuomo - Costa d'Amalfi “Fiorduva” 2018

Un bianco nazionale che nasce sui terrazzamenti strappati alla roccia della Costiera Amalfitana. 


A due anni dalla vendemmia ancora giovane ma 
già ricco al naso e appagante al palato, finale travolgente, iodato. In attesa di una sua promessa evoluzione.

Di Cantine Astroni e di come evolve il loro grande Piedirosso

di Luciano Pignataro

Quanto vive il Piedirosso?  Dopo venti anni di degustazione prove, protocolli in acciaio, in legno piccolo e grande, cemento e compagnia cantando, si può ragionevolmente affermare che dal punto di vista del consumatore questo vino può essere stappato subito per godere i suoi generosi respiri floreali oppure lasciarlo maturare mediamente tra due ai tre anni, in ogni caso non più di cinque. Si tratta di una regola generale e come ogni regola, soprattutto nel vino, può avere le sue eccezioni, ma per arrivare a queste conclusioni dobbiamo anzitutto dire cosa è il Piedirosso.

Grappolo di piedirosso

Si tratta di un vino ottenuto da uve omonime allevate prevalentemente in provincia di Napoli, entra di forza nella doc Lacryma Christi, è l'unica cultivar della Campi Flegrei doc, importante nella Penisola Sorrentina doc (nel Gragnano) e in Ischia doc. E' un uva antichissima, tipica della Campania (non si trova fuori dalla regione come invece accade per l'altro rosso campano, l'Aglianico, presente in Basilicata, Molise, Puglia e Calabria) che ama il suolo vulcanico e il caldo. Viene coltivato, con poca convinzione ma con ottimi risultati, anche nel Sannio e in minima parte nel Salernitano.


Il Piedirosso rappresenta il carattere del proprio territorio, è un vino allegro, beverino, dai tempi brevi, non impegnativo dal punto di vista gustativo, che ben si adatta a gran parte della cucina partenopea, è il vino della costa campana sostanzialmente. Ha tannini poco pronunciati, e questo lo rende immediatamente bevibile oltre che usato per tagliare l'Aglianico, vino dai tempi lunghi per eccessi di acidità e presenza in esubero di tannini.


Il Piedirosso è un vino difficile in vigna perché poco prolifico, anche se questo ormai è diventato un pregio e non un difetto nella viticultura moderna. Ma è difficile anche in cantina dove solo da una ventina d'anni, appunto, si sono centrati i protocolli giusti per evitare gli eterni sentori di ridotto e di poca pulizia olfattiva e gustativa che lo hanno segnato per un lungo passato. Ogni vino deve fare la sua parte, un po' come le auto: meglio una Smart di una Ferrari sul Grande Raccordo Anulare o nelle strade delle città. La strada che ha puntato a farne un vino in stile anni '90, con legno piccolo e surmaturazioni in vigna, non ha dato grandi risultati perchè alla lunga ci si è fermati proprio di fronte alla caducità di questo vino e al suo crollo immediato in bottiglie dimenticate per qualche tempo e rovinosamente stappate poi tra la delusione generale. Insomma, il risultato è lo stesso quando si vogliono fare vini pronti con forzature enologiche di uva che regalano bottiglie strutturate come l'Aglianico. Venti anni di degustazione hanno fissato una volta per tute il concetto che l'Aglianico giovane e il Piedirosso invecchiato sono due ossimori.


Sono queste le considerazioni che si sono fatte al termine di una verticale a Cantine Astroni, la bella azienda dei Campi Flegrei protagonista della riscossa di questo vitigno insieme ad una bella pattuglia di giovani vignaioli. Una cavalcata iniziata nel 2007 e proseguita sino alla 2019 nella quale si è potuto vedere questa continua progressione qualitativa.

Ma il colpo finale a sorpresa sono state le due bottiglie prodotte quando l'azienda si chiamava ancora Varchetta datate 2003 e 1999

Famiglia Varchetta 1940

Questo il cognome di una delle famiglie di vinificatori che sin dall'800 circondavano Napoli in una sorta di tangenziale del vino che partiva dai Campi Flegrei con i Martusciello e proseguiva con Varchetta a Napoli, De Falco a San Sebastiano al Vesuvio, Russo a Terzigno, Scala a Portici. Un'altra era geologica che termina grosso modo con la crisi del metanolo del 1986 che costringe tutti ad un ripensamento globale in Italia e che trasforma alcuni vinificatori in produttori. La storia di Varchetta è proprio questa, con le nuove generazioni, prima Gerardo Vernazzaro e poi Vincenzo Varchetta a studiare Enologia e a fare esperienze in giro. Ecco perchè è affascinante bere queste vecchie bottiglie, figli di un'epoca di transizione, che all'epoca costavano circa quattro mila lire diventate poi quattro-cinque euro.

Gerardo Vernazzano e le sue bottiglie

Quando passa tanto tempo si finisce a parlare delle annate più che delle bottiglie. Due annate particolari perchè la 2003, ricorderete, è stata la prima annata tropicale che abbiamo vissuto in Italia con un caldo estenuante e lungo e temperature pazzesche. Annata che però per le varietà tardive alla lunga sono state molto generose. In questo caso il Piedirosso ha sicuramente retto bene alla prova del tempo presentandosi scarnificato ma con una buona acidità che lo teneva in piedi e una nota fumè, di gomma bruciata, che aveva completamente offuscato i sentori di frutta e di geranio tipici del vitigno.


La 1999 è annata particolare per la sua perfezione, potremmo dire l'ultima vera grande annata per gran parte del vino italiano che dopo non ha avuto eguali in vigneto. In questo caso il vino è apparso sicuramente più tonico, fine, con spunto di frutta rossa sotto spirito e una verve al palato decisa ed intrigante.

Si tratta della prima annata che ha visto l'ingresso in azienda di Gerardo Vernazzaro e da allora veramente si sono fatti grandi passi in avanti nella conoscenza del comportamento di questo vitigno apparentemente allegro e gioioso ma in realtà difficile e complicato per chi lo lavora.


Dunque, per rispondere alla domanda iniziale, quanto viva il Piedirosso? Molto a lungo, almeno vent'anni. Ma è meglio berlo non oltre il quinto anno dalla vendemmia.

Nasce Enosearcher, il più grande aggregatore di offerte di vino in Italia!!!

A volte i progetti migliori vedono la luce nei momenti più difficili: è nato Enosearcher, il primo portale italiano che aggrega le offerte di vini in vendita online e propone all’utente una scelta accurata e su misura. L’idea ha preso vita e sostanza durante il lungo lockdown che ha duramente colpito tutta la popolazione italiana e mondiale in questo complesso 2020, dal sogno al piano, dalla visione al progetto: supportare il paese nella vendita di una delle sue maggiori eccellenze. 

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A realizzarlo è stata la software house di Busto Arsizio SDV, software development vault s.r.l., azienda che dal 1999 si occupa di sviluppo web in modo attivo comprendendo le esigenze dei clienti e del mercato anche prima del tempo, come dimostrano i loro primi progetti pubblicati nel 2000 e tuttora on line. Stavolta SDV ha voluto sviluppare un software che fosse in grado di ricercare in rete tutti i dati e le informazioni necessarie per identificare le migliori offerte on line del settore vinicolo e proporle all’utente in modo ordinato in base a una serie di parametri stabiliti al momento dello screening. 

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L’utente, quindi, è chiamato ad effettuare una ricerca su Enosearcher: per ogni query il sistema, e perciò il portale, mostra tutte le offerte presenti in rete e le aggrega sotto la stessa bottiglia, a dimostrazione di una usabilità semplice e alla portata di tutti. Il servizio offerto da Enosearcher è completamente gratuito e privo di pubblicità, la sua struttura rende l’utilizzo agevole e intuitiva e, soprattutto, il portale è assolutamente unico nel panorama italiano. La software house SDV è riuscita nell’intento di realizzare un prodotto facilmente fruibile partendo da un’idea complessa: per la raccolta, il raggruppamento e l’analisi dei dati sono serviti tempo e alte capacità tecniche che si possono dimostrare parlando di 144.997 pagine web analizzate, 127 differenti shop online e 157.175 differenti offerte estratte. La tecnologia di estrazione, di esposizione e di raggruppamento dei vini è proprietaria di SDV. 

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Oggi Enosearcher propone vini di quasi tutte le denominazioni di origine italiane più, per quanto riguarda l'estero, offerte sullo Champagne con l'intento, per il futuro, di inserire altre tipologie di vino in modo da accontentare i palati di tutti i wine lovers. 

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Non solo Enosearcher è il più grande aggregatore di offerte di vino in Italia, ma è in fase di realizzazione la traduzione in inglese per rendere il sito visibile e usabile anche in tutta Europa. 

Che aspettate e a fare un giro sul sito?


Per maggiori informazioni: SDV, software development vault s.r.l. Via Gavinana 19, 21052 - Busto Arsizio (VA) https://www.softwaredevelopmentvault.com/ info@softwaredevelopmentvault.com +39 0331 1587905

Bruno Clair - Marsannay Les Vaudenelles 2013


di Carlo Macchi

Bruno Clair, "marchio" borgognone che tutti conoscono. Vaudenelles è uno dei vini d’ingresso al loro quasi sterminato numero di etichette . 


Da una parcella di 1.3 ettari, piantata tra il 1969 e il 1976. Ritroso all’inizio si apre con note anche sanguigne, particolari: la bocca è un velluto, ma in guanto di ferro.

Dal 1930 al 2017. La verticale storica del Carmignano DOCG "Villa di Capezzana" è una pezzo di storia italiana!


di Carlo Macchi

Sembrava di un’altra epoca e lo era. Del resto tra il 1930 e il 1969, il 1974 o il 1977 ci son come minimo quasi quarant’anni e il vino il quel bicchiere, almeno dal colore, sembrava fuori posto. Come se io entrassi in una discoteca piena di ventenni.

E poi il 1977 (“solo” 47 anni di differenza) non era certo il vino più giovane. A sua volta per lui erano bambini il 1995, il 1998, per non parlare del 2006, 2010, 2016, 2017. Forse il 1977 si poteva “intendere” con i quasi coetanei 1981 o 1988 ma da una degustazione che spazia per 90 anni della nostra storia non puoi aspettarti che i vini parlino la stessa lingua e si capiscano (o si facciano capire) al volo.

Così quando da quei 12 bicchieri di Villa di Capezzana più che profumi hanno cominciato ad uscire voci mi sono messo ad ascoltarle rapito.

1930: “Scusate giovane, ma quel 1969 che è scritto lì, a cosa si riferisce?

1969: “A cosa vuole che si riferisca, all’anno in cui sono nato! A proposito, se quel

1930 è il suo anno di nascita lei è parecchio vecchio!”

2017: “Perché sarai giovane te! Nel 1969 la mi’ nonna era per strada a Parigi e gridava a squarciagola - C'est ne qu'un début, continuons le combat- tanto per farti capire.”

1930: ”Le barricate a Parigi? Me lo immaginavo! Quelli del Fronte Popolare sono sempre stati pronti a creare problemi. In Italia con il Duce queste cose non possono succedere!”

1988: “Il Duce? Sveglia nonno! Il fascismo è morto e sepolto da più di 40 anni e oggi l’Italia è una Repubblica.”

1930: “Una Repubblica? Davvero?

1974: “Ma dove avete vissuto fino a ora? La guerra e il fascismo sono finiti da quasi vent’anni e e ormai siamo un paese industrializzato.”

2010: “Industrializzato e internazionalizzato pure troppo, la crisi economica mondiale dell’anno scorso c’ha messo in braghe di tela.”

1981: “Ma di che crisi stai parlando? Anche se l’inflazione è quasi al 20% con Spadolini Presidente del Consiglio e soprattutto con Pertini Presidente della Repubblica non siamo messi male.

2006: “ Pertini? Quello del mondiale del 1982? Ma chi se lo ricorda più! E poi dopo il culo che abbiamo fatto a tutti quest’anno in Germania…Po popo popopo po 

1930: “Cosa? Abbiamo sconfitto la Germania? Lo sapevo! Quella Repubblica di Weimar faceva acqua da tutte le parti”

2016: “Nonno, ma di cosa parli! A parte che tra vini parlare d’acqua non è educato, ma basta andare 10 minuti su internet per capire cosa è successo in questi anni.”

1930: “Al tempo giovane! intanto mi dia del Voi e poi dove dovrei andare a vedere? Dov’è questo Internè, in Francia?”


Scusate se ho volato con la fantasia ma ho pensato che il modo migliore per capire come affrontare una verticale che copre un periodo temporale immenso sia provare, almeno un minimo, ad identificarsi con ogni periodo toccato, con ogni epoca (termine non scelto a caso) dove, anche se si parlava la stessa lingua, si hanno parametri sociali e riferimenti storici diversi. Anche nel vino è così, perché se è chiaro che un vino del 1930 non può essere stato fatto come uno del 2017 è forse meno chiaro ma non meno vero che tra un 1969 e un 1981 c’è un abisso enologico, altrettanto tra un 1988 e 2006 e forse il compito più difficile per un degustatore è quello di essere il “pontefice” della verticale.

La famiglia Contini Bonacossi

Non il papa ma il pontefice, termine di derivazione latina e che vuol praticamente dire “facitore di ponti”. In questo caso i ponti da creare sono storico-enologici e servono per capire e far capire come sia cambiato e perché il modo di fare il vino negli ultimi 90 anni, a Capezzana, a Carmignano e non solo. Quindi questa degustazione, organizzata in maniera ineccepibile dalla famiglia Contini Bonacossi, oltre ad avermi fatto degustare vini indimenticabili (del 1930 dirò alla fine… ve lo dovete meritare!) mi ha anche conferito l’onere e l’onore di cercare di presentare a volo d’uccello i grandi cambiamenti enoici avvenuti in questi 90 anni.

Partiamo da oggi, con Villa di Capezzana che potremmo definire muscolari se non fossimo, appunto, a Capezzana, dove storicamente Sangiovese e Cabernet Sauvignon convivono 2017, 2016, 2010, 2006 hanno lo stesso uvaggio (80% sangiovese, 20% cabernet sauvignon) ma soprattutto li accomuna un periodo di “riscaldamento globale” che li porta tutti a parametri analitici praticamente identici, con gradazioni alcoliche sui 14.5°, Ph prossimi a 3.50 e acidità totali vicinissime a 5.50.

Se sono così simili cosa li differenzia allora? Prima di tutto la mano dell’uomo e poi l’andamento vendemmiale che in alcuni casi non ha avuto bisogno di “frenate”, mentre in altre, vedi 2017, ha visto interventi mirati (non solo vendemmie anticipate ma gestione della chioma, diradamenti etc.) per evitare di fare vini troppo rotondi e poco freschi. Tutti infatti hanno estratto secco prossimo a 33 g/l (il 1930 ha 24 g/l…) con delle corpulente batterie di tannini, sempre più rotondi e armonici mentre si viene avanti con gli anni. Per esempio, la 2006 l’ho definita “dinamica con tannini importanti ma distesi e quasi pungenti” mentre la 2017 è “corposa, con grande concentrazione di tannini dolci e rotondi.”


Se proviamo ad andare qualche anno indietro nel tempo, arrivando al 1995 e al 1998, dal punto di vista analitico notiamo una diminuzione del grado alcolico di quasi un punto e mezzo e infatti la prima annata ufficialmente calda è targata anni 2000. Negli ultimi anni del millennio (e poi per almeno altri 5-6 anni) erano di moda vini molto estratti e concentrati e, specie in Toscana, lo stile “Supertuscan” portava a prodotti dove il legno accompagnava spesso vini figli di una grande estrazione, con tannini grossi come cavalli, acidità relegate in cantina e notevole “mangiabilità”. 

Per fortuna Capezzana ha sempre avuto il suo stile, che per definizione è l’opposto della moda, e questi due vini, un 1995 molto dinamico e un 1998 setoso ma deciso al palato, ne sono la dimostrazione mostrando (anche analiticamente) una freschezza notevole. Si incomincia a capire che lo stile Capezzana è basato sull’equilibrio e sull’eleganza, uniche armi che possono garantire una vita lunghissima al vino. Dal punto di vista dei profumi si notano ancora bei sentori di frutta ma affiancati da china, cuoio, liquirizia e qualche bella punta di cassis. Li ho definiti vini “educati” se confrontati a tanti che in quegli anni colpivano solo per rozza potenza. Non per niente Capezzana era difficilmente premiata dalle guide vini di allora, proprio perché i modelli erano altri. Questo non ha fatto mai spostare il tiro alla famiglia Contini Bonaccossi, dove allora il Conte Ugo era ancora il patriarca incontrastato.

Le 12 bottiglie

Bastano pochi anni indietro per domandarsi, come nella canzone di Raf (chi se la ricorda?), cosa è restato di quegli anni ‘80. Lo capiamo dal 1988 e dal 1981, figli della prima vera internazionalizzazione del vino italiano e toscano in particolare. In quegli anni il mondo si rese conto che anche da noi si facevano grandi vini, anche se spesso grazie a annate toccate dalla grazia di dio, come la 1988 che, dal punto di vista agronomico e enologico, è sicuramente molto più vicina non solo alla 1981 ma alla 1977 e alla 1974 che non alle vendemmie degli anni ’90, dove si parlava di concetti allora inesistenti, come diradamenti in vigna e controlli di temperatura in cantina. La 1988, anche se la bottiglia non era al top, ha mostrato appunto quella perfezione che solo poche annate possono avere. In bocca, mi ripeto, rasentava la perfezione con seta al posto dei tannini e tutte le cose al loro posto. Un sogno di vino (scusate il gioco di parole) che si è potuto mantenere così grazie appunto allo Stile Capezzana che, anche senza le moderne tecnologie, prediligeva vini dove il sangiovese, il cabernet sauvignon e il canaiolo (che è stato tolto a partire dal 1998) portavano allora a vini magari un po’ ruvidi nei primi anni ma sempre equilibrati. Con il 1988 si cominciano a sentire aromi che non solo vanno su note speziate (menta, liquirizia) ma puntato a sentori terrosi, fungo e tartufo soprattutto. Il 1981 mette subito in campo un’acidità importante e netta (una delle gambe del vino, si diceva un tempo) che, con una gradazione sotto ai 13°lo rende freschissimo, ma sempre armonico e sapido. Il naso è cangiante e addirittura dal tartufo iniziale punta verso nota di frutta matura e floreali, con sambuco e lavanda in primo piano. Un vino di una vendemmia non certo eccezionale ma che ha trovato in una certa “leggerezza iniziale” la strada per maturare alla perfezione.

I bicchieri

Arriviamo agli anni ’70, che ci portano in quella che potremmo definire la “preistoria” dell’attuale vino toscano. Annate più fredde, rese più alte, maturazioni più lunghe (quando la maturazione c’era) portavano a vini sicuramente (usando un parametro odierno) più diluiti, dove l’acidità marcava il vino e il tannino non aveva certo la rotondità di un vino moderno. Una viticoltura che sembra lontana anni luce (non era finita da molto la mezzadria!) anche se stiamo parlando di nemmeno 50 anni fa. 1977 e 1974 sono figli di questo periodo ma ne escono alla grande.

Invece ne esce alla grandissima il 1969, che accomuno ai due precedenti come periodo e che è stato il vino che mi ha più sorpreso, addirittura più del 1930. E’ stata la prima annata della DOC Carmignano e porta altissimo il blasone della denominazione grazie a una incredibile potenza e freschezza al palato, a una profondità gustativa immensa e una dinamicità scorbutica ma comunque armonica che mi hanno lasciato di stucco. Un vino da cui imparare e sicuramente a Capezzana l’hanno fatto.


Arriviamo al 1930 con un salto temporale che impressiona. In quell’anno, tanto per dirvi, si sposò la figlia di Mussolini con Galeazzo Ciano e il partito Nazionalsocialista di Hitler ottiene un’importante vittoria alle elezioni tedesche. Quel 1930 che mi guarda con tono fintamente dimesso dal bicchiere non è un vino ma un libro di storia! Pare che venne fatto da Alessandro Contini Bonaccossi, nonno del Conte Ugo, con l’aiuto di un esperto di agronomia che aveva un cognome molto particolare: Gattamorta. Un vino che è stato “sepolto vino” per evitare che gli invasori tedeschi lo trovassero, un vino che, anche se non lo faccio spesso, devo descrivere attentamente. Aranciato leggero, anzi ambrato ma ancora abbastanza brillante, anche se il colore è un po’ diluito. Al naso una sensazione tostata e poi più chiaramente un incredibile profumo di croccante alle mandorle seguito dal profumo di nocciole, di erbe officinali e fiori. Un’acidità netta e quasi metallica che sembra rimbalzare sui denti porta a sapidità e a un corpo leggero ma per niente arrendevole.


Chiudo questo libro di storia con il rimpianto di non poterlo aprire più, ma poi penso che forse, in futuro, la famiglia Contini Bonaccossi mi inviterà per stappare un’altra bottiglia del centinaio (centinaio!) che hanno ancora in cantina.

Finisco con tre ringraziamenti: alla famiglia Contini Bonaccossi per essere da anni un esempio di come produrre grandi vini, a Franco Bernabei (enologo della cantina e caro amico) per avere analizzato tutti i vini così da averci fornito informazioni importantissime per capirli e infine ai vini che ho degustato, dodici lezioni su cosa di bello può riservarti la vita e la vite.

Castello La Leccia, tutto il bello del Chianti Classico!

Ci sono posti incantanti nel Chianti Classico, uno di questi è sicuramente il Castello La Leccia, un gioiello di rara eleganza e storicità (la costruzione risale al 1077) situato a Castellina in Chianti (Località La Leccia). 


Oltre ad essere un lussuoso agriturismo di charme, Castello La Leccia è anche una affermata azienda agricola che si estende per centosettanta ettari, dei quali: quindici ettari vitati e dieci ettari di olivete biologiche (dove si coltivano, secondo la tradizione toscana, piante di Leccino, Moraiolo e Correggiolo), tra boschi di lecci secolari.

Da un punto di vista prettamente vitivinicolo, all’interno dei vigneti aziendali, tutti esposti a sud e sud-ovest e gestiti secondo i principi dell’agricoltura biologica (certificazione 2013), si coltivano per ora solo ed esclusivamente uve a bacca rossa come sangiovese, malvasia nera e syrah la cui difesa fitosanitaria è ridotta al minimo attraverso il solo uso di rame e zolfo. Il giusto apporto di sostanze organiche al terreno è assicurato in modo naturale: tra i filari crescono orzo, trifoglio e senape, ed il compost è ricavato dalle vinacce e dai raspi.


In questa zona il suolo è povero, ricco di scheletro e costituito da roccia calcarea e galestro, uno scisto argilloso che si sfalda facilmente e che, in presenza di acqua, si scioglie cedendo al terreno microelementi particolarmente preziosi per la pianta. Questo tipo di roccia ha un’azione modulatrice sul grado di umidità, possiede caratteristiche drenanti, ma in momenti di stress idrico è in grado di trattenere un certo livello di umidità grazie alle sue inclusioni argillose.


Le uve vengono vendemmiate e vinificate separatamente selezionando con cura ogni parcella di ogni singolo vigneto. In cantina la fermentazione, avviata dai lieviti autoctoni, si svolge in vasche di acciaio a temperatura controllata. Dopo la svinatura, il vino prosegue la fermentazione malolattica nel cemento o nel legno, in base a un criterio che tiene conto esclusivamente della soluzione ideale.




Per l’affinamento, la scelta fra vasche di cemento, botti di rovere, tonneaux oppure barriques è dettata dalla considerazione di ogni singolo caso specifico.

Castello La Leccia produce quattro etichette: il “Vivaio del Cavaliere” (Toscana IGT), il Chianti Classico DOCG, il Chianti Classico Riserva “Giuliano” DOCG e il “Bruciagna”, il Chianti Classico Gran Selezione DOCG.

Durante la visita in cantina, supportati dal bravissimo direttore Guido Orzalesi, abbiamo degustato le seguenti annate:

Castello La Leccia – Vivaio del Cavaliere 2018 (75 % Sangiovese, 3 % Syrah, 22% Malvasia Nera): si dice sempre che il vino di entrata di una azienda vinicola sia un passaporto importante per capire la sua filosofia qualitativa. Le premesse, in questo caso, sono più che ottime visto che questo blend, vinificato in acciaio e affinato successivamente in cemento, è assolutamente centrato in succosità, complessità fruttata e progressione gustativa. Costa meno di 9 euro (!!!!) e potrebbe diventare benissimo il vino quotidiano di molte famiglie italiane.


Castello La Leccia – Chianti Classico 2017
(100% sangiovese): un vino che già avevo provato durante l’anteprima del Chianti Classico a Firenze e che avevo segnato tra gli assaggi più promettenti. Netti profumi di peonia, prugna, ciliegia e mineralità scura. Di buona beva, con tannini ancora evidenti sorretti da freschezza e sapidità importanti. Il vino viene vinificato in acciaio e affinato parte in legno e parte in vasche di cemento.


Castello La Leccia – Chianti Classico Riserva “Giuliano” 2015
(98% sangiovese, 2% malvasia nera): vini assolutamente profondo che al naso si esprime immediatamente e prepotentemente con sensazioni di confettura di ciliegie e frutti neri che si accompagnano ad una delicata speziatura e alla viola mammola tipica del Chianti Classico. Al gusto è potente, fresco, avvolgente e dal finale vibrante grazie ad un gradevole retrogusto fruttato. Il vino viene vinificato in acciaio e affinato parte in legno e parte in vasche di cemento.



Castello La Leccia – Chianti Classico Gran Selezione “Bruciagna” 2015 (100% sangiovese): per la questo vino vengono scelte esclusivamente le uve provenienti dal vigneto Bruciagna situato a 380 metri s.l.m, su un suolo in prevalenza argilloso-sabbioso. Ovviamente è il vino di punta dell’azienda ed indubbiamente ha una marcia in più rispetto ai precedenti grazie ad una complessità assolutamente intrigante incentrata su note aromatiche di ribes nero, mora di rovo, poi in successione note balsamiche, ferrose ed ematiche. Impatto gustativo dirompente, che gioca su una vena acido-sapida, contrassegnato da un tannino perfettamente fuso nella struttura importante del vino. Persistenza sublimi su sensazioni di ferro e spezie nere. Il vino viene vinificato in acciaio ed affina in legno per circa 30 mesi prima di passare in bottiglia dove rimane per ulteriori 9 mesi. Questo vino è stato imbottigliato a marzo 2019.



Abbiamo degustato in anteprima anche il Chianti Classico Riserva 2016 (sorprendente), il Chianti Classico 2018 (già da oggi buonissimo) e la Gran Selezione 2019 (in fase embrionale ma promettente).

Una chiosa assolutamente importante: il Castello La Leccia, grazie al lavoro di Guido Orzalesi, sta cambiando notevolmente stile, i vini si stanno alleggerendo moltissimo e, al contempo, stanno diventando sempre più territoriali e sanguigni. Segnatevi sul taccuino questa azienda, ne riparleremo!

Monterotondo: Malvasia "Sassogrosso" 2019

di Roberto Giuliani

Era un bianco piacevole e profumato, nel 2019 è successo un imprevisto, le uve sono rimaste senza ghiaccio secco in cantina. 


Ne è nato un vino di rara intensità, profondo, complesso, strafruttato, lunghissimo, una delle malvasie più buone che abbia bevuto quest’anno. Via il ghiaccio secco Saverio!

Argiano: Brunello di Montacino Vigna del Suolo 2015

Un anno fa ho avuto modo di tornare a visitare una delle aziende storiche di Montalcino, Argiano, stimolato dal racconto dell’amico giornalista Dario Pettinelli sulle novità che stavano modificandone in modo sostanziale la filosofia e l’approccio sia in vigna che in cantina, ma non solo (se vi è sfuggito potete trovare l’articolo qui). 

L'azienda

Una vera rivoluzione, che ha trovato la spinta nel suo nuovo proprietario, il gruppo brasiliano Leblon Investment Fund Ltd, con a capo Andrè Santos Esteves, finanziere tra i più ricchi al mondo. Evidenziare la condizione di benessere economico di Esteves è necessario per capire come, per quanto Argiano sia una delle più importanti aziende di Montalcino, con 420 anni di storia sulle spalle, il nuovo proprietario non intendesse certo trarne ulteriore ricchezza. L’imprenditore si è prima di tutto innamorato del luogo, dell’arte che lo circonda, del fascino di quelle terre e di quelle vigne, e ha subito capito che l’azienda ilcinese poteva diventare un simbolo di prestigio, dare lustro all’immagine sua e del gruppo. Ma era necessario fare qualcosa di radicalmente nuovo, decidendo di ristrutturare i diversi ambienti seguendo le linee già definite secoli addietro dall’architetto Pecci, che aveva puntato a ottenere una perfetta simmetria di ogni edificio, locale, strada, nell’ottica “bifronte”. Infatti il nome dell’azienda deriva da Ara Jani, il tempio dedicato a Giano, il Dio bifronte, le cui due facce contrapposte rappresentano il legame con il passato e lo sguardo verso il futuro. Il risultato di questo lavoro è un “quartiere” moderno ed elegante, funzionale, ma allo stesso tempo antico e ricco di storia. 


Un altro passaggio fondamentale è rappresentato dalla volontà di Esteves di ottenere un’azienda fortemente rispettosa dell’ambiente, tanto da avere eliminato completamente l’uso della plastica in ogni contesto (ricordo che dispone anche di un agriturismo con numerosi appartamenti), prima azienda a Montalcino. E la conduzione del vigneto, a opera dell’agronomo Francesco Monari, utilizza una metodologia che è la conseguenza di un’approfondita esperienza sul campo, oltre le semplici regole del biologico, attingendo anche alla biodinamica e a tutte quelle cure che provengono da ciò che offre la natura stessa, senza più uso di pesticidi o antiparassitari, con l’obiettivo di ridurre sempre di più anche l’uso di rame e zolfo. In cantina c’è invece l’enologo Bernardino Sani, amministratore delegato, che a sua volta ha contribuito a dare una svolta ulteriore, introducendo ad esempio le botti in cemento Nomblot, caratterizzate dal fatto di essere monoblocco, frutto di una sola colata senza aggiunta di coadiuvanti o prodotti chimici, perfette per la conservazione del vino. 
Non mi dilungo oltre, potete trovare altri approfondimenti nell’articolo, ma ora desidero parlare del vino, quello che è diventato il fiore all’occhiello di Argiano, proveniente dalla Vigna del Suolo, con piante che superano i 50 anni di vita e forniscono una qualità di sangiovese davvero elevata, una varietà che gode di cloni selezionati e impiantati sulla base del rapporto con le diverse caratteristiche dei suoli. 


Il Vigna del Suolo 2015 è di fatto il primo cru di Argiano, questa è la prima annata prodotta, ha subito una fermentazione spontanea per due settimane in vasche di acciaio a temperatura controllata, mentre la malolattica si è svolta in cemento. La maturazione ha avuto un percorso di circa 30 mesi in botti da 15 Hl della Garbellotto, scelte appositamente per questo vino. Ad aprile è stato imbottigliato ed è rimasto ad affinare per 10 mesi.

La 2015 ha avuto un andamento decisamente buono, con un inverno mediamente freddo e asciutto, primavera con temperature moderate e giusto contributo di piogge, che sono andate aumentando a giugno, mese che ha fatto da apripista a un periodo estivo decisamente caldo; le riserve idriche accumulate in precedenza e la profondità delle radici delle viti hanno consentito di evitare stress. Con il mese di settembre si è tornati a un clima più temperato. Le uve portate sui carrelli per la cernita si sono mostrate ottime.


Nel calice il colore è già testimone di una scelta ben precisa di ottenere un vino il più possibile naturale, il sangiovese deve emergere con le sue caratteristiche nel rispetto dell’annata, la tonalità è un bel granato con ricordi rubini, trasparente e dai toni caldi. 
La trama olfattiva è di notevole impatto, inizia con un bouquet floreale di rosa, viola, una punta di lavanda, poi subentrano le erbe aromatiche, la ciliegia, una nota piuttosto evidente di arancia, poi incenso, leggera cannella e liquirizia, tutto in grande equilibrio. 
Al gusto è ancora più evidente la classe di questo vino, che pur mostrando tannini orgogliosi e una materia non indifferente, è sorretto da una freschezza decisa e da una sapidità sottile ma costante, c’è armonia nei diversi elementi; anche l’alcol, pur nella sua prestanza, si integra perfettamente con un tessuto avvolgente e succoso, dove la nota agrumata torna netta anche nel lungo finale. Un grande Brunello con un lungo futuro davanti, la nuova Argiano è arrivata!

Radovic – Vitovska “Marmor” 2018

Peter Radovic, giovanissimo vignaiolo, produce questa splendida Vitovska, macerata in contenitori di pietra locale, che sa di mare e sogni e tanta voglia di gridare al mondo la sua territorialità. 


Peter sarà il futuro della sua Terra!

Il mio Rossese di Dolceacqua: focus sull'annata 2019

Non mettevo piede a Dolceaqua e dintorni da almeno 5 anni, tanto, troppo tempo anche se non ho mai smesso di bere Rossese. Ritornare in questi luoghi a me cari e sospesi tra cielo e mare mi riempie di entusiasmo soprattutto perché un full immersion di tre giorni tra vigne e cantine, coccolato dai principali vignaioli della denominazione,  mi ha permesso di capire come questo vino sia passato  in poco tempo, grazie al rilancio del grande Armando Castagno, dall’essere un vino di nicchia fino a diventare oggi una grande realtà del panorama enologico italiano grazie soprattutto al grande lavoro sulle Menzione Geografiche Aggiuntive (MGA) o nomeranze, così come si dice in Liguria, posto in essere da Alessandro Giacobbe e Filippo Rondelli, proprietario dell’azienda Terre Bianche, col contributo indispensabile di tutti i produttori del territorio.



Già, loro, i vignaioli del Rossese di Dolceacqua, un gruppo coeso e determinato le cui vigne si trovano sostanzialmente lungo due valli, la Val Nervia e la Val Verbone (ci troviamo in provincia di Imperia) che tagliano perpendicolarmente per 20 Km il versante di ponente della Liguria, a due passi con la Francia, creando un asse nord\sud, che racchiude quattordici comuni, che parte dalle Alpi Liguri fino ad arrivare al mare. 

Le valli del Rossese


Facile pensare, e da qua la sacrosanta esigenza delle MGA (leggasi introduzione dei Cru), che all’interno della denominazione vi siano tanti terroir differenti (qualcuno ne ha ho contati fino a cinque) dovuti sostanzialmente alla minore o maggiore vicinanza delle vigne al mare, alla loro esposizione, all’influenza dei venti e, soprattutto alla diversa matrice geologica del terreno che si divide in tre categorie:

-  Flysch di Ventimiglia, chiamato localmente “sgruttu”, che fa riferimento a marne e arenarie scistose di origine marina;

- Conglomerati di Monte Villa, ovvero ciottoli arrotondati più o meno cementati di matrice sabbio-marnosa;

- Argille di Ortovero, dette anche Marne Blu, caratterizzate da depositi sabbio-argillosi del pliocene ricche di conchiglie e depositi fossili.

Sgruttu


Tornare tra i produttori di Rossese di Dolceacqua mi ha portato anche a fare una valutazione dell’ultima annata in commercio, la 2019, che posso può essere ben descritta nelle parole di Filippo Rondelli: “al momento della vendemmia le uve erano sane, il raccolto poco abbondante e quindi la pianta si è trovata in una situazione di equilibrio che le ha permesso di portare a maturazione l’uva senza stress e quindi di produrre uva con ph molto bassi, acidità elevate e ottimo stato sanitario, ingredienti che sulla carta ti permettono di avere già un’idea su quello che saranno i vini, che in effetti hanno un buon grado di struttura, complessità e finezza. Direi che tutti a Dolceacqua siamo soddisfatti, soprattutto venendo da un’annata come la 2018 che a mio modo di vedere non ha dato picchi qualitativi altissimi, conferendo ai vini una fisionomia ‘piccola’ ed elegante, sì, ma a volte anche un po’ diafana e magra”.
Durante la cena di fine tour, organizzata presso il Ristorante Trattoria Terme di Pigna, regno di capra e fagioli, ho degustato i seguenti vini:

Ka Mancine – Rossese di Dolceacqua “Galeae” 2019: la vigna da cui proviene questo vino è uno dei due Cru di Maurizio Anfosso e dalla quale, spesso, si ottengono vini più pronti e rotondi. Ne è la prova questo Rossese di Dolceacqua che anche in questo millesimo non si smentisce regalando un rosso di grande succosità che regala una esplosione olfattiva di frutta rossa e sensazioni balsamiche. Al palato si rivela corposo e saporito, compatto e perfettamente equilibrato; il finale è lungo, appagante, ricco di richiami aromatici. Nota: il Beragna 2019, Cru aziendale ad esposizione nord che notoriamente fornisce sensazioni più cupe e marine del Galeae, è ancora in fase embrionale ed ha bisogno ancora di tempo per esprimere tutto il suo terroir di riferimento.



Maccario-Dringenberg - Rossese di Dolceaqua 2019: proveniente da sei appezzamenti nel Comune di San Biagio alla Cima, è l’unico Rossese di Giovanna Maccario non proveniente da singolo Cru. Didatticamente ineccepibile per iniziare ad approcciarsi con questo vitigno, questo vino da sempre si caratterizza per corpo leggiadro e sinuoso a cui segue un naso avvolgente e ricco di erbe riferibili alla macchia mediterranea come lentisco, timo, mirto a cui associo sempre un pizzico di pepe bianco. In bocca questo Rossese accarezza il palato con freschezza e disinvoltura e si fa ricordare grazie ad un finale di poderosa sapidità. P.s.: Giovanna sta imbottigliando ora tutti i suoi Cru 2019, ne vedremo delle belle….



Terre Bianche – Rossese di Dolceacqua 2019: Filippo Rondelli è il “secchione” tra tutti i produttori di Rossese e la sua eleganza quasi british l’ho sempre ritrovata nei suoi vini. Ne è una prova, l’ennesima, questo Rossese 2019 che ha un imprinting olfattivo di grande classe: fragoline, violetta, agrumi, selce, interludi di erbe aromatiche essiccate. Al sorso incanta per l’intensità sapida e la freschezza tattile. Non è un mostro di complessità come il suo fratellone maggiore Bricco Arcagna ma si lascia bere che è una meraviglia. Da provare, come ho fatto anche io, sul coniglio porchettato. Sublime abbinamento.



Vignaioli Nino ed Erica Perrino - Rossese di Dolceacqua 2019: zio e nipote rappresentano passato, presente e futuro della denominazione, e questo Rossese di Dolceacqua è la dimostrazione che l’amore per il territorio e il suo vino non ha età e annulla ogni tipo di differenza generazionale. Questo vino, vinificato naturalmente anche con la presenza di raspi, è una chiara rappresentanza del millesimo: è generoso, vivo, compatto nella espressione fruttata e floreale del naso mentre al gusto è di pari spessore e ricchezza: pieno, saporito, armonioso e di buona persistenza sapida. Rossese di Dolceacqua assolutamente didascalico e tenace come le vigne, anche centenarie, da cui proviene!



E Prie - Rossese di Dolceacqua 2019: Lorenzo, poco più che ventenne, è il figlio di Alessandro Anfosso (Tenuta Anfosso) e da lui e suo nonno ha rubato alla grande tutti i segreti del mestiere. Questo Rossese nasce da terreni coltivati in due Cru specifici, in Fulavin e ai Pini entrambi a Soldano, e fin da subito si fa apprezzare per il suo carattere e la sua sua precisione stilistica. Al naso incanta per ricchezza aromatica giocata su tocchi di marasca, mora di gelso, violetta a cui seguono leggeri ma variegati toni di pepe e spezie orientali. Al sorso è piacevole, ricco ma al tempo stesso ben bilanciato da una corroborante dotazione acido-sapida. Il tempo non potrà che migliorarlo. Il sorpasso al papà è già in vista, vero Lorenzo?!



Maixei - Rossese di Dolceacqua 2019: vino della storica cooperativa agricola del ponente ligure il cui nome dialettale maixei fa riferimento ai muretti a secco che sostengono le fasce di terra destinate alla coltivazione del rossese. Il vino è assolutamente gradevole e soddisfacente nella sua semplicità, ha sentori nitidi di ribes rosso, mora ed erba medica. Al palato è succoso, rustico, privo di orpelli e proprio per questo assolutamente franco nella sua dimensione territoriale e, perché no, sociale.



BONUS TRACK

Tenuta Anfosso – Rossese di Dolceacqua “Novanta” 2016: lo so non è un 2019, l’azienda ad oggi ha in commercio ancora la 2018  ma questo vino ho voluto recensirlo per la sua storia in quanto è il Rossese che Alessandro ha voluto produrre per il novanta anni di suo papà Luciano, un faro sia nella vita che nel lavoro. Era tutto pronto, tutto già imbottigliato, ma il destino a volte fa scherzi meschini e papà Luciano se ne è andato qualche giorno prima del suo compleanno per cui non ha mai visto e degustato questo vino che sa di amore e passione, sogni e incazzature ma, soprattutto, sa di famiglia e principi morali ben solidi. Grazie Alessandro per averlo condiviso con tutti noi!