Alla scoperta dei vini biologici della Cantina della Collina!


di Luciano Pignataro

La voglia di conoscere questa azienda ci è venuta assaggiando il suo Piedirosso, il vino che per me resta emblematico della regione. Sin dal primo sorso comunica leggerezza e voglia di stare insieme attorno a una tavola, i profumi di geranio e di frutta rossa fresca esplodono al naso: insomma un rosso sottile e leggero, proprio come la moda sta richiedendo in tutta Italia dove siamo stanchi di sovraestrazioni e surmaturazioni più che delle stesse barrique usate oltre misura.


Scopriamo così che il Turci, questo è il nome, è una delle tre etichette della piccola azienda. Le altre due sono l’Aglianico, non a caso chiamato Cerzeta che in dialetto vuol dire quercia, e il bianco da uve Greco, Scorza. Tutti. Tre sono Campania igt.
Si tratta di due vini di prodotti nell’agriturismo Terranova, un vecchio casale del ’70 appollaiato su una colina a circa 450 metri di altezza fra i comuni di Solofra e di Montoro, lì dove inizia la Valle dell’Irno. Siamo ancora in provincia di Avellino, ma assolutamente fuori dalle storiche docg, a due passi dalla provincia di Salerno in un’area sconosciuta dal punto di vista vitivinicolo ma molto famosa in passato prima per l’industria tessile avviata da imprenditori svizzeri nell’800, poi dalla industria delle pelli che è ancora viva nonostante i periodi di crisi e che fa sentire la sua presenza quando si attraversa il comune di Solofra dalla superstrada che collega Salerno ad Avellino con il suo tipico odore di Zolfo.

Maria Buonanno

L’azienda è di proprietà della famiglia Buonanno e al timone c’è Maria che ha subito impostato la conduzione delle viti seguendo il protocollo della certificazione biologica attestandosi su una resa che oscilla fra i 50 e il 60 quintali per ettaro.
Per la zona è una novità, perché sino nessuno aveva imbottigliato secondo criteri moderni, l’avventura è iniziata con il nuovo impianto nel 2007 che circonda a terrazzamenti il casale con l’inizio della produzione nel 2010. L’antica casa colonica, ampliata nel rispetto della sua storia, accoglie diverse attività: una spaziosa soffitta ospita mostre fotografiche, workshop e spettacoli musicali; la sala al piano terra accoglie grandi o piccoli eventi. Quanto alla cucina, è quella rigorosamente contadina del Sud dove hanno un grande ruolo soprattutto le patate e la cipolla ramata di Montoro, ottima per cucinare la Genovese, tipico piatto napoletano.


L’agriturismo si chiama Terranova, l’azienda vitivinicola la Cantina della Collina per evitare confusione. Si tratta di una controtendenza rispetto ad una delle pochissime aree del sud con cui si è registrato un processo di industrializzazione autoctono e non indotto con i fondi pubblici. Nell’immaginario collettivo locale, per capirci, non è un luogo dove si può immaginare questa oasi di pace e di tranquillità convinta. La vinificazione di tutti e tre i vini avviene senza lieviti selezionati, l’unico materiale usato è l’acciaio. Del Piedirosso abbiamo detto. Anche l’Aglianico garantisce una croccante freschezza al palato, ha naturalmente un peso diverso sul palato e lo consigliamo direttamente su piatti strutturati. Buono anche il Greco fuori denominazione: fresco, con una grande spinta.


Insomma una piccola chicca facile da raggiungere perché vicina al raccordo autostradale che si rivela come una bella sorpresa per chi ama la verità dei prodotti e delle persone senza troppe pippe mentali.

InvecchiatIGP: Contrada Salandra - Falanghina dei Campi Flegrei 2010


di Carlo Macchi

Non so se Giuseppe Fortunato, deus ex machina di Contrada Salandra, sia fortunato, ma sicuramente è una di quelle persone che unisce il machiavelliano dettato di “Virtù e Fortuna”. La sua virtù è stata quella di abbandonare la laurea in ingegneria in un cassetto e farsi portare dalla passione, prima per il miele e poi per la vigna. La sua fortuna è stata quella di “ritrovarsi tra le mani”, assieme a sua moglie Sandra, Contrada Salandra. 


“I vini di una terra non sono merci ma racconti di vita”
questo è l’inizio del bellissimo cammeo riportato in retroetichetta (che vi consiglio di leggere in toto)  e la falanghina dei Campi Flegrei 2010 che ho aperto, regalatami da Giuseppe alcuni mesi fa, racconta la storia di un uomo virtuoso e di un vitigno che nel tempo è cresciuto, e da uva  per vini facili e immediati è divenuta mezzo per misurare quanto possa essere bello e complesso lavorare questo vitigno in un terra particolare, vulcanica, instabile ma di una stabilità storica ineccepibile, come i Campi Flegrei. 
“Falanghina vino da bersi giovane” era quasi un luogo comune fino a poco tempo fa, ma mentre questo luogo comune nasceva e si fortificava Giuseppe produceva questo incredibile 2010.


L’ho avvicinato con curiosità e rispetto, ma con la sicurezza di aver già degustato diversi ottimi vini di Giuseppe con molti anni sulle spalle.

Il risultato è andato aldilà delle previsioni.

Colore dorato brillantissimo, quasi a voler subito mettere le carte in tavola sul fronte della tenuta. La vera sorpresa è stato il naso: come ritrovarsi in montagna e annusare l’aria fresca e pungente, ma piena di aromi balsamici, di erbe, di fiori. Una serie di sensazioni che unite a note di pietra focaia presentano chiaramente le possibilità di invecchiamento della Falanghina nei Campi Flegrei. 


La bocca ha bisogno di un attimo per aprirsi: non punta certo sulla freschezza ma sull’equilibrio e sulla sapidità e più resta nel bicchiere e più si fortifica, si concentra, si assesta. Lo stava facendo perché sicuramente, di sottecchi, aveva visto che le stavo preparando una prova di quelle terribili, abbinandola a delle bruschette di pane toscano (con tanto aglio…) e con sopra del cavolo nero sbollentato e condito con olio extravergine d’oliva appena franto. 


Un piatto che potrebbe distruggere qualsiasi vino, ma la finezza aromatica ha prevalso anche sull’aglio e la paciosa ma decisa profondità e persistenza al palato è andata oltre l’olio nuovo. 
Quindi non solo una Falanghina di 12 anni che regge il colpo, ma che è talmente cazzuta che va oltre un abbinamento cibo-vino ammantato di sadismo gastronomico. Insomma, questa volta fortunato sono stato pure io!

Rosso Toscano "Il Lupinello": meno di un litro non lo bevi!


di Carlo Macchi

Il nome poteva essere “Vedi che si fa con sangiovese, canaiolo e trebbiano?” ma l’hanno chiamato Il Lupinello. 


Ma che si fa con queste uve? Un concentrato di profumi fruttati e vinosi, nonché di fresca piacevolezza, un corpo leggero ma teso e netto. Bottiglia da un litro, perché meno non ne bevi.

Alla scoperta del Savatiano, il vitigno greco più antico al mondo


di Carlo Macchi

La parola greca Σαββατιανό vuol dire Savatiano e, per la cronaca, si legge Savatianò, con l’accento sulla “o” finale. E’ il vitigno greco più antico e più piantato e anche se adesso sappiamo pronunciarlo correttamente sfido chiunque a farmi una presentazione, anche breve, dei vini a base savatiano. Naturalmente anche io faccio del gruppo, anzi facevo, fino a quando il nostro Haris Papandreou non ha proposto alla redazione di Winesurf una degustazione di vini da questo vitigno.


Visto che da qualche parte bisogna iniziare vi suggerisco una parolina: “Retsina”. Scommetto che questa parola vi ha aperto un mondo. Il Savatiano è infatti il vino con cui veniva (e viene) fatta la Retzina, il vino resinato greco che, più che tipico, incarna l’idea piuttosto stantia che abbiamo del vino di questo meraviglioso paese. Lo so, cosa state per dire: la Retzina è un vino quasi sempre “cheap” e quindi anche il Savatiano è un vitigno non certo di altro profilo.
Se vi do ragione per quanto riguarda la bontà della Retzina, sul Savatiano e sulla strada verso la qualità che ha fatto negli ultimi 10-15 anni mi permetto di dissentire, anche alla luce di quanto abbiamo degustato.


Ma prima dei vini inquadriamo il vitigno e la zona di produzione. Siamo in Attica, praticamente la Grecia che più Grecia non si può, la terra attorno e sopra Atene.
Sicuramente il Savatiano è la qualità più coltivata in Grecia, anche perché un’ uva che resiste al caldo dell’Attica può star bene da tutte le parti. La forma d’allevamento classica è l’alberello. Per produrre la Retzina era ed è vinificato in purezza o con un’altra uva autoctona greca, il roditis.
I brutti ricordi di Retzina del passato parlano di Savatiano vinificati male, e quindi la resina serviva per coprire i difetti. I vini che abbiamo degustato noi, ben 26, erano (a parte 2) dei Savatiano non resinati, dove le caratteristiche del vitigno spiccavano.


Normalmente un Savatianò si presenta con un colore giallo paglierino, profumi di frutta bianca e tropicale nonché di fiori bianchi , un’acidità moderata e un corpo non certo spiccato. Un vino quindi da bere giovane, nell’arco di 2-3 anni, ma che in diversi casi può oggi arrivare a 6-8 anni di buona evoluzione. Questa evoluzione può essere legata anche al legno ma dai nostri assaggi la cosa non ha avuto conferma. Certo è che, legno o non legno, i Savatiano prodotti negli ultimi 7-8 anni possono maturare molto meglio che in passato.


Non per niente uno dei vini per me migliori dell’assaggio è stato la Cuvée Vouno 2017, di Mylonas, un Savatiano di cinque anni che proviene da una vigna di 60 anni e fermenta in acciaio, dove rimane sulle fecce fini per almeno 9 mesi . Al naso note di pietra focaia, timo e una sensazione più cupa che ricorda il legno, in cui non è mai stato. In bocca mostra una sapidità che completa la sufficiente freschezza.


Anche il Vientzi Single Vineyard 2019, di Papagiannakos (forse il primo cru di Savatiano) con viti di oltre 60 anni, ha la stessa nota di pietra focaia accanto a sentori floreali e in bocca è sapido, fresco, con un corpo medio ma elegante. Proprio un buon vino.


Entrambi questi vini li trovi attorno ai 15 euro online ma il Savatiano normalmente costa meno e il Savatiano 2020 di Aoton, dimostra che con 8 euro (online) si può bere benissimo. Lo produce un giovane enologo, Gkinis Sotiris, con viti di almeno 25 anni. Color giallo dorato, ha rotondità e pienezza importante, anche se in vista sin da subito abbiamo sapidità e freschezza. Profumi sulla frutta bianca matura e una bella lunghezza completano il quadro. Un vino buono adesso e sicuramente meglio da 2-3 anni.


Vi ho presentato tre vini non proprio d’annata per farvi capire come questo vitigno possa anche maturare qualche anno e questa pur breve evoluzione lo renda sicuramente più complesso e interessante. Infatti alcuni tra i vini giovanissimi del 2021 non si staccavano dai classici aromi che possiamo ritrovare in tanti bianchi e sinceramente non mi hanno lasciato una grande impressione.


Ha fatto eccezione, per gli incredibili e potenti profumi di succo di frutta alla pera (ma veramente, sembrava di aver aperto una bottiglietta!) il Naked-Truth 2021 di Mylonas, un vino che viene definito “espressione vera del Savatiano”, ma forse l’assenza di solfiti, sia durante i mesi di affinamento che all’imbottigliamento, giocano un ruolo basilare nella connotazione aromatica. In bocca il vino è morbido e manca un po’ dal punto di vista della freschezza.


Ma dovevamo giocoforza fare anche un “salto” sul fronte Retzina e abbiamo capito che pur con tutte le accortezze attuali, pur fatta con tutti i crismi, non si riesce a superare lo scoglio nasale, almeno per noi italiani. Insomma, una degustazione molto istruttiva, come quella che, tra qualche giorno, faremo del “nebbiolo greco” l’Agiorgitiko.

In chiusura, se qualcuno volesse acquistare qualche Saviatanò può andare su https://www.ellenika.it/ unico sito specializzato sui vini greci. Può anche, se capisce il tedesco, acquistare su https://stelios-weine.de/ .

Brunello di Montalcino 2018: la via che porta all'Essenza


Il 31° Benvenuto Brunello si è concluso da pochi giorni e, dopo nove giornate di degustazione, dove 137 cantine hanno presentato il Brunello 2018, la Riserva 2017 e il Rosso di Montalcino 2021, oltre a qualche referenza di Moscadello e Sant’Antimo, sono sempre più convinto che questa denominazione sia ormai un punto di riferimento qualitativo assoluto sia per i mercati esteri sia, soprattutto, per il mercato italiano.

Quanto scritto è emerso chiaramente dal report annuale di Wine Intelligence che, in occasione di Benvenuto Brunello, ha analizzato forza e riconoscibilità delle 46 principali denominazioni made in Italy, attraverso uno studio anche delle abitudini dei wine lover del nostro Paese. Il risultato è stato abbastanza netto: a fronte di una “nano-share” di superficie vitata pari allo 0,3% del vigneto Italia, il principe dei rossi toscani si posiziona in testa alla classifica superando colossi come il Chianti Docg, il Prosecco, il Chianti Classico e il Montepulciano d’Abruzzo, dimostrandosi un vero e proprio brand territoriale.


Come sempre, partecipando a
Benvenuto Brunello senza altri collaboratori, mi limito, per mancanza di tempo, ad esaminare l’ultima annata in commercio ovvero quella 2018 ha ricevuto dal Consorzio ben 4 stelle ben evidenziate, tra l’altro, nella bellissima mattonella collocata sul muro del Comune di Montalcino e disegnata dal grande Alex Zanardi.


Non è facile fornire una descrizione univoca del millesimo in questione perché, come tutti sanno, Montalcino è un areale piccolo ma dalle mille sfumature pedoclimatiche per cui, per venire a capo della questione una volta per tutte, non posso non farmi aiutare da chi il territorio lo conosce come le sue tasche ovvero dal grande enologo Maurizio Castelli che, a Montalcino News, ha dichiarato quanto segue: “Possiamo a questo punto brindare all’annata 2018, per come si è palesata dopo un’estate estremamente piovosa ed inclemente che ci ha messo serie preoccupazioni. Siamo arrivati all’inizio della vendemmia con un’uva che francamente era a rischio. Poi qualcuno o qualche cosa ci ha graziato e sono arrivati quei 10 giorni di temperature più alte e venti asciutti che hanno consentito alle nostre uve di arrivare ad una maturazione corretta. Ritengo l’annata 2018 un’annata interessante da un punto di vista aromatico, perché le piogge hanno raffreddato il terreno e di conseguenza i vini saranno di aromi più fini, più eleganti, sebbene non di grande struttura”.


Venendo alla degustazione di oltre 150 campioni di Brunello, divisi tra “base” e “selezione”, non si può essere non d’accordo con l’analisi di Castelli. La prima cosa che mi ha colpito, infatti, sono stati i colori di questa 2018 che ho trovato tra i più scarichi mai visti in tanti anni facendomeli paragonare, in molti casi, a qualche ottimo rosato italiano o pinot nero d’oltralpe. Coerentemente col quadro cromatico, anche i profumi del Brunello 2018 sono spesso declinati verso eleganti e sinuose nuances agrumate e floreali la cui leggiadria fa da contraltare a quanto abbiamo visto per la 2017 dove la carica aromatica era decisamente più scura, profonda ed intensa.


L’assenza di peso specifico della 2018, che non significa inconsistenza, la si ritrova anche al sorso dove molti vini risultano con strutture non troppo austere ma con tannini fitti, armoniosi ed acidità abbastanza importanti soprattutto per chi ha vendemmiato nella parte nord di Montalcino.

In generale, i 2018 saranno dei Brunello abbastanza atipici, simili alla 2011 o alla 2013 ovvero figli di una annata che può essere definita classica, impegnativa ma relativamente equilibrata, sicuramente rara visto i cambiamenti climatici in atto. Saranno dei vini da lungo invecchiamento? Non ho una risposta a questa domanda, quello che so è che oggi, mediamente, sono già pronti da bere e piacevolissimi. Chi ha interesse per i “vinoni”, quest’anno, deve cambiare territorio.


Fatte queste lunghe premesse, dopo due giorni di full immersion, i miei Brunello di Montalcino 2018 preferiti sono i seguenti:

Castello Romitorio – Brunello di Montalcino 2018: è il secondo anno consecutivo che segnalo i vini di questa azienda fondata nel 1984 da Sandro Chia. Sangiovese dal colore estremamente scarico ma grintoso per sensazioni agrumate e spezie orientali. In bocca ha sostanza, spessore e dinamicità.

Castello Tricerchi – Brunello di Montalcino 2018: la famiglia Squarcia ha ormai imboccato da qualche anno la via dell’eccellenza non solo per il Brunello ma anche per il loro sublime Rosso di Montalcino. La 2018 si apprezza per le sue pennellate aromatiche di gelatina di ribes, essenze orientali, viola passita e suggestioni ematiche. Sorso saporito, equilibrato grazie ad un tannino rifinito.

Castiglion del Bosco – Brunello di Montalcino “Campo del Drago” 2018: come il mio amico e collega “IGP” Roberto Giuliani, anche io devo ricredermi circa i Brunello di questa importante azienda del territorio che, probabilmente, con la 2018 ha trovato la giusta misura soprattutto con questo Cru proveniente dalla vigna più alta (450 metri s.l.m.) del vigneto Capanna. Elegante caleidoscopio aromatico di spezie rosse, rosa passita e frutta a bacca rossa succosa. Assaggio vivace, piacevolissimo e ben bilanciato. Chiude lunghissimo.

Chiusa Grossa – Brunello di Montalcino 2018: una bella scoperta, perché non la conoscevo (sigh!) è stato il vino prodotto dalla famiglia Biscotto le cui uve provengono dalla zona di Sant’Angelo in Colle e Castelnuovo dell’Abate. Il Brunello 2018 sa di arancia amara, viola essiccata, legni nobili e iodio. Bella bocca, sapida, intensa e dal tannino ben dosato.

Gorelli – Brunello di Montalcino 2018: Giuseppe Gorelli nel territorio ilcinese è stato consulente per anni di importantissime aziende e da qualche anno ha deciso di mettersi in proprio gestendo circa 4 ettari di vigna sita nella parte nord-ovest di Montalcino. L’annata 2018 rappresenta il suo primo Brunello prodotto che incanta decisamente per un panorama aromatico di agrumi succosi, bacche rosse, ferro, refoli floreali e spezie. Succoso e nitido nella sua deliziosa complessità, fa della beva e della progressione sapida, quasi salata, il suo punto di forza.

Sanlorenzo – Brunello di Montalcino 2018: il vino di Luciano Ciolfi è sempre riconoscibilissimo anche in questa annata che di certo non ha favorito la potenza e la solarità del sangiovese di Montalcino. Questa 2018, invece, si fa apprezzare per materia fruttata, quasi scura, striature speziate, quasi piccanti, ed un ampio ventaglio minerale. Sorso di struttura, avvolgenza e sapidità. Un Brunello poco “sottile” ma grintoso che interpreta magistralmente i caratteri della zona sud-ovest di Montalcino.

Salvioni La Cerbaiola – Brunello di Montalcino 2018: chi proclama che la 2018 sia un’annata fatta di sangiovesi rarefatti dovrebbe bere il vino di questa storica cantina che come sempre tira fuori un Brunello ricco, generoso, tradizionale, dotato di intensi accenti di frutta matura, accompagnati da speziatura di pepe, anice stellato e macis a cui segue una possente nota ferrosa. Grandioso all’impatto gustativo, è sostenuto da tannini graffianti, da corpo, grinta ma al tempo stesso è elegantemente misurato nella sua scalpitante gioventù.

Fattoi – Brunello di Montalcino 2018: confesso di avere una ammirazione smisurata per la famiglia Fattoi che, senza mai clamore, riesce sempre ad interpretare le annate in maniera magistrale producendo, anno dopo anno, tra i vini più buoni di Montalcino. Non fa, ovviamente, eccezione questa 2018 sostenuto da aromi invitanti di frutta croccante, viola e sensazioni balsamiche quasi di macchia mediterranea. Scattante e penetrante al sorso, dal tannico serico.

Canalicchio di Sopra – Brunello di Montalcino “La Casaccia” 2018: il vino, che prende il nome dalla zona dove sorge la cantina azienda, è pura austerità grazie ad una impalcatura aromatica che vira verso sensazioni ematiche, di spezie rosse e ferro. Al gusto si mostra di grande piacevolezza essendo dotato di struttura suadente e carnosa in cui si assorbe un tannino ben fuso e una verve sapida a cui spetta l’onere di riportare armonia e proporzione. Finale sublime.

Tiezzi– Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” 2018: devo ammettere che quest’anno tra Poggio Cerrino e Vigna Soccorso, per qualità, è stata una bella lotta ma alla fine l’ha spuntata questo secondo Cru prodotto dalla famiglia Tiezzi che ho amato per espressive sensazioni di radici, piccole bacche rosse, rosa canina e un tono lievemente fumé. Eccellente l’incedere gustativo, calibrato veemente sapidità e sapienti tannini di fattura classica. Chiude piacevolmente succoso, ben ampliato da richiami di frutta rossa croccante.

La Signora dell'Uva



di Luca Dresda

Mi ha detto papone che oggi si va sui monti, si sale verso il fresco, ma io je l’ho detto che voglio la neve, voglio mangiare il freddo. Quella pulita e scavata di qualche centimetro. Dice che andiamo a conoscere la signora dell’uva. Una signora che fa l’uva e poi fa il vino. Che ci farà mangiare uva che non abbiamo mai assaggiato. Dolce e scrocchiarella. Ma io non mi fido. Lo dice solo per farmi stare buono e portarmi via dal ciaffi-ciaffi tra le onde, perché dice che troppo sole gli fa male. Che suda".


In macchina si sale e si sale. Tutte salite e curve. La strada non si vede. È stretta stretta. Non ce la faccio più, legato a sto seggiolino. Ma poi, papone si ferma sotto un albero mezzo secco dove c’è una signora piccolina che sembra Ilenia, la mia amica di scuola. Scendiamo tutti con le ciabattine e ce le cambiamo. “Sennò i sassolini ti fanno male” dice la mamma. Ma io non le voglio le scarpe chiuse. Mi fa caldo. Rivoglio i miei sandalini. Qui non c’è sabbia, c’è terra secca e piante picca picca. Fa più caldo che in spiaggia. Almeno lì ci si poteva mettere nel mare.

Foto: Andrea Federici

Dietro un monte si vede il fumo che sale. È un fuoco. Ci sono anche gli aerei dei pompieri che buttano l’acqua. I canadè. Dice papone che quelle che si vedono lontano sono montagne alte alte dove quando fa freddo c’è la neve. E mi ha promesso di portarmi. La signora dell’uva è vestita tutta di scuro e ha degli occhialoni grandi. Sorride a papone e poi gli dà un abbraccio di quelli che non finiscono più. Poi mi saluta e mi dice che ora mi farà sentire un po’ di odori. Strappa delle foglioline e ce le mette sotto il naso, papone mi dice tutti i nomi. Alcuni sono nuovi, altri li ho già sentiti nella casa colorata, la casa mia di Roma. Alloro. Timo. Rosmarino. Poi, la signora dell’uva, che si chiama Giovanna, ed è la prima Giovanna che conosco, a parte la zia Anna che è la più brava a fare i dolci, si mette a camminare. E non si ferma quasi mai. 


Cerco di raggiungerla con papà che gli vuole stare vicino, ma sbuffa e suda che tra poco cade a terra svenuto. Giovanna sale scalini di sassi e di pietre e poi strappa due o tre foglioline di una pianta che è la salvia, ma è molto più profumata della salvia che conosco io. Deve essere una super salvia. E a quel punto papone mi dice che posso prendere delle palline di uva dalla pianta. È un’uva nera nera, scura scura, ma i pallini non sono grandi, e papone mi dice che il semino si può masticare perché scrocchia ed è buono. Dolce. A volte non lo capisco. Nel seme, non c’è il succo dolce. Che si mangia a fare? Non è un biscotto. E neanche un crècher. Che lo mangiamo a fare? Va beh, lo faccio per lui che è tutto entusiasta. L’uva è buona. Mmm… Buona buona. Mi piace. E siccome mi ha detto che posso mangiarla, me ne prendo altra. E un’altra. Ora mi comincio a divertire. Prendo tutti i pallini neri da tutte le piante e via. La signora dell’uva dice che se continuo così non resterà niente. Ma non è vero. Qui è pieno di piante piene di uva.


Camminiamo ancora, e io sono stanco di camminare e mi faccio prendere sulle spalle per vedere meglio tutto quello che indica la signora dell’uva. Ci sono alberi nuovi nuovi, dice che uno fa i manghi, ma non ci sono i manghi appesi, quindi deve essere una di quelle cose che dicono gli adulti per farci aprire la bocca. Poi indica in basso in alto, di qua e di là, e ci fa vedere tutto il mondo che si vede da questo posto pieno di salite, e parla di tanti anni fa e di oggi che è tutto diverso e io intanto anche basta dei pallini di uva. Ho fame. E voglio giocare un po’. Alla fine, torniamo in macchina e scendiamo giù, verso le case. La signora dell’uva ci fa entrare in una stanzetta che sembra una grotta dove ci sono tante cose di metallo, macchine, casse, reti, bottiglie piene e vuote. E su un tavolino vedo molti bicchieri, come quelli di casa appesi a testa in giù, e le bottiglie del vino. Papone è sempre il solito. Ti fa camminare, ti fa stancare, ti dà qualche contentino e poi ti porta a bere vino, che è una cosa che io non posso ancora bere. Da grande voglio capire com’è questo vino che ora dicono che mi farebbe male. Ma anche a papà non sembra fargli proprio bene, eh. Ogni volta che il bicchiere diventa vuoto, gli viene un sorriso grande come la faccia in un pagliaccio e dice cose che non si capiscono, tutte mischiate.


A un certo punto arriva l’uomo della grotta e ci saluta. È alto, biondolino e tutto sorridente. Dice che ci vuole far vedere una macchina magica. Una macchina che veste le bottiglie. E io non vedo l’ora di andare a vedere, perché sicuramente mi diverto di più che a vedere papone che svuota bicchieri e parla parla parla che non si capisce che cosa dice. Ghé, si chiama, l’uomo della grotta. Dice che viene da lontano e che lui lavora come un mulo. Ma a me non sembra di vedere la coda. Poi ci fa vedere come la macchina magica veste una bottiglia e la prepara per uscire dalla grotta e andare a casa di tutte le mamme e i paponi. È veramente magica. Fa un rumore brutto, forse è un mostro cattivo? Forse devo chiamare Spiderman e fargli dare un cazzottone sulla capoccia e farla secca, come dice papone. Forse. Ma forse no. Quando la macchina smette di urlare e ruggire Ghé alza la bottiglia e ci fa vedere il vestito. È una maglietta rossa. Dice che si chiama Luvà. “La voglio”, gli dico. E lui, ridendo: “Kiedilo a tuo papà. Magari te la kompra.” È simpatico, Ghé. Dice che lui è l’amico di Giovanna, la donna dell’uva e che insieme sono la mamma e il papà del vino. Ma io non vedo bambini. “Lui è nostro bambino.” Mi risponde Ghè. Poi mi regala un vestitino rosso. Io corro di là da papone e mamma urlando come mai. “Guardate! Ghé mi ha regalato un vestitino per bottiglie!” Ed è tutto un ridere e saltare e urlare che non ci si capisce più niente. Solo Giovanna, la donna piccina dell’uva resta ferma e sorride appena. 


Ci guarda, forse è contenta, forse si è divertita anche lei con papone che parlava e parlava, mentre noi vestivamo le bottiglie. Ma adesso dicono che è l’ora di andare a mangiare. E si salutano. Una, due, tante volte. Papone dice che vuole tornarci. La donna dell’uva dice che è stato fortunato. E papone giù a ridere, che non si sa perché. E così ce ne andiamo a fare le pappe. E i paponi e le mamme sembrano tutti così felici che ho il sospetto che anche loro abbiano visto una magia. 

Foto: Pasquale Pace

E intanto, mentre scendiamo, la donna dell’uva e l’uomo della grotta ci salutano e diventano sempre più piccoli. Che adesso quasi assomigliano ai nonni di Firenze. Mi giro e gioco con il mio vestitino rosso.”

NOTA

In questo pomeriggio a Posaù e poi in cantina, abbiamo avuto occasione di assaggiare nell’ordine:

1. L’uva del vigneto. Talmente matura che veniva voglia di vendemmiarla subito. Ma fermandoci qualche giorno avremmo potuto partecipare attivamente.


2. Rossese di Dolceacqua 2021. Prima di tutto, bisogna sottolineare la perfetta temperatura di degustazione di un Rossese, in agosto. Fresco. Dissetante. Lenitivo. Ne è seguita una breve discussione, giocosa e ironica, visto che noi stessi, con amici, il giorno prima avevamo un po’ sfiorettato sull’argomento, ovviamente in totale disaccordo e con determinazione crescente a ogni bicchiere svuotato. Ci piace molto la modernità del pensiero filosofico secondo cui ognuno fa un po’ come cacchio gli pare. Ma… se parli di temperatura di servizio è sempre al netto del prendo una bottiglia, la porto in sala, la stappo, la verso e do il tempo ai commensali di assaggiarla. E poi… poi, quello che resta se ne va lentamente in un altro mondo termico che raramente viene controllato. Quindi, i primi bicchieri si bevono bene e con gli ultimi meno ci pensiamo e meglio è. Questo è il vino che raccomandiamo in spiaggia, al tramonto, con il plaid coperto di leccornie. Lo raccomandiamo in coppia o in tris, perché va giù troppo rapidamente. Cascata del Niagara.


3. Luvaira 2018. Confesso che forse è un vino che ho mitizzato troppo. A casa mia non manca mai. Ho qualche bottiglia nascosta nella cantina di mia madre che urla e implora di essere bevuta. La mia memoria papillare mi fa accogliere il 2018 con un po’ di stupore. Per la prima volta non sento un vino dal duplice carattere, pronto al godimento e allo stesso tempo che necessita attenzione e cura. Il giusto compromesso tra leggiadria e profondità. Un vino che chiede anche attesa, riflessione, un componimento di versi non solo da stornello. Per la prima volta, sento mancare l’aspetto più romantico e sensuale. Quella femminilità controllata che ti conquista anche senza essere smodata. A quanto pare la 2018 è stata un’annata proprio così. Pulita, elegante, ma con una dimensione più piccola, esile, anche se commercialmente ineccepibile. Sono di quelle annate sul cui futuro pochi scommetterebbero, tranne poi riservare a volte sorprese, come la 1966 del Chianti Classico o della Langa. Ma ormai lo abbiamo capito, quando in un vino si sente il carattere dell’anno, siamo di fronte a un prodotto vero, lavorato in vigna e non corretto in cantina. Anche se vorremmo che mantenesse il suo livello senza mai piegarsi ai capricci della natura. Lo voglio riassaggiare. Il ritorno.


4. Posaù 2020. Ecco il banale effetto “influenzale” di una visita in vigna che ha del poetico, del prosaico e dell’epico allo stesso tempo. Il Posaù lascia tutti a bocca… chiusa. In silenzio. Di là sentiamo gli strilli dei bimbi che chissà contro quale drago staranno combattendo all’interno delle fiabe di Goetz e il piacere di questo vino fuori dall’ordinario, quasi smaccatamente profondo, cornucopia di sentori, ricco e di grande allungo ci porta lontano. Non mi chiedete dove. Il senso di una giornata.


5. Curli 2019. Dopo avermi guardato con un ghigno dolce, Giovanna mi dice che lei non fa visite. Non dice che di solito non le fa. No. Lei non fa visite in vigna e in cantina. Punto. Non mi viene istintivamente di ringraziarla in ginocchio, come dovrei forse, ma mi rendo conto di essere un prescelto. Io, e company, ovvio. Mi rendo conto che sono qui e allo stesso tempo non dovrei esserci. Ci sono e non ci sono. E nel breve tempo in cui faccio questa riflessione, lei mi va a prendere questo ultimo regalo che mi fa scendere una lacrimuccia ribelle da un occhio a scelta. Deglutisco e mi preparo. L’aspettativa è enorme. Troppe cose si sono dette e scritte. Sarà veramente lui, il mito? Glielo chiedo prima di assaggiare. E lei non risponde. Mi guarda. Sfida la mia sfacciataggine. E poi, e poi… Curli non è solo un Rossese. Nasce Rossese e poi diventa un luogo in cui si incontrano molti protagonisti dei nostri viaggi e delle nostre sortite. Uno scambio senza fine di identità e di esperienze. C’è sicuramente tanta influenza, tanta sovrastruttura, eppure è davvero un vino denso di significati. Ma direi che il termine che più lo contraddistingue è solenne. Come una messa di Beethoven, penso. Come… ma a quel punto, Ale mi si aggrappa con tutto il peso alla camicia, mi dice che ha fame e che vuole salirmi a cavallo, sulle spalle, che quasi mi cade il bicchiere a terra… e mi riporta alla realtà.

Foto: Intralcio

Facciamo in tempo a fare alcuni brevi riassaggi casuali per mischiare le carte, e la complessità e il piacere di un incontro letteralmente non previsto ci prende a tutti la mano e ci lasciamo andare a saluti e contro saluti come quando si lasciano dei parenti dopo un’estate insieme, mentre ci avviamo a cenare a Bordighera vecchia da Magiargè, un posto che nessuno può farsi mancare se passa da quelle parti.

InvecchiatIGP: Tenuta Cantagallo - Colli Toscana Centrale "Gioveto" 2009


di Roberto Giuliani

Se da un Brunello di Montalcino o un Carmignano, o ancora un Chianti Classico, puoi aspettarti di trovare una bottiglia del 2009 in grado di essere apprezzata, da un’IGT Colli Toscana Centrale fai un po’ più fatica, sebbene qui siamo a Montalbano, che non è proprio un posto qualsiasi in campo vitivinicolo.


Aggiungiamo che questo Gioveto è stato sì chiuso in confezione da 6 bottiglie nel sottoscala al buio, ma certamente gli sbalzi di temperatura in tutti questi anni li ha subiti, di estati torride ne abbiamo avute, soprattutto la 2017 e la 2022 non hanno scherzato dalle mie parti. Eppure eccolo qui, sangiovese 60%, merlot 20%, syrah 20%, 12 mesi in barriques di Allier, un anno in bottiglia e poi in vendita. Quindi era già in commercio da più di 10 anni.

La Tenuta

In verità devo dire che ero abbastanza fiducioso di non rimanere deluso, in passato avevo già aperto vecchie bottiglie sia della Tenuta Cantagallo che di Le Farnete, ambedue di proprietà della famiglia Pierazzuoli, evolute molto bene, senza ossidazioni e cedimenti marcati. E anche in questo caso è andata bene, il vino è nel calice da più di mezzora e non sembra temere l’ossigeno, non si spegne nei profumi e non accenna a terziarietà spinte. Anche il colore è ancora compatto con riflessi rubini e buona profondità, solo all’unghia accenna al granato, ma è davvero poca cosa.


All’olfatto esprime belle note di prugna matura, confettura di more, ribes nero, pepe, cacao, tabacco, leggero cuoio, sottobosco, legno di liquirizia, incenso, riesce ad esprimere ancora una piacevole vena balsamica, il tutto in equilibrio ed estremamente piacevole.


Al palato c’è un velo di maturità, si sentono in parte quelle note che ricordano il goudron, la cenere, la polvere da sparo, ma la carica fruttata e speziata è ancora dominante e c’è una buona freschezza a sostenere una materia sostanziosa e profonda, segno che nelle intenzioni dell’autore la longevità era stata contemplata, altrimenti un anno di barrique lo avrebbe ammazzato...


Un rosso a tratti austero ma pieno di calore, avvolgente, il sorso non stanca, il tannino è perfettamente integrato e setoso, non ci sono sensazioni amare, quindi ci si può sbizzarrire senza paura con una bella fiorentina alta almeno 5 centimetri, anche se a questo punto io mi orienterei più verso le carni cotte lungamente, con intingoli speziati e scuri, perché questo Gioveto ha le spalle per reggere quasi tutto lo scibile alimentare.

Cantine Garrone - Vino Rosso "Munaloss" 2020


di Roberto Giuliani

Da quella meravigliosa terra che è la Val d’Ossola, un rosso base nebbiolo con un 20% di croatina che i fratelli Matteo e Marco Garrone vinificano solo in acciaio (una settimana di macerazione). 


Sa di viole, fragole, lamponi, guizzi agrumati, liquirizia e una bevibilità da urlo, fresco e pieno di energia.

Ristorante 53 Untitled: il tapas concept a due passi da Campo de’ Fiori


di Roberto Giuliani

Può un filosofo livornese avere uno stretto rapporto con il vino e la comunicazione? Oh yes! Vino e filosofia viaggiano con l’umano essere dalla notte dei tempi, lo sanno ben oltre il sistema solare. Sto parlando di un certo Riccardo Gabriele (in Ungheria o in Giappone si chiamerebbe Gabriele Riccardo, ma qui in Italia il nome e il cognome non si invertono, tranne negli elenchi e negli indici), che conosco da quasi vent’anni e stimo fortemente, perché la sua agenzia Pr-Vino funziona alla grande, e quando mi arriva un invito a un pranzo con un’azienda, faccio carte quarantotto per esserci. Cari pisani, fatevene una ragione, del resto stiamo parlando di vino, non di porti…


E così, quando Lisa Tommasini, responsabile rapporti con la stampa ed eventi, mi ha mandato l’invito per un pranzo al ristorante 53 Untitled di Roma con i vini di Cantine Garrone (di cui parlerò in altro contesto), non ho avuto alcuna esitazione, sia perché rivedere Matteo Garrone mi faceva un gran piacere, memore di un bellissimo tour in Val d’Ossola, sia perché non ero ancora stato in questo locale di recente apertura, sito in Via del Monte della Farina 53, alle spalle del Teatro Argentina e a due passi da Campo de’ Fiori.
Una doppia esperienza di cui è davvero valsa la pena, condivisa con un drappello di wine writers, tutte vecchie conoscenze, fra le quali Andrea Petrini, il più “giovane” di quel gruppo fondato da Carlo Macchi che si chiama IGP (I Giovani Promettenti) e di cui faccio parte anch’io.

Cecilia Moro

Devo dire che l’Untitled è stato una piacevole sorpresa, gestito da due giovani donne che si sono incontrate a un evento bolognese e hanno capito che potevano fare qualcosa di grande insieme, Cecilia Moro (chef romana con lontane parentele orientali) e Mariangela Castellana (avvocato e sommelier di origini pugliesi). A onor del vero c’è anche una terza persona, il sous chef brianzolo Andrea Riva, ma venerdì 18 non era presente.

Mariangela Castellana

Il locale è piccolino, massimo 24 posti, in un’atmosfera fine, di buon gusto, con un occhio moderno ma non privo di calore, merito dell’interior designer Adalberto De Paoli. All’arrivo ci ha accolto Mariangela, che è stata fondamentale per spiegarci i piatti proposti in abbinamento con i 4 vini portati da Matteo Garrone, azienda ossolana che amo profondamente, il suo Prünent, come viene chiamato il nebbiolo dalle sue parti, è pura poesia, sia nella versione giovane che in quella denominata “10 Brente”, più complessa e dalle notevoli capacità evolutive.


Cecilia, che da sempre ama le contaminazioni, forte delle sue numerose esperienze fra cui Pascucci al Porticciolo (Fiumicino), Guido di Ugo Alciati (Serralunga d’Alba), Don Alfonso a Sant’Agata dei due Golfi (NA), ha pensato di unire la cucina della tradizione romana con quella piemontese (e non solo), proponendo dei piatti davvero gustosi e di eccellente equilibrio.

Vitello tonnato

Si parte con il “Vitello tonnato e fondo bruno” affiancato da un cucuncio (il frutto del cappero), quindi un piatto di origine squisitamente piemontese, si faceva già nel ‘700, probabilmente nel cuneese, non c’era il tonno, che qui è presente, né la maionese; tenerissimo e ricco di sapore, l’aggiunta del fondo bruno ne aumenta la profondità.

I formaggi

Segue un “tagliere di tre formaggi”: comté, caciocavallo stagionato nelle vinacce di Primitivo Pioggia (fornitore di prodotti pugliesi) e Blu cremoso del Moncenisio; quindi un francese, un pugliese e un piemontese, consistenze e sapori diversi, personalmente ho perso la testa per il Blu cremoso…

Agnolotti del plin

Arriviamo al primo: “Agnolotti del plin al tovagliolo ripieni di sugo all’amatriciana, accompagnati da crema al pecorino romano DOP”; questa volta il Piemonte si fonde con il Lazio, devo dire che il risultato è notevole, soprattutto perché il piatto non risulta per nulla pesante, ed è anche divertente intingere con le mani il raviolo nella crema, appena lo mordi esce il sugo e si fondono i sapori, davvero ottima preparazione.

Dumpling

Un altro piatto che al 53 credo sia un must: “Dumpling coda alla vaccinara su crema di pecorino, fondo bruno e angostura”. Il dumpling, anche se tradotto in italiano è “gnocco”, di fatto è un raviolo cinese, altra contaminazione, ripieno con la romanissima coda alla vaccinara e aromatizzato con l’angostura, un bitter a base di erbe aromatiche amare, molto utilizzato in cucina. La cosa che ho maggiormente apprezzato, non solo in questo piatto, è la capacità che ha Cecilia Moro di trovare un equilibrio perfetto tra ingredienti non così semplici da unire, ottenendo preparazioni allo stesso tempo ricche, originali ma mai pesanti.

Uovo morbido 63°

Chiusura in bellezza con un altro cavallo di battaglia: “Uovo morbido 63° funghi porcini, topinambur e spuma di formaggio bruno”. Qui si tocca l’apice, l’uovo si trova sotto la spuma, con il cucchiaio è bene unire le diverse componenti per sentirne l’effetto, a mio avviso esaltante; altro punto a favore della cucina di Cecilia è riuscire a creare sapori intensi senza che questi diventino eccessivi, stancanti, privi di armonia, non sono scoppiettanti ma avvolgenti; si gode senza sentirsi appesantiti, tanto che l’ottimo pane di Roscioli (che si trova a meno di 100 metri) si è esaurito per ripulire ogni piatto. Meglio di così!