Enzo Signorelli, dalla fotografia all'olio extravergine di oliva dell'Etna!

di Stefano Tesi

Se le vie del Signore sono infinite, quelle del Signorelli lo sono quasi. E siccome per l’olivicoltura sono sempre tortuose e spesso parecchio acclivi, a praticarle ci vuole fede. O almeno molta fiducia.
Del resto, e di contro, chi può trovarle praticabili se non un fotogiornalista abituato a confrontarsi tutti i giorni sugli accidentati sentieri della libera professione, roba al cospetto della quale perfino i tormenti olivicoli possono apparire sopportabili?


E’ il caso appunto di Enzo Signorelli da Catania, qualche decennio alle spalle passato dietro a un obiettivo a documentare la cronaca del mondo (incluso lo scoop per il glorioso quotidiano "L'Ora" di Giovanni Falcone al lavoro), che alcuni anni fa si è trovato di fronte al classico bivio: una “campagna” che nessuno voleva o poteva più seguire, tra il dispiacere della prospettiva di disfarsene e le difficoltà oggettive di condurla.
Lui ha scelto la seconda opportunità. Con una meritevole aggiunta: dopo aver cominciato non ha rinunciato, come di solito fanno i quattro quinti di chi si trova in quella situazioni.
Ipse dixit: “Era una piccola proprietà  di famiglia a Ragalna, uno dei comuni del parco dell’Etna, zona dop Monte Etna, due ettari con poco più un centinaio olivi, molti secolari e sopravvissuti a varie traversie, incendi compresi. Ambiente incontaminato ma difficile da coltivare tra rocce laviche, vegetazione selvaggia e luoghi non proprio accessibili. Lavorare qui richiede molta fatica, senza contare i pericoli. Bisogna fare tutto a mano spostandosi a piedi e portando in spalla gli attrezzi: una faticaccia. Ripagati però da un paesaggio abbellito dai bulbi colorati lungo i sentieri, i ciclamini, le verdure di campo: mai assaggiati i caliceddi? Ci sono conigli, un paio di donnole, un falchetto che ci sorvola come un drone, qualche serpentello e qualche tartaruga. In febbraio fioriscono le rare orchidee spontanee come la Barlia robertiana, colore viola screziato.  E poi c’è l’olio, naturalmente”.


La 
biodiversità dell’ambiente e l’integrità del terreno, con alto inerbimento e microfauna, sono fattori decisivi per la qualità del prodotto. L’azienda è in conversione bio, ma la coltivazione è più che biologica: “Direi assolutamente naturale”, puntualizza Signorelli. “Non uso sostanze chimiche, rispetto l’integrità, la morfologia, l’equilibrio idrodinamico del suolo, l’acqua è solo quella del cielo. Le olive sono raccolte a mano. Per quelle più delicate, come la Moresca, anziché le reti si usano sacche di tela a tracolla come una volta, per non rischiare di rovinare i frutti. Molitura in giornata in un frantoio a ciclo continuo. Curo di persona anche la potatura e seguo tutte le lavorazioni in campo e fuori”.
Varietà utilizzate: Nocellara Etnea (la maggior parte) e varietà autoctone come la Murghitana o Moresca, Pizzutella, Minnedda, Ugghiara, con altre capitate lì chissà come, ma ormai acclimatate.
Cominciai con una scala di legno artigianale lunga oltre cinque metri e pesante come un cristiano. La sera mi sdraiavo sul divano e quasi sempre mi addormentavo lì, vestito e con le luci accese, dimenticandomi di cenare”, racconta. Nel 2015 aveva fatto diverse prove e il risultato era piaciuto molto a Gualtiero Marchesi, che lo aveva assaggiato grazie ad amici comuni. “L’episodio mi motivò moltissimo e mi spinse a continuare sulla via della qualità assoluta. Oggi l’olio viene conservato in acciaio, sotto azoto e a temperatura controllata. La raccolta è precoce, per estrarre un olio il più profumato possibile, gustoso e con notevole contenuto naturale di biofenoli, fino a 400mg/kg, che ne fanno un prodotto con qualità nutraceutiche”.

Ecco le mie note di degustazione.

Contrada Mancusa – Nocellara dell’Etna.
Extravergine monocultivar di Nocellara dell'Etna, da un oliveto tra i comuni di Santa Maria di Licodia e Ragalna, a 600 metri di quota. Acidità 0,18%.
L’olio ha al naso un piacevole e netto sentore erbaceo di media intensità, cui seguono accenni di foglia di pomodoro e una sensazione generale di fruttato maturo.
L’ingresso in bocca è gentile e denso, con un accenno dolce che si muta lentamente in amaro lieve, composto e leggermente piccante, molto lungo e senza inflessioni.
Prodotto equilibrato che per sapidità e intensità si presta a soddisfare molti palati.


Contrada Difesa – Antica Proprietà Tomaselli – Igp Sicilia.
Extravergine ottenuto da olive di Nocellara dell’Etna e di altre cultivar da un oliveto in territorio di Ragalna, a circa 400 metri di quota. Acidità 0,18%. Solo 450 bottiglie numerate e firmate destinate alla commercializzazione di alta gamma.
Al naso entra quasi in punta di piedi, delicatissimo ed elegante, sviluppando poi una sensazione di freschezza che richiama profumi di erba tagliata, di radicchio verde e di scorza tenera.
In bocca è più deciso e persistente, ma rimane composto, con un amaro e un piccante che crescono progressivamente e armonicamente fino a divenire dominanti, senza pregiudicare però l’armonia organolettica generale. Un extravergine di classe, destinato a palati evoluti.

Per informazioni e acquisti potete contattare direttamente il produttore: 335 6889498 o esignorelli@mac.com

Cantine Antonio Mazzella - Villa Campagnano 2018 Epomeo Bianco IGT


Blend ad armi pari di biancolella e forastera, le due grandi uve dell'Isola Verde. Magnum indimenticabile bevuta su una enorme quantità di pesce e pescetti fritti con tanti amici. 


Olfatto gentile, floreale, di limone e ginestra, al palato potente ed efficace, assolutamente dissetante. Una bella esecuzione del giovane Nicola Mazzella!

www.ischiavini.it

Passo delle Tortore: una idea giovane e vincente in pieno Sud!


di Luciano Pignataro

Passo delle Tortore a Pietradefusi. Stavolta voglio parlare di questa nuova azienda che si presenta con la prima vendemmia in un momento davvero difficile per tutto il mondo del vino. Un segnale di speranza e di fiducia che, nonostante tutto, e a dispetto delle tante crisi, chi si occupa di vino deve avere per portare avanti la sua attività.
In primo luogo parliamo del paese, poco più di duemila anime, che rientra nella docg Taurasi e che è proprio al confine, impercettibile, tra le province di Avellino e Benevento. Paesi e comunità silenti appollaiati su colline un tempo innevate o avvolte nella nebbia, quando l'aglianico veniva raccolto tardi. Siamo infatti comunque su una media di 400 metri sul livello del mare, appena un po' più alti di Taurasi che sta a 300 e da cui dista 13 chilometri di curve che scollinano in continuazione.

L'azienda

Qui il compianto Lucio Mastroberardino aveva individuato il cru del Taurasi Pago de Fusi di Terredora, un rosso monumentale e imperdibile. E nella frazione Dentecane si registra a più alta concentrazione di aziende impegnate nella produzione di torrone, marchi famosi che esportano in tutto il mondo.
Beh, proprio qui, in contrada Vertecchia, è nata questa nuova azienda che vede impegnate tre socie: Maria Carla Di Gioia, Francesca De Girolamo e Ilaria Facchiano. Ma i motivi per cui ci piace soffermarci su questa nuova avventura sono due. Il primo è che il direttore commerciale è Nicola De Girolamo, papà di Francesca e dell'ex ministro dell'agricoltura Nunzia. il secondo è l'enologo Francesco De Pierro.

Francesca De Girolamo

Nicola De Girolamo è stato per oltre un quarto di secolo direttore della Cantina del Taburno e contribuì, all'inizio degli anni '90, all'affermazione dei vini autoctoni campani con una linea di bianchi che ben presto si affermò sul mercato napoletano, sin o a quel momento consumatore di vini provenienti da altre regioni. Coda di Volpe Greco e Falanghina furono il tridente che affascinò i consumatori imponendosi con un giusto rapporto qualità/prezzo sfruttando l'esperienza dell'enologo Angelo Pizzi. In un secondo momento la Cantina, con l'ingresso di Luigi Moio, lanciò il Buie Apis, uno dei rossi da Aglianico più importanti della Campania che ha avuto molti riconoscimenti dalla stampa specializzata.
Il legame con Moio è nella scelta del giovane enologo che è stato suo allievo al corso di Enologia del Dipartimento di Agraria e che poi si è fatto le ossa studiando e lavorando per quattro anni in Francia tra Bordeaux e la Cote du Rhone.

Francesco De Pierro e Ilaria Facchiano

In simbolico cambio di testimone generazionale in cui l'energia giovanile si coniuga all'esperienza di una vecchia volpe che ben conosce il mercato in tutti i suoi risvolti.
L'azienda ha poco più di otto ettari, di cui 5,5 vitati (a cui si aggiunge uno in fitto) mentre il resto è occupato da ulivi. Le concimazioni sono di natura organizza e già si applica il protocollo regionale di lotta integrata ma è in programma la conversione biologica.

L'azienda si presenta con i tre bianchi.


Greco di Tufo docg Le Arcaie 2019
Un bianco ottenuto dalle uve coltivate su suolo tufaceo a Montefusco, paese che rientra nella zona docg del Greco e famoso per alcune delle sue migliori espressioni. Un bianco ricco, ovviamente ancora giovane, lavorate in parte in acciaio e in parte in barrique nuove. Decisamente ampio e complesso, va conservato secondo noi almeno un annetto prima di un nuovo stappo come sempre avviene per i Greco.

Fiano di Avellino docg Bacio delle Tortore 2019
In questo caso le uve sono di Lapio, l'unico paese in cui si incrociano le docg Taurasi e Fiano di Avellino. Siamo a 540 metri sul livello del mare e anche in questo caso si è avuta una lavorazione parallela tra acciaio e legno. Il Fiano di Lapio esprime sempre una complessità straordinaria ed è in grado di attraversare il tempo oltre ogni immaginazione come pure tante verticali hanno ormai dimostrato. Proprio gli studi del professore Moio hanno rivelato che il Fiano non solo resiste, ma si evolve con il tempo. Questa interpretazione ha certamente un occhio per la freschezza e la immediatezza, ma a nostro parere è un piccolo gioiellino che si rivelerà alla grande fra cinque, sei anni.

Irpinia Falanghina doc Piano del Cardo 2019
A riprova della serietà della impostazione aziendale, parliamo di uva coltivata proprio a Pietradefusi in provincia di Avellino in un conteso nel quale la maggioranza delle aziende irpine acquista uva o vino direttamente a Benevento, la cisterna della campania. Ci è piaciuto molto l'equilibrio perfetto tra il frutto e il legno che fa solo da spalla. Come beva è sicuramente più avanti degli altri due bianchi, ma anche in questo caso conviene attendere almeno l'autunno prima di stapparne altre.

E i rossi? A giugno in arrivo l’Irpinia doc, a settembre il Campi Taurasini e poi, ovviamente, il Taurasi. Di questi tempi ci è sembrato giusto segnalare una partenza in salita da parte di una giovane azienda. I presupposti per fare un grande lavoro secondo noi ci sono tutti e chi vivrà, berrà.

Tenimenti d’Alessandro - Toscana IGT Viognier 2019

di Carlo Macchi

Solo la dizione francese Vionier con la “r” accennata, può ingentilire il termine viognier e solo una gran mano e un terreno adatto possono dare l’esplosione di frutto (agrumi, albicocca, pesca) e la perfetta grassezza a un vitigno che poche volte ho trovato così meravigliosamente espresso.


Buonissimo!!!

E se vi dicessimo che sta nascendo la prima guida del vino in diretta?!?


di Carlo Macchi

Sembrano passati secoli da quando gli appassionati di vino aspettavano novembre inoltrato per conoscere i risultati dell’unica guida vini allora sul mercato. Il web ha velocizzato tutto (oltre ad aver stravolto anche lo stesso concetto di guida vini) e ormai i risultati degli assaggi di qualsiasi guida vengono prima pubblicizzati prima sui social e poi stampati.
Per quanto ci riguarda noi di Winesurf abbiamo sempre seguito la strada della guida online gratuita e questa strada ci rende ancora unici nel panorama nazionale.


Invece non sono certamente una cosa unica i filmati sul tema del vino che hanno invaso il web e i social da quando il coronavirus ci ha cambiato la vita: interviste, incontri, presentazioni di aziende, degustazioni “a senso unico” (cioè io assaggio e tu ascolti), a “doppio senso di circolazione” (con i vini spediti a casa) e chi più ne ha più ne metta.
Su questa indigestione di video si sono formati due schieramenti: il primo sostiene che una volta liberi dal virus si ritornerà a preferire le sane visite in cantina, il secondo afferma che comunque, pur ridimensionato, il “video web” continuerà ad essere usato in varie forme.
Anche all’interno della redazione di Winesurf si sono create fazioni pro e contro e alla fine la discussione ha portato alla nascita di un’idea , crediamo, abbastanza rivoluzionaria: la prima guida vini in diretta.

GUIDA VINI IN DIRETTA? Ci spieghiamo meglio.

Da oramai 14 anni la nostra guida vini ci porta ad assaggiare  tra i 6000 e i 7000 vini all’anno. Da sempre noi degustiamo solo di mattina e così ci è venuta l’idea di organizzare, per  il tardo pomeriggio dello stesso giorno,  un incontro video in cui presentare i risultati della degustazione  mattutina.
In altre parole, ferma restando la pubblicazione dei risultati completi  della degustazione su Winesurf (che avverrà con i soliti tempi) dopo 3-4 ore dal termine della degustazione apriremo una diretta (con ZOOM probabilmente) ,collegandoci anche con  Facebook e magari con Instagram in cui, oltre  a far presentare quel  territorio da un responsabile locale, parleremo dell’annata degustata e, soprattutto, presenteremo i migliori vini della degustazione, commentandoli e comunicando il punteggio da loro ottenuto.


Praticamente una guida in diretta (a proposito, alla diretta inviteremo anche i produttori) che crediamo potrà servire molto al consumatore finale, che riceverà una bella serie di consigli, potrà fare domande sia a noi che ai produttori e, last but not least, approfittare dell’immediatezza per poter  scegliere di acquistare un vino invece di un altro.
Con un filmato di 30-40 minuti (che, ripetiamo, affiancherà  e non sostituirà la guida online e tutti gli articoli di approfondimento) si potranno avere chiare indicazioni immediatamente  utilizzabili, nonché informazioni su quel territorio, su come è andata la vendemmia, sui produttori stessi.

Crediamo che questa innovazione possa essere utile un po’ a tutti: ai consumatori finali che avranno informazioni  “appena sfornate”, ai produttori che  potranno interagire in diretta con i consumatori  finali e, in definitiva, anche a noi di Winesurf per aver creato una nuova strada per le guide sul vino italiano.

Gli incontri della Guida in diretta verranno naturalmente pubblicizzati in precedenza su Winesurf e sui canali social. Visto che ci siamo vi comunichiamo che le prime due degustazioni riguarderanno le nuove annate della zona di Mamojada  e del Chianti Rufina. Tra qualche giorno pubblicheremo le date esatte degli assaggi con l’orario della diretta.

Cantina del Tufaio - 6 Gemme Bianco 2018


di Roberto Giuliani

Un anno in più di bottiglia e ora è davvero notevole, frutto dell’esperienza di Claudio e della “visione” della figlia Nicoletta. 


Malvasia puntinata e trebbiano giallo, un gioco elegante di fiori, frutti e miele che lascia il segno anche al palato. Una bellissima espressione di bianco laziale.

www.cantinadeltufaio.it

F.lli Cigliuti - Barbaresco Serraboella 1997


di Roberto Giuliani

Era tanto che non assaggiavo una vecchia annata del Serraboella di Renato Cigliuti, la lunga sosta a casa dovuta alla quarantena mi ha spinto a cercare in cantina se ci fosse ancora qualcosa di questa storica azienda di Neive e ho trovato questa 1997. Devo dire che stappo sempre con un certo timore questo millesimo, definito allora annata del secolo, più che altro per ragioni commerciali, eravamo all’apice del successo con il vino italiano, si vendeva “en primeur”.
In realtà, man mano che passavano gli anni, ci si è resi conto che si trattava di un’annata decisamente pronta, grazie anche al caldo estivo che aveva portato a maturazione il frutto e anche a una certa concentrazione materica, vini più fitti che particolarmente eleganti. Il tempo ha poi mostrato qualche limite di tenuta, a macchia di leopardo, a testimoniare che non sempre un vino, soprattutto se parliamo di Langhe, particolarmente apprezzato appena esce in commercio, ha le carte per mantenere le promesse iniziali.
Ma qui abbiamo di fronte uno dei cru più amati e contesi dell’area del Barbaresco, giunto alla ribalta soprattutto grazie a Renato Cigliuti e Paitin (ma ci sono altri nomi di spicco come i Barale, Massimo Rivetti e Fontanabianca). La prima annata di Serraboella di Renato risale al 1964. C’è da dire che non tutto il Serraboella riesce a dare grandi vini, parliamo di una superficie totale di poco più di 54 ettari, ma quelli dove il nebbiolo è in grado di esprimere il massimo sono meno di 30, tutti posizionati sul crinale che guarda a Neive ed esposti a ovest e sud-ovest.


Mi decido ad aprirlo, per fortuna senza difficoltà grazie a un tappo da 5 cm. che ha tenuto perfettamente per quasi 20 anni la posizione orizzontale del vino.
Una volta versato lo lascio ossigenarsi per un bel po’, diciamo almeno mezz’ora, non senza accostarlo periodicamente al naso per sentirne l’evoluzione espressiva.
La riduzione è minima sin dall’inizio, si apre senza particolari difficoltà, mostra un colore ancora solido sul granato, con unghia che inizia a virare verso il mattone.
Ecco, all’olfatto emerge chiaro che il vino ha tenuto bene, anzi, direi benissimo, si respirano note quasi fresche, le componenti terziarie sono contenute, sottobosco e funghi, felce, ma c’è anche la liquirizia e un frutto maturo per nulla stanco.


In bocca è sorprendente, prima di tutto perché testimonia come Renato ha saputo interpretare bene l’annata, non c’è alcun affaticamento nel vino, l’acidità è lì, ben percepibile, il tannino solido e di grana finissima, il sorso è davvero fresco, non c’è massa ma eleganza, il meglio che possa offrire questo cru di Neive; il vino sembra dichiarare con fermezza che a 23 anni dalla vendemmia la sua ultima ora è ancora lontana.
E più passano i minuti più si accende, vibra, scalpita, mi tocca pure ringraziare mister covid-19, altrimenti chissà quando avrei aperto questa bottiglia…

Cantina Ripoli – Chianti Classico 2017

di Andrea Petrini

Passare da grande appassionato di vino a vignaiolo di carattere non è da tutti ma Francesco Sarri vola sulle ali dell’entusiasmo producendo un Chianti Classico  straordinariamente godibile, succoso e degno compagno di questa quarantena. 



Bravo! Bis!

Pietro Zardini e il senso di leggerezza del suo Amarone della Valpolicella Riserva “Leone Zardini” 2011


Di Andrea Petrini

Lo ammetto, non sono un grande fan dell’Amarone della Valpolicella, non amo molto i residui zuccherini nei vini (a meno che non parliamo espressamente di vini da dessert) associati alle alte gradazioni che spesso e volentieri mi fanno desistere dal bere dopo il secondo sorso. I social, assieme alla mia innata curiosità, ogni tanto però fanno traballare alcune mie certezze e l’incontro con Pietro Zardini, prima virtuale e poi reale, mi ha per un certo senso rincuorato ed illuminato.

Pietro Zardini

Pietro è uno dei tanti vignaioli attivi su Instagram la cui storia professionale, dopo aver conseguito un diploma come perito agrario, inizia negli anni ’90 quando inizia a lavorare con successo come consulente enologo per importanti aziende vinicole della Valpolicella Classica. Nel 2000, però, la svolta: il papà che aveva una piccola realtà vinicola decide che è tempo di andare in pensione passando il testimone a Pietro che fece nasce la sua azienda, la Pietro Zardini (il nome del nonno), iniziando a gestire i 7 ettari di vigneti, di cui parte in affitto, al fine di produrre un vino tradizionale abbandonando i canoni dell’enologia moderna che, come mi ha spiegato lo stesso Zardini, può avere il grande rischio di dar vita a prodotti standardizzati, privi di anima, e con un gusto “creato ad arte” per andare incontro alle esigenze del consumatore. 

Vigne

Quello di Pietro, perciò, in tempi non sospetti, fu un ritorno al passato, alla ricerca di vinificazioni fatte in legno con follature a mano, l’appassimento senza condizionatori, i salassi, il lungo affinamento in botte o in fusto non tostato, sperimentando l’uso dell’anfora sui vini rossi, cosa che non era mai stata fatta prima in Valpolicella Classica.


I primi anni della mia azienda” – sottolinea Zardini – “furono abbastanza duri, la tecnologia è molto comoda, e certi coadiuvanti ti fanno risparmiare un sacco di lavoro, però il vino che ne usciva, mi ricordo bene, avena un timbro diverso, le annate erano ben definite, i profumi erano molto interessanti, ed i lunghi affinamenti davano un carattere inconfondibile molto tradizionale soprattutto alla corvina. Nel 2005 nasce il mio primo Amarone Riserva, il Leone Zardini che affina per 5 anni in legno e 1 in bottiglia. E’ entrato in commercio solo nel 2012 e, come si può notare, la sua etichetta raffigura il mio babbo, a cui è dedicato il vino, mentre si accinge a lavorare assieme al suo famoso trattore Landini tasta calda, comprato nel 1958”.


Prodotto da uve Corvina (70%), Rondinella (20%), Molinara (10%) provenienti da vigneti di Monte Mattonara e Negrar, questo Amarone Riserva mi ha stupito per la sua anima gentile, tradizionale e, soprattutto, per la sua poca voglia di stupire e prendere parte a competizioni edonistiche che per DNA non gli appartengono. E’ un vino profondo, certamente, ma spensierato, dai tratti decisi ma sfaccettati come un quadro di Monet dove gli aromi di viola, spezie orientali, legno di cedro e tabacco risultano in perfetta simmetria donando al vino un equilibrio di rara eleganza che lo rende, vivaddio, di una beva trascinante che non stanca mai il palato e l’anima del degustatore nonostante i 16 gradi alcolici (!!!!).


Note tecniche: appassimento naturale senza condizionatori per 4 o 5 mesi. Vinificato in tino di legno con follature a mano per 6-8 settimane. Pressato con un vecchio torchio manuale. Invecchiato per minimo 48 mesi in botte grande e fusti da cinque ettolitri. Imbottigliato generalmente un anno prima della commercializzazione.

Il Poggio - Sannio Dop Coda di Volpe 2018


di Lorenzo Colombo

Decisamente curiosa la storia della famiglia Fusco, proprietari de Il Poggio, la potere leggere qui


Noi ci limitiamo a presentarvi la loro Coda di Volpe, dal color giallo dorato e dal naso che s’apre sugli intensi profumi di frutta matura, frutta tropicale, fiori di tiglio e d’acacia e che entra in bocca morbido e succoso.

Villa Franciacorta e quel cambio di nome...

di Lorenzo Colombo

Due vini di Villa Franciacorta per spiegare il cambio di nome

Il 2008 fu un anno fondamentale per la Franciacorta ed i suoi vini, ci fu infatti una modifica sostanziale del disciplinare di produzione. Questo cambiamento andò a riguardare sia in vini con le bollicine –ovvero la produzione più importante del territorio- ma in maniera più netta i vini fermi. La situazione che si presentava allora –sinteticamente- era la seguente:

Franciacorta Docg

Nel 1993 un cambio nel disciplinare di produzione aveva stabilito che potesse essere prodotto “unicamente” tramite la rifermentazione in bottiglia ed andava ad eliminare la scritta in etichetta “Metodo Classico. Due anni dopo, nel 1995 il vino otteneva – primo spumante italiano prodotto tramite rifermentazione in bottiglia-
Le tipologie ammesse erano: Franciacorta, Franciacorta Satèn, Fraciacorta Rosé. Per tutte e tre era prevista inoltre la menzione Millesimato. I vitigni utilizzabili erano Chardonnay e/o Pinot bianco e/o Pinot nero.
Per quanto riguardava il Satèn non era ammesso il Pinot nero, che invece diventava obbligatorio (minimo 15%) nel Rosé(In seguito ci fu un ulteriore modifica nel disciplinare che comunque per quest’articolo non ci interessa).

Terre di Franciacorta Doc

Così si chiamavano i vini fermi, sia bianchi che rossi, prodotti sul territorio. Per quanto riguardava i bianchi i vitigni ammessi erano gli stessi del Franciacorta, ovvero Chardonnay e/o Pinot bianco e/o Pinot nero. Quelli rossi invece prevedevano almeno il 25% di Cabernet (sia Franc che Sauvignon), almeno il 10% di Nebbiolo, altrettanto di Barbera ed altrettanto di Merlot, più (eventualmente) altri vitigni a bacca rossa. La produzione totale del 2007 era stata di poco meno di 8,4 milioni di bottiglie (circa la metà rispetto ai numeri odierni) e il numero d’aziende associate al consorzio erano novantasei. Il nuovo disciplinare, come detto, stravolgeva completamente questo status quo, soprattutto per quanto riguardava i vini fermi –ed è su questi che ci focalizzeremo- ed in particolar modo quelli rossi.

La prima modifica significativa riguardava il nome, veniva infatti sostituito il termine “Terre di Franciacorta” con “Curtefranca”, questo per evitare qualsiasi confusione con il vino con le bollicine, inoltre si andava a modificare la composizione dei vini e, nel caso di quelli bianchi a stabilire le percentuali dei vitigni che rimanevano comunque gli stessi. Lo Chardonnay diventava il vitigno principale, con un minimo del 50% -d’altra parte quest’uva rappresenta oltre l’80% della superficie vitata del territorio- agli altri due vitigni era riservato, nel loro insieme, al massimo l’altro 50%.

Come dicevamo però lo stravolgimento riguardò i vini rossi che si videro cambiare nettamente nella loro composizione che divenne la seguente: Cabernet franc e/o Carménère per un minimo del 20%, Merlot per un minimo del 25%; Cabernet Sauvignon da un minimo del 10% ad un massimo del 35%, inoltre si potevano utilizzare altri vitigni a bacca rossa per un massimo del 15%.

Cos’era successo? Perché di questo drastico cambiamento?

Il motivo principale fu dato dal fatto che si scoprì che buona parte di quello che sin’allora veniva considerato Cabernet, nello specifico della varietà Franc, in realtà era Carménère –vitigno riconosciuto dal disciplinare di produzione proprio nel 2008- e quindi questa modifica diventava indispensabile se non si voleva incorrere in sanzioni dovute al non rispetto del disciplinare.

Ma perché questa lunga premessa quando alla fine stiamo affrontando la degustazione di due vini?

Perché i due vini, seppur della stessa annata –la 2006- hanno in etichetta una diversa denominazione: Curtefranca per quando riguarda il bianco e Terre di Franciacorta per il rosso.


L’azienda

Villa Franciacorta non è solo un’azienda, ma un borgo medioevale risalente al XV secolo che si trova nel comune di Monticelli Brusati. Venne acquistato nel 1960 da Alessandro Bianchi. Purtroppo Alessandro –tra i fondatori del Consorzio del Franciacorta- s’è n’è andato poco più di un mese fa, a 85 anni d’età a causa di questo maledetto virus che tanto ha colpito la provincia di Brescia.  Le prime etichette di vini fermi risalgono al 1974 e quattro anni più tardi vedono la luce i primi spumanti ed è appunto in quegli anni che l’azienda abbandona la policoltura e si dedica unicamente alla produzione di vino. Attualmente l’azienda dispone di 37 ettari a vigneto dai quali si ricavano annualmente circa 300mila bottiglie

I vini

Diciamo subito che all’apertura entrambi i tappi non si presentavano molto bene (le bottiglie sono sempre state conservate coricate), quello del vino bianco, appena tagliata la capsula presentava una chiazza di muffa scura, brutto presagio, mentre il sughero del vino rosso era bagnato sino a metà della sua lunghezza.
In realtà però i vini non presentavano alcun problema, se non una nota evolutiva, soprattutto in quello rosso.

Curtefranca Bianco Doc “Pian della Villa”

Le uve, Chardonnay in purezza, provengono da un vigneto pianeggiante posto di fronte all’azienda, ai piedi della collina Gradoni, della quale condivide la tipologia di suoli, un cru aziendale di nome Pian della Villa. I sistemi d’allevamento utilizzati sono il Guyot ed il Silvoz modificato, con densità d’impianto di 4.500 ceppi/ettaro, con resa di 80/95 q.li /ha. La vendemmia è leggermente tardiva in modo d’avere la piena maturità del frutto; la fermentazione si svolge in acciaio -dopo criomacerazione delle uve- dove il vino rimane sino a primavera, viene quindi posto in barriques dove rimane sino all’autunno, dopo l’imbottigliamento soste per almeno dodici mesi in bottiglia.


Molto bello il colore, oro luminoso, limpido, ricorda l’olio. Intenso all’olfatto dove si coglie immediatamente una nota tostata che rimanda al caffè ed alle fave tostate, segno che, nonostante siano passati diciotto anni, il legno non è ancora stato completamente assorbito, perlomeno al naso, emergono poi fiori di tiglio e d’acacia, note di miele e sentori di frutta tropicale e di mela matura.
Morbido al palato, dove percepiamo sentori di nocciole tostate e di vaniglia, pesca gialla ed albicocca matura, buone sia la vena acida (leggermente agrumata) che la nota sapida che donano freschezza al vino, lunga infine la sua persistenza.

Terre di Franciacorta Rosso Doc “Gradoni”

Le uve per la produzione di questo vino - frutto di un’accurata selezione- provengono dal vigneto Gradoni, un vero e proprio cru aziendale situato sulla collina alle spalle dell’azienda. Il sistema d’allevamento è il Guyot con densità di 4.000 ceppi/ettaro e resa di 60-80 q.li/ha. Si tratta di un classico taglio bordolese con 30% di Cabernet franc e parti uguali di Cabernet sauvignon e Merlot. La fermentazione si svolge in acciaio mentre l’affinamento, per dodici mesi, in barriques, seguito da ulteriori diciotto mesi di sosta in bottiglia.


Color granato profondo, l’unghia presenta riflessi aranciati. Chiuso all’inizio, anche dopo averlo scaraffato, austero, presenta note di goudron e sottobosco, radici e liquirizia, unitamente a sentori balsamici, mentolati e leggermente speziati. I tannini sono netti, il vino è asciutto ed ancora fresco, con una vena acida ancora ben presente, tornano i sentori di radici, chiude con buona persistenza su ricordi di bastoncino di liquirizia.

Catabbo - Tintilia del Molise 2015

Ho provato in molti modi, inclusi abbinamenti arditi, a ammazzare questa Tintilia, vitigno-bandiera del Molise. 


Niente da fare: ogni volta il vino, che nasce in acciaio e vetro, è risorto come un’araba fenice, col suo naso ai sentori di Mediterraneo e di legno secco e una bocca suadente e ampia, diretta e netta. In sintesi: buono!

Al tempo del Covid-19 riapertura e ristorazione non fanno rima!


di Stefano Tesi

La cosiddetta riapertura è alle porte, anche se nessuno ancora ha capito di preciso se, come, quando sarà. E, soprattutto, se funzionerà.
Il funzionamento si giudicherà su tre parametri: sanitario - e non è compito nostro - sociale ed economico. Il secondo e il terzo, come cronisti, ci investono invece in pieno.


Tra le preoccupazioni generali, quelle maggiori (non per importanza in assoluto, ci mancherebbe, ma per gravità e implicazioni delle conseguenze) riguardano quel vastissimo settore che fa leva sulla socialità, lo stare insieme quindi, e comprende turismo, ristorazione (che da sola vale 86 miliardi di euro e 1,2 milioni di posti di lavoro) e relativi indotti: dai produttori di vino e cibo alla distribuzione, dall’industria del divertimento al commercio al minuto, dai trasporti alla stampa specializzata e giù a cascata. In Toscana, un'aggregazione spontanea di ristoratori preoccupati ha dato vita in pochi giorni a un movimento trasversale che riunisce migliaia di operatori del settore in tutta Italia. A rincarare la dose è venuta la Fipe, che per i pubblici esercizi - bar, ristoranti, pizzerie, catene di ristorazione, catering, discoteche, pasticcerie, stabilimenti balneari - prevede "30 miliardi di euro di perdite il rischio di veder chiudere definitivamente 50mila imprese per 300mila posti di lavoro"

Ovunque, del resto, imperversano da un lato simulazioni da post virus, tra paratie di vetro e camerieri coi guanti (ma di gomma, come quando si puliscono i cessi), dall’altro fantasiosi e nuovi “modelli di business” che, in buona sostanza, suggeriscono ai ristoratori di cambiare mestiere, trasformandosi in imprenditori del catering o dell’asporto. Sbocchi non certi praticabili per tutti e che comunque, in quanto pecetta momentanea pensata più per passare il tempo che non per fare affari, già mostrano la corda.
Insomma è un subbuglio di domande e di ansie per il futuro.
Al netto di commenti miopi, o emotivi, o cointeressati (tutti purtroppo presenti in abbondanza, anche sui giornali) , dividerei il discorso in due parti molto nettamente separate, dove il confine è segnato tra la fine dell'emergenza e il post emergenza.
Finchè non si sarà conclusa la prima non potremo infatti realmente conoscere la seconda. Sulla quale, quindi, sbilanciarsi ora è prematuro. Può darsi accada di tutto, dal massimo del bene al massimo del male, ma ancora nessuno può saperlo. Concentriamoci dunque sulla prima.

Per come si delinea adesso, con il periodo transitorio e le relative norme, le conseguenze più evidenti saranno due (scegliete voi quale precederà l’altra, secondo me saranno concomitanti):
  • la decimazione di una vasta fetta dei ristoranti in attività, che chiuderanno per impossibilità tecnico/architettonica di adeguarsi, per asfissia finanziaria, per mancanza di prospettive imprenditoriali, per scoraggiamento o per incapacità di riciclarsi in qualcos’altro;
  • per i superstiti, il crollo del 50% della clientela e quindi dei ricavi, ma col mantenimento o la lievitazione dei costi (perciò anche dei prezzi?), perchè sfido chiunque ad aver voglia di andare a ristorante tra pannelli di vetro, guanti e mascherine, accessi contingentati, atmosfere ospedaliere, servizi acrobatici e distanze sanitarie. Oltre a situazioni quasi comiche: ad esempio, il vino chi lo versa? Chi tocca la bottiglia potrebbe contaminarla e deve comunque avvicinarsi. Che si fa, si stappa una bottiglia per commensale, con conseguenze etiliche ed economiche conseguenti?
Insomma, la gran parte della gente starà a casa e, se proprio avrà voglia di qualcosa, se la farà portare. Ma ovviamente non sarà la stessa cosa né per il cliente, né per il ristoratore.
Il tutto si risolverà con una facilmente vaticinabile catastrofe e la caduta a scalare di tutti i settori del comparto. Più una variabile inquietante: a chiudere non saranno solo i più deboli o i meno capaci. Insomma non ci sarà una selezione qualitativa. La decimazione potrà dipendere da mille altri fattori contingenti: ubicazione, regione, architettura, interpretazione locale delle norme generali e così via.
Ma il punto focale è forse un altro, sebbene meno appariscente in un periodo di emergenza come questo.


Sarà capire, al netto del danno percentualmente maggiore che subiremo in Italia in quanto paese economicamente molto dipendente dalla filiera turismo-ristorazione-cibo-vino, se la crisi che si profila sarà anche globale, e perciò planetaria, oppure più nazionale che altro.
Ovvio che se, per ragioni di prevenzione sanitaria, andare a ristorante diventerà ovunque pressochè impossibile, o pericoloso, o troppo scomodo, o comunque spiacevole, anche le conseguenze e i rimedi andranno visti in un’ottica planetaria e i contraccolpi negativi spalmati sull’intera industria mondiale del settore.
Se invece il problema, per questioni normative o epidemiologiche, riguarderà solo o soprattutto l'Italia, allora saranno dolori peggiori.
Anche alla luce del quadro sociopolitico generale, è difficile essere ottimisti.

Duca di Salaparuta - Duca Enrico 1995


Una bottiglia epica, la prima volta del Nero d'Avola tra i grandi vini italiani. 


Un quarto di secolo forse è un po' troppo per questo vitigno pensato all'epoca in stile eccessivamente materico, ma l'emozione e la freschezza hanno garantito una buona Pasqua e il rimpianto per quel decennio fantastico.


www.duca.it

Dal Vesuvio arriva Ereo, il rosato di Cantine Olivella


Tempo di rosati, aumentano le aziende campane che iniziano a crederci con passione e determinazione. Parliamo di Cantine Olivella che completa il suo progetto agricolo di recupero delle uve tipiche del Vesuvio proprio con questo rosato per il primo anno in commercio. Infatti, oltre al Piedirosso, questo blend vede la presenza di Guarnaccia e Sciascinoso, vitigni presenti in vario modo in regione ma decisamente poco valorizzati sul piano commerciale.

Sono uve che regalano in genere vini di buona bevibilità e assoluta gradevolezza, usati soprattutto per tagliare le durezze dell’Aglianico oppure per vini frizzantini come il Gragnano e il Lettere. In questo caso la scelta dell’enologo Fortunato Sebastiano è quella di usarli per produrre il primo rosato aziendale. Decisamente fresco, al palato sapido e con un finale amarognolo tipico del vino da suolo vulcanico. 
Si tratta dell’ultimo nato della cantina di Sant’Anastasia nata nel 2005 su un progetto al tempo stesso semplice e ambizioso: riprendere i vigneti sul Vesuvio con un progetto coerente alla sua incredibile storia ampelografica.


Siamo alle spalle della “montagna”, come la chiamano i Napoletani, quella meno conosciuta rispetto al versante bagnato dal Golfo di Napoli ricco di gioielli archeologici e di citta importanti proiettate sul commercio e sul mare, prologo della Penisola Sorrentina. Qui c’è un’anima più contadina che ha le sue radici nella piana che un tempo si chiamava Terra di Lavoro e che comprende le terre nere irrorate nei millenni dal Vesuvio che vanno dalla provincia di Salerno sino a quella di Caserta passando per i grandi centri agricoli a Nord di Napoli. Esattamente quindici anni fa Ciro Giordano, Domenico Ceriello e Andrea Cozzolino partirono con il loro progetto aziendale che oggi comprende dodici ettari sparsi sulla montagna in conversione certificata biologica con la stragrande maggioranza delle vigne ancora piede franco.




Rossi da Piedirosso, bianchi solo da Caprettone e Catalanesca, mentre Aglianico e Falanghina, i due vitigni autoctoni principi della Campania, non rientrano nei piani produttivi. Insomma, si potrebbe dire una nicchia nella nicchia. Ma è proprio questa scelta rigorosa e coerentemente territoriale a conferire grande valore al progetto di Cantina Olivella. Ogni sorso è assolutamente tipico e inimitabile, improntato alla bevibilità immediata anche se non manca qualche esperimento che punta a giocare su tempi più lunghi.
I vigneti sono sparsi sul territorio di Sant’Anastasia, un grande centro vesuviano meta di migliaia di pellegrini ogni anni che visitano il Santuario della Madonna dell’Arco. Si tratta di agricoltura eroica, curata direttamente da Andrea Cozzolino, decisamente faticosa perché non si tratta di un corpo unico e il vigneto più alto arriva a 600 metri di altezza. Dunque parliamo di una viticultura di precisione motivata soprattutto dalla passione e rifinita da una intelligente politica commerciale che, viste le piccole dimensioni dell’azienda che non supera mai le 90mila bottiglie, non cede a compromessi praticati purtroppo da tante piccole aziende della vicina Irpina che non rinunciano a una gamma troppo ampie di prodotti comprando uve fuori provincia.
La specializzazione invece è sicuramente la strada più lunga e faticosa, ma finisce per pagare e fidelizzare meglio esperti ed appassionati.
Chiudiamo dicendo che l’energia di Cantine Olivella si fonde ormai con quella di numerose altre aziende del Vesuvio grazie a nuove generazioni che hanno studiato Enologia e hanno viaggiato in Italia e nel Mondo accumulando esperienza soprattutto aprendo la mente. Un passo in avanti enorme per un territorio che sino agli anni ’90 vedeva soprattutto grandi vinificatori che ancora compravano uve in tutto il Sud per soddisfare la sete della vicina Napoli, unico mercato di riferimento.
Una rivoluzione colturale e culturale insomma, che rende sempre più interessante il territorio vesuviano. E di cui il rosato Ereo è solo l’ultima squillo di tromba.