Le Rogaie - Morellino di Scansano "Forteto" 2021


di Roberto Giuliani

Assaggio 10 vini eletti per Morellino del Cuore e rimango colpito dal Forteto 2021 Le Rogaie (Luca, Francesco, Carlo e Pietro Poggi), seconda annata di un sangiovese in purezza che ti trascina nella Maremma con decisione. 


Fresco, vivo, succoso, con un frutto croccante, giovanissimo eppur buonissimo!

Marino Colleoni e quel Brunello di Montalcino Riserva Santa Maria 2017 senza etichetta


di Roberto Giuliani

Chi ha avuto modo di conoscere Marino Colleoni, sa sicuramente che è un filosofo prestato all'arte contadina; bergamasco, quindi tosto e caparbio, nel 1989 si trasferisce con la moglie Luisa a Montalcino in quella località che i montalcinesi conoscono come "Sante Marie".

Marino Colleoni

Pur avendo nel cuore il sogno di produrre vino, inizialmente la struttura ha finalità agrituristiche, ma intanto Marino lavora per recuperare 2,5 ettari di ulivi e studia suoli, piante, insetti, la natura che lo circonda, perché il suo obiettivo è vivere in simbiosi con l'ambiente, impattando il meno possibile.
Nel 1995 scopre casualmente nel bosco circostante vecchie viti, filari seminascosti, decide allora di preparare il terreno, riportare alla luce le viti, ricostruire i tipici muretti a secco indispensabili su simili pendenze e in poco tempo realizza circa 3 ettari vitati. Finalmente, nel 2000, inizia la produzione del Brunello di Montalcino, che commercializzerà a gennaio del 2005.


Il suo approccio naturale, la sua visione che ricorda da vicino quella del mitico Masanobu Fukuoka, trasferita sulla vigna, non sono frutto di casualità, ma provengono dalla profonda convinzione che l'uomo deve fare vino negli ambienti giusti, deve assecondare i cicli vitali delle piante, deve imparare a "leggere" le loro necessità, a utilizzare tutti i sistemi di difesa che la natura stessa mette a disposizione, quindi niente chimica ma metodi del tutto naturali, sfruttando anche gli antagonisti che l'ambiente stesso fornisce.


In cantina le vinificazioni sono condotte con lieviti indigeni, senza controllo della temperatura, le fermentazioni vengono svolte in botti da 20 hl per circa una settimana e le macerazioni durano 20-25 giorni.
Basta farsi un giro in vigna per rendersi conto che qui tutto vive in simbiosi, condizione ideale perché certi parassiti e certe malattie fungine non invadano il campo, ma si limitino a qualche sporadica apparizione. Un problema che molti si rifiutano di capire, se fai la vigna in posti non adatti, se crei decine di ettari vitati uno a fianco all'altro, fai monocoltura, cosa ti aspetti che succeda? Poi ti lamenti se arriva la peronospora e in pochi giorni invade tutto?


Il 13 novembre 2022 sono andato a trovarlo, abbiamo fatto una lunga chiacchierata, anzi, direi che è lui che ha raccontato se stesso, ha parlato della sua vigna. Il suo vino è sempre tutto venduto, difficile trovare qualche bottiglia da lui, infatti mi ha regalato questa bottiglia di Riserva 2017 ancora non etichettata, annata che qui è andata molto bene, dimostrando ancora una volta che giudicare un'annata in modo generico è sempre profondamente sbagliato.
Credo che online il vino sia ancora acquistabile, il prezzo medio si aggira ben oltre i 100 euro, del resto con una produzione totale di circa 8000 bottiglie fra Rosso, Brunello Sant'Anna e Santa Maria, bianco Perluisa (da ansonica), rosato, rosso Selvarella, rende questa Riserva un prodotto di nicchia.

Marino Colleoni - Credit: Tuttowines

Del resto, basta berne un sorso per rendersi conto che li vale tutti, i profumi inebrianti che fanno capoccella con insistenza parlano chiaro, questo è un signor Brunello, pieno, vigoroso, complesso, ma anche elegante, terragno, profondo, con la mora selvatica in primo piano, una forte impronta di macchia mediterranea, non si fatica a cogliere l'alloro, la felce, ma anche note di liquirizia, cacao, noce moscata, mallo di noce, persino qualche spunto agrumato.
L'assaggio rivela un equilibrio invidiabile in ogni sua componente, freschezza, tannino e sapidità sono in armonia, il frutto è perfetto nella sua maturità, l'alcolicità si nasconde magnificamente dando l'impressione di essere poco sopra i 13 gradi, mentre in realtà ha sicuramente raggiunto i 14. Questo 2017 ha il pregio di essere assolutamente godibile già ora, pur avendo tutte le condizioni per evolvere altri vent'anni. Mi sa che farò presto un'altra visita in azienda..

Champagne: falsi miti e credenze sulle lussuose bollicine


Lo Champagne è considerato uno dei prodotti vinicoli più lussuoso al mondo e, proprio per questo, è associato a festeggiamenti e ricorrenze speciali nell’immaginario collettivo. Tutti lo conoscono come un “vino frizzante” proveniente dalla Francia, qualcosa di molto simile alle bollicine nostrane che, tuttavia, può avere prezzi decisamente poco accessibili.

Dinanzi a bottiglie iconiche, come lo Champagne Dom Pérignon, è difficile non rimanere affascinati ma, come vedremo, per apprezzare al meglio le peculiarità dello Champagne è importante conoscerlo a fondo.

Oggi, per l’appunto, presenteremo questo prodotto sotto una luce nuova, che non tenga conto solamente della sfera del lusso che lo avvolge e che sveli, finalmente, tutti i falsi miti e le credenze che vi ruotano attorno.

Non solo lusso e sfarzo: lo Champagne può essere anche “frugale”

Il primo falso mito da sfatare riguardo allo Champagne è la sua esclusiva associazione con le occasioni di lusso e celebrazioni. Sebbene sia vero che lo Champagne è spesso scelto per eventi speciali, va ricordato che può essere apprezzato in tanti altri contesti, anche quelli economicamente più abbordabili.


Il suo profilo fruttato e le bollicine vivaci lo rendono adatto anche per cene informali, aperitivi o semplicemente come accompagnamento per piacevoli momenti di relax. È da molto tempo che i produttori di Champagne lavorano per rompere la concezione elitaria che lo caratterizza ma, chiaramente, senza mortificarne le origini.

Questo aspetto si lega ad un altro “falso mito”, ovvero a ciò che riguarda il prezzo delle bottiglie di Champagne. Si, è vero, esistono etichette pregiate di valore altissimo, ma è vero anche che sul mercato esistono opzioni più accessibili di ottimo gusto e di grande raffinatezza.

Gli Champagne non sono tutti uguali

Nell’immaginario di chi non ha mai bevuto Champagne aleggia sempre la convinzione che si tratti di un vino spumante fruttato e delicato. Questo in parte è vero ma bisogna anche considerare che di tipologie ce ne sono molte, e che la loro essenza deriva dal metodo di produzione ma anche dalla regione da cui provengono.

La regione della Champagne, infatti, è suddivisa in diverse zone vinicole, ciascuna con caratteristiche uniche che contribuiscono alla diversità e alla complessità dei vini prodotti. A nord-ovest, per esempio, troviamo la Montagne de Reims, famosa per i suoi terreni calcarei e le vigne di Pinot Noir. I vini prodotti in questa zona sono noti per la loro robustezza e struttura.

Procedendo verso ovest, lungo le rive del fiume Marne, si trova la Vallée de la Marne, dove il Pinot Meunier è la cultivar più diffuso, nonché quello che conferisce l’animo morbido e fruttato allo Champagne.

A sud di Épernay sorge la Côte des Blancs, rinomata per i suoi terreni calcarei e le vigne di Chardonnay. Questa zona produce principalmente Champagne Blanc de Blancs, cioè ottenuto esclusivamente da uve Chardonnay.

Più a sud ancora, infine, troviamo la Côte des Bar, meno conosciuta ma in crescente riconoscimento, utilizza principalmente uve Pinot Noir e Pinot.

Il concetto di "terroir", dunque, è importantissimo perché influenza l’aspetto, il colore e la sapidità del prodotto in base alle condizioni del suolo, del clima e dell'esposizione dei vigneti.

InvecchiatIGP: Castello di Querceto – Colli della Toscana Centrale IGT “La Corte” 2000


Ci sono realtà nel mondo del vino italiano le quali, per mille motivi, sfuggono ai radar della comunicazione enogastronomica di massa anche se, vieni a scoprire successivamente, sono da tantissimi anni presenti sul territorio attraverso una produzione attenta e mai gridata. Un esempio lampante, almeno per me, è stato Castello di Querceto, in Chianti Classico, dove tra le alte colline di Greve dove la famiglia François ricerca da sempre l’autenticità del suo magnifico territorio attraverso i suoi vini e il suo Sangiovese.


“Il mio bisnonno all’inizio del ‘900 decise di scommettere sulla vigna de La Corte, che impiantò pionieristicamente solo con Sangiovese” afferma il produttore Alessandro François. “Io ho raccolto il suo testimone e ho cercato di seguire un metodo rigoroso per valorizzare al meglio quel vigneto e altre parcelle preziose”.
Oggi, Castello di Querceto, con la sua proprietà di famiglia, si estende su circa 190 ettari, 65 dei quali sono coltivati a vigneto, 10 a oliveto e il resto è rappresentato da boschi di quercia e castagno, utilizzati soprattutto come “riserva di caccia”.

Simone ed Alessandro François

Tra le uve rosse primeggia, ovviamente, il Sangiovese, a cui si affiancano numerose altre varietà, tra cui Canaiolo e il Colorino. Completano il quadro Cabernet Sauvignon, Syrah, Petit Verdot e Merlot. Tra i vitigni a bacca bianca ci sono la Malvasia del Chianti, il Trebbiano Toscano, il San Colombano e lo Chardonnay.


Grazie ad un incontro romano con Alessandro e Simone François, papà e figlio alla guida della tenuta, ho potuto apprezzare la gamma dei loro Chianti Classico e Chianti Classico Riserva a cui si aggiungono due Gran Selezione: Il Picchio (sangiovese 95% con saldo di colorino) e, dalla vendemmia 2017, La Corte (100% sangiovese).


Di entrambi è stata organizzata una mini-verticale di tre annate che, partendo dalla 2020 (millesimo ancora non in commercio) si è spinta fino all’anno 2000 dove, tra tutti, ha spiccato prepotentemente La Corte tanto da decidere di inserire questo vino, in passato un semplice IGT, nel mio InvecchiatIGP di oggi.
La Corte è un Sangiovese in purezza. Prende forma in un vigneto di ca. 4 ettari tra i 440 ai 470 m s.l.m, esposti a ovest/sud-ovest e in prevalenza sabbiosi e ricchi di magnesio.


L’annata 2000, dal colore ancora rosso rubino ancora compatto, è la quintessenza del sangiovese di Greve, identitario ma al tempo stesso sfaccettato, soprattutto se piantato su terreni ricchi di sostanze minerali come quello de La Corte che in questo millesimo, al naso, si conferma assolutamente autoritario, austero, dotato di sbuffi aromatici che vanno dal ferro fuso al salgemma che solo in parte schiudono aromi più delicati di muschio, radici e macchia mediterranea.


Ciò che maggiormente sorprende è sicuramente la bocca, dall’impostazione classica, che coniuga, ancora dopo 23 anni, finezza, dinamicità e forza dell’annata. Il finale è profondo e ricco di sapienti richiami ferrosi. E’ la bellezza del Territorio, baby!

Graziano Prà – Soave Classico DOC “Monte Grande” 2021


Da uve garganega e trebbiano di Soave provenienti da vigne di 40 anni di età, questo Soave, premiato anche dall’IGP Carlo Macchi, si caratterizza per affilate sensazioni minerali, accanto ad effluvi di cedro e mimosa. 


Corpo sapido, ricco ed avvolgente. Imbottigliamento, come di consueto, con tappo a vite.

Un vino, un progetto: nasce Ritorno


Ritornare alle origini con una sguardo rivolto al futuro. Questa frase, letta così, potrebbe sembrare uno slogan pubblicitario molto seducente ma, conoscendo da tempo Edoardo Ventimiglia e sua moglie Carla Benini, dietro quelle parole, invece, c’è ben altro, qualcosa di molto profondo e personale che da Pitigliano, luogo del cuore dove nel 1997 hanno fondato l’azienda Sassotondo, li ha portati fino a Milo, alle pendici dell’Etna, dove ha preso ufficialmente vita da qualche mese il progetto Ritorno.

Edoardo Ventimiglia e Luigino Bertolazzi di GRASPO

Come scritto in precedenza, il nome è assolutamente evocativo e scelto a caso perché, come dichiara lo stesso Ventimiglia, “seguendo il filo rosso dei vini vulcanici italiani, dal 2000 ho cominciato ad andare a Milo tutti gli anni, in occasione della Vini Milo, per condurre insieme ad Alfio Cosentino, al vulcanico Aldo Lorenzoni e agli altri amici “vulcanici”, le degustazioni del progetto Volcanic Wines. In questi 12 anni l’attrazione si è trasformata nella volontà di fare qualche cosa per riavvicinare la mia famiglia a questa terra”.


Ritorno, infatti, non è un nome casuale perché il Barone Gaetano Ventimiglia, nonno di Edoardo, direttore della fotografia con collaborazioni illustri tra i quali Hitchcock, era proprio catanese (fondatore della squadra di calcio della città) e dai suoi racconti è nata l’attrazione fatale di Edoardo verso la Sicilia tanto da voler riprendere un legame, mai sopito, con i luoghi della sua memoria e le origini della sua famiglia.

Lucio Bertolazzi, Edoardo Ventimiglia e Carla Benini

A Edoardo e sua moglie Carla non bastava tutto questo, volevano porre in essere qualcosa di concreto per il territorio ed, in particolare, per i vitigni perduti dell’Etna, creando al tempo stesso un progetto dagli importanti risvolti sociali. “Non voglio però fare un vino sull’Etna, come molti miei colleghi legittimamente fanno, ma un vino per l’Etna. In particolare, per l’Etna Bianco Superiore, che credo rappresenti il futuro”. Con queste parole Edoardo Ventimiglia ha presentato alla stampa il suo Ritorno, un Etna bianco superiore da carricante in purezza, che proviene dal vigneto degli Eredi Di Maio, nella prestigiosa Contrada Caselle, foglio 19, particella 117, nel comune di Milo sul versante est dell’Etna e che vede la sinergia tra i Ventimiglia ed un’altra grande figura del mondo vinicolo quale Federico Curtaz.

Credit: Gazzetta del Gusto

Questo Etna Bianco Superiore, prodotto nel 2021, vinificato in acciaio e affinato in un due tonnaux da 300 litri, è ricco e penetrante con un naso che richiama sensazioni idrocarburiche associate a tocchi aromatici di glicine, agrumi e mandorle tostate. Le percezioni olfattive trovano continuità al gusto, fresco e sapido insieme, in una gradevole fusione che mostra un vino giovane ma al tempo stesso raffinato e territoriale.


Prodotto solo in 200 magnum a produzione limitata, Ritorno è un progetto che ha anche una valenza sociale importante visto che con i proventi delle vendite, tramite Proposta Vini, si andrà proprio a finanziare l’Associazione G.R.A.S.P.O. per l’avviamento del progetto finalizzato alla catalogazione, recupero e successiva messa a dimora degli antichi vitigni dell’Etna con la collaborazione dell'Università di Catania.

Ruiz de Cardenas - Cuvée Armonia Blanc de Blancs Metodo Classico Extra Brut


di Lorenzo Colombo

Bella l’effervescenza di questo Metodo Classico prodotto con uve chardonnay che s’affina sui lieviti per 28 mesi. 


Decisamente sapido, fresco, pulito e fruttato, lo produce Gianluca Ruiz de Cardenaz, imprenditore milanese d’origine spagnola sulle colline di Torricella Verzate, nell’Oltrepò Pavese.

Scoprire il vitigno Rebo attraverso una verticale di Vigneti delle Dolomiti Rosso Passito IGT Reboro


di Lorenzo Colombo

Il vitigno


E’ curiosa la storia della genesi del Rebo, vitigno che deve il nome al suo inventore, Rebo Rigotti, ricercatore e sperimentatore presso la Scuola Agraria di San Michele all’Adige, che ha ottenuto questa nuova varietà nel 1948 tramite l’impollinazione di un fiore di merlot con uno di marzemino e che registrò questo incrocio col nome di 107- A. Il nuovo vitigno venne poi iscritto al registro Nazionale delle Varietà di Vite nel 1978 col nome del suo inventore. Ma la storia non finisce qui, infatti successive analisi genetiche hanno stabilito che in realtà si tratta di un incrocio tra Merlot e Teroldego. Il vitigno, il cui utilizzo è autorizzato nella Doc Trentino e in poco meno di una quarantina di vini ad Igt è assai poco diffuso, nel 2010 infatti il censimento agricolo ne contava solamente 119 ettari mentre l’edizione 2020 del Which Winegrape Varieties are Grown Where, che prende in considerazione l’anno 2016, ne conta solamente 92 ettari in tutto il mondo, 85 dei quali in Italia e di questi 60 nella provincia di Trento.


La sua area di diffusione principale rimane la Valle dei Laghi, nei comuni di Cavedine, Calavino, Volano e nella frazione Padergnone del comune Vallelaghi oltre che in quello di San Michele all’Adige.

Il Reboro

Il Reboro è frutto di un progetto di alcuni vignaioli della Valle dei Laghi che, forti dell’esperienza e della tradizione nella produzione del Vino Santo Trentino hanno pensato di mettere ad appassire anche le uve di Rebo e di trarne quindi un vino rosso passito. La presentazione di questo nuovo vino è avvenuta nel 2012, in occasione dell’evento annuale dell’Associazione dei Vignaioli del Vino Santo Trentino. Per la sua produzione vengono accuratamente scelte le uve migliori che vengono poste ad appassire sulle arele (graticci di canne) sino alla fine di novembre, dopo la vinificazione il vino deve maturare in botti di rovere per almeno tre anni.


I vini in degustazione

Le uve provengono dal vigneto San Siro, allevato a Guyot su suolo calcareo. Il vino s’affina per tre anni in barrique e per un anno in bottiglia. Sono tre le annate che abbiamo avuto il piacere di degustare, 2018, 2016 e 2014, ecco le nostre impressioni:

2018 – Color prugna, profondo. Buona la sua intensità olfattiva, ampio, balsamico, mentolato, prugna secca, prugna in confettura, ribes nero, accenni di vaniglia e di salamoia. Intenso e strutturato, asciutto, con tannino importante ma mai aggressivo, speziato, sentori di caffè, liquirizia forte, prugne secche, accenni di radici, buona la persistenza.


2016 – Il colore vira tra il granato profondo e compatto ed il prugna. Intenso al naso, balsamico, elegante e di buona complessità, prugna secca, ciliegia, frutti di bosco a bacca nera, spezie dolci, vaniglia, liquirizia dolce, cioccolato, note mentolate, accenni di caffè. Morbido e succoso, strutturato senz’essere pesante, vi ritroviamo i sentori di prugna secca e ciliegia matura, liquirizia dolce, cioccolato, vaniglia, sentori mentolati, buona la sua trama tannica e lunghissima la persistenza.


2014 – Color granato, con unghia tendente al mattonato. Buona la sua intensità olfattiva, vi cogliamo sentori di radici, liquirizia, spezie, vaniglia, cannella, cioccolato amaro e prugna secca. Strutturato, alcolico, asciutto, con tannino leggermente asciugante, presenta sentori di liquirizia, prugna secca, ciliegia matura, cioccolato, accenni di caffè, tracce mentolate e leggeri ricordi di legno, buona la sua persistenza.


Tre annate che, pur presentando un comune denominatore sono abbastanza diverse tra loro, riteniamo che questo sia dovuto in parte all’annata ma soprattutto (secondo noi) alla diversa maturità dei vini, dei tre quello del 2006 è per noi il più completo, più maturo e complesso rispetto a quello più giovane e più fresco, in forma e scattante rispetto al 2014.

InvecchiatIGP: Tenuta La Novella - Chianti Classico Riserva 2006


di Stefano Tesi

Ci sono vini che sembrano fatti apposta per rammentarti, oggi, quanto le cose, in un arco di tempo relativamente breve, possano cambiare nel profondo. Perché se è vero, come è ovvio, che tutto muta e quindi appare diverso rispetto a prima, a volte il mutamento ha dei simboli, dei benchmark direbbero quelli bravi, qualcosa che lo rappresenta meglio di qualunque altra cosa.


Questo Chianti Classico Riserva 2006 della Tenuta La Novella, a Musignano, presso San Polo, in comune di Greve, assaggiato ora è infatti perfetto alla bisogna.
Di ciò devo ringraziare il giovane enologo Lorenzo Morandi, che da 2015 con Simone Zemella si occupa dello sviluppo dell’azienda e che mi ha portato la bottiglia di cui sto per parlarvi.


La tenuta ha una storia antica e discontinua: già monastero e poi grande fattoria ottocentesca, passò da varie mani prima di arrivare, nel dopoguerra, a un industriale pratese morto nel 1970 senza lasciare eredi. Rimase abbandonata fino al 1996, quando la Società dei Domini, ne divenne proprietaria e iniziò un imponente lavoro di restauro e di recupero durato dieci anni, conclusosi con l’approdo all’agricoltura biologica e alla biodinamica odierne.


Dal punto di vista esteriore, più che dall’etichetta il cambiamento si coglie in retroetichetta: 80% di sangiovese, 8% di teroldego, 7% di merlot e 5% di cabernet sauvignon.

Il tappo è integro, il colore ancora scuro, pieno, profondo.

Al naso il vino rivela tutta la coerenza delle proprie origini: è ancora vivo sebbene compatto, a tratti pastoso, con residui echi di legno ben percepibili, frutti rossi molto maturi, ciliegia sotto spirito e note terziarie, marcate ma non troppo, di cuoio, funghi e liquirizia. Sentori che si evolvono appena, ma non mutano di sostanza nemmeno lasciando respirare il vino, che alla fine manca un po’ di profondità. Lo stesso accade al palato, con un’entrata potente e una struttura importante che però di fermano presto, senza spiccare il volo né in lunghezza, né in finezza e restano un po’ sospese come, alla fine, il giudizio finale. Il quale, tutto considerato, non è negativo, perché la bottiglia non tradisce affatto le attese. 


Anzi, le conferma. E mi spinge a dire che l’aggettivo più giusto per descrivere oggi questo vino è “didattico”: l’ideale cioè per spiegare a chi non c’era “come eravamo” e a chi ha ancora in cantina qualche bottiglia, “cosa aspettarsi”.

Poggiotondo - IGT Toscana "Poggiotondo" 2020


di Stefano Tesi

Ho fatto bene a rispettare la vocazione “tardiva” (è questa l’ultima annata in commercio) di questo rosso del Casentino a base di sangiovese e canaiolo, maturato in vasche di vetrocemento.


Bevuto col clima invernale e coi piatti giusti dà una sferzata di calore, piacevole veracità e di giusta pienezza.

Collazzi, il rosso toscano alla prova del tempo


di Stefano Tesi

Come diceva il titolo di un film bello ma poco conosciuto, “il vento fa il suo giro”. E a volte ti riporta laddove manchi da tempo, magari da così tanto tempo che tutto è cambiato. Oppure non è cambiato nulla, ma è mutato il contesto. L’effetto che mi ha fatto tornare ai Collazzi, la villa sulle colline fiorentine – secondo la vulgata, anzi, la più bella delle ville fiorentine – progettata del Rinascimento da un allievo di Michelangelo, Santi di Tito, è stato un po’ questo: la riscoperta di una sorta di familiarità perduta e di una motivazione nuova.


La motivazione era una verticale 2001- 2019 del “Collazzi”, il rosso igt Toscana nato qui negli anni Novanta (la prima vendemmia è del 1999) da un taglio di cabernet sauvignon, merlot, cabernet franc e, in seguito, di Petit Verdot, dal 2005 affidato senza soluzioni di continuità all’enologo Alberto Torelli. Ma anche farsi raccontare la vicenda della tenuta, storicamente della famiglia Marchi (400 ettari tra Impruneta, San Casciano e Scandicci, con 33 ettari di vigneto, 140 di oliveto e il resto a bosco), con le sue tante curiosità. Come quella di Ottomuri, il Fiano IGT Toscana (l’unico da questa varietà prodotto nella regione) ricavato da un’unica vigna sperimentale di galestrino e vendemmiata in tre tempi, piantata dove un tempo era stata una cava di argento.

Ma torniamo alla verticale.

Collazzi IGT Toscana 2019

Fa 24 mesi di barrique, per il 30% nuove e per il 70% di un anno.
Bellissimo colore rubino pieno, da cui emerge un riflesso bluastro intrigante. Al naso emergono molta gioventù e un frutto pieno, polposo, denso, accompagnato da una coda quasi salata. Sentori che si riversano puntualmente al palato, con una freschezza e un’acidità inattese. L’alcool è a 14,5° ma non si avverte troppo. Da aspettare.

Collazzi IGT Toscana 2015

Il colore è scurissimo, quasi impenetrabile, e il calore dell’annata emerge al naso con un accenno di sovramaturazione che però non intacca l‘evidenza delle pirazine del Cabernet Sauvignon, destinate a restare in primo piano. La sensazione di vino maturo si conferma in un palato asciutto e solenne, setoso elegante e con un finale di liquirizia.



Collazzi IGT Toscana 2008

Qui il Petit Verdot non era ancora entrato in scena. Il colore è un granato scuro, comunque integro. Al naso presenta marcate note terziarie di funghi freschi, muschio e sottobosco, ma è di discreta finezza e di una certa eleganza. Il tutto si conferma in bocca: il vino è severo, un po’ brontolone, evoluto ma ancora piacevole.

Collazzi IGT Toscana 2005

Ultima annata prodotta con legni americani: si vede e si sente. Di colore praticamente impenetrabile, al naso denuncia uno stile “antico” ma è ancora relativamente vivace e solido. Il balzo lo fa al sorso con una rotondità bella e rassicurante e un’agilità non banale, appena sporcata da un finale un po’ asciugante.

Collazzi IGT Toscana 2001

Rubino scuro e caldo, al naso è ovviamente evoluto ma si tratta di un’evoluzione elegante ed equilibrata che rende il bouquet godibile e fine, con un piacevole accenno di dolcezza e un gradevole tocco balsamico. Ed anche in bocca la piacevolezza non si dissipa, evidenziando sapidità, pienezza, una solida rotondità e qualche residuo di acidità.

InvecchiatIGP: Castello del Terriccio - Lupicaia 2001


di Luciano Pignataro

Possiamo dire che il Lupicaia 2001 è l’ultimo vino degli anni ’90? Beh, da un punto di vista psicologico sicuramente sì visto che quell’anno, con l’attacco alle Torri Gemelle, siamo entrati in una nuova fase storica che ci ha fatto cambiare molte abitudini quotidiane, ma soprattutto perché il mondo del vino interruppe la sua cavalcata trionfale iniziata nel decennio precedente dovendo fare i conti con una improvvisa crisi di del mercato americano, principale sbocco naturale dell’export italiano.


Ma la vendemmia, dopo la calda 2000, nulla faceva presagire del brutale e progressivo cambio climatico: annata inizialmente piovosa e con una gelata ad aprile che in Toscana tagliò la produzione del 15% circa, poi riequilibrata da un buon andamento che ha portato persino ad un po’ di anticipo nella raccolta proprio sulla costa.


Bere il Lupicaia 2001 è dunque una sensazione straniante: siamo in un'altra epoca, non esistevano i social, decisamente rassicurante e conforme ai canoni produttivi degli anni ’90 nella fase produttiva, decisamente nuovo millennio per le fasi commerciali seguenti. Era ancora il periodo in cui il legno non era stato così ferocemente messo in discussione e si affacciava appena il tema dei vitigni autoctoni come principale caratteristica identitaria del sorso rispetto al territorio di provenienza. Anzi, il Lupicaia, in questa versione 2001 con un po’ di Merlot e di Pedit Verdot a saldo di un 85 per cento di Cabernet Sauvignon era sin dalla sua nascita, il 1993 per l’esattezza, orgoglioso alfiere dell’impostazione bordolese in salsa mediterranea che ha sonoramente rinnovato la viticultura della costa toscana e, di conseguenza, della viticultura italiana. Fu proprio grazie ai vitigni internazionali che la Toscana trascinò il resto del paese verso un export redditizio, autorevole e non più subalterno alla Francia.


L’azienda, con i suoi 3500 ettari di cui una settantina vitati in quel di Castellina Marittima, non ha bisogno di presentazioni essendo stata la protagonista del rilancio del vino italiano nel suo decennio d’oro e mantenendo la rotta sulla qualità assoluta nel corso degli anni. Indubbiamente un vino molto ben fatto, nonostante i nostri pregiudizi verso tanti vini così concepiti di quell’epoca alla prova del tempo. Non solo il tappo è perfetto, ma il colore granato è vivo e sin dal primo secondo il vino, conservato tutto questo tempo nella sua cassetta di legno in cantina, respira ancora frutta rossa, note balsamiche e di macchia mediterranea in un vago contesto di fumè e carruba. Se proprio volete saperlo, non ho percepito il classico peperone sempre associato didatticamente al cabernet. Al naso il frutto e il legno appaiono in perfetto equilibrio, direi anzi fusi e la scelta dei tonneaux da parte della azienda, rilanciata dal mitico marchese Gian Annibale Rossi di Medelana purtroppo scomparso nel 2019, appare da distanza di 23 anni saggia e lungimirante.

Gian Annibale Rossi di Medelana Serafini Ferri 

Il vino, con il passare dei minuti acquisisce complessità e intensità olfattiva con note di caffè, in parte liquirizia, conserva. Le premesse del naso vengono mantenute al palato dove la freschezza sostanzialmente integra tiene in piedi la beva in maniera autorevole senza il minimo cedimento, spingendo con decisione il sorso in un contesto di morbidezza setosa dei tannini, presenti e di pregio, sino al finale lunghissimo in cui ritornano i ricordi di frutta rossa. Una chiusura che conserva intatta la sapidità del sorso che non ha alcuna concessine piaciona o dolce e che anzi invoglia a ripetere la beva. 


La bottiglia finisce rapidamente e ci complimentiamo per la nostra tenacia di resistere alla tentazione di aprirla prima: fisicamente parlando, ammesso che il Lupicaia 2001 sta ancora in commercio (lo vediamo quotato sui 220 euro sul web), è al suo zenit. 
Un grande vino. Questo è l’epitaffio che lasciamo alla bottiglia vuota.

Tenuta del Cavalier Pepe - Irpinia Coda di Volpe DOC "Bianco di Bellona 2011"


di Luciano Pignataro

Non importa il vitigno, sui tempi lunghi i bianchi irpini regalano sempre grandi soddisfazioni. 


Come questa Coda di Volpe lavorata solo in 
acciaio e dimenticata in bottiglia dal naso di cedro candito e idrocarburo, con la beva piena e appagante ben sostenuta dall’acidità. Sorso finale lungo e dissetante.

Mastroberardino, produttore iconico della Campania, presenta le nuove annate


di Luciano Pignataro

I produttori storici che hanno avuto la capacità di aggiornarsi e rinnovarsi costituiscono un vero e proprio benchmark per le denominazioni in cui operano. Tanto più vero quanto più sono circoscritti i territori di riferimento. Ecco perché in un areale altamente vocato, ma decisamente piccolo per dimensioni, non si può prescindere da Mastroberardino per una valutazione dell’annata e per capire l’orientamento e l’evoluzione dei vini. Sarà inutile ricordarlo ai più, ma vale la pena sottolineare che i disciplinari dei vari Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Taurasi furono scritti da questa famiglia e che quando il Taurasi divenne DOCG, nel 1993, le uniche bottiglie disponibili erano quelle di Mastroberardino e di Struzziero.


Ecco perché ogni anno prendo il computerino e chiedo a Piero la possibilità di provare le nuove uscite. Nessuna altra azienda sul territorio può regalare un quadro così completo da un punto di vista didattico. Questo non vuol dire che non ci sono altri attori importanti e interessanti, magari nelle singole denominazioni anche più interessanti, ma il quadro completo si becca qui: ad Atripalda oppure nella nuova tenuta a Mirabella, creata proprio d Piero, che ha lanciato la Locanda del Lupo proprio quest’anno, con una bella ristrutturazione dei locali con vista sui vigneti.
Ecco allora, in sintesi. i nostri assaggi della linea top, fatto con il conforto di Massimo Di Renzo, enologo aziendale.

Neroametà - Bianco Campania IGT 2019

Uno dei pochi Aglianico vinificato in bianco secondo una usanza particolarmente presente fra Campania e Vulture nei primi anni ’90. L’aspetto interessante di questa etichetta è il ritardo della uscita. Sentiamo prima la 2019 che sfoggia un naso elegante, di note balsamiche e frutti rossi, sapido, freschissimo. Lungo, ripulisce bene il palato.


Neroametà -  sarà Irpinia Doc 2020

La prima annata in cui cambia la denominazione, da igt Campania a Irpinia Doc, segno di una maggiore determinazione dell’azienda a valorizzare questo progetto. Appena in uscita, esprime un bellissimo profumo di frutta rossa e note di incenso, canfora. Il vino ha un leggero passaggio in legno, ma resta in ottimo equilibrio con la frutta.

More Maiorum - Irpinia Doc 2018

Lo storico vino elaborato per la prima volta negli anni ’80 esce con cinque anni di ritardo. Uno sforzo notevole e con una novità. Il Fiano di Lapio è in blend con un parte di Greco di Tufo. Il vino fermenta in barrique e poi affina per almeno un anno e mezzo in bottiglia. Forse è quello che più di ispira allo stile borgognone ed esprime in questo sorso, ci piace questo ossimoro, una spudorata eleganza, complesso, note di basalmico, mentola. Lungo, sapido. Piacevole. Assolutamente nelle nostre corde, diventa difficile non berlo anche in degustazione. Ma a noi i bianchi invecchiati con passaggio in legno fanno impazzire.


Veniamo adesso al progetto Stilema, un omaggio ad Antonio, il padre di Piero. “Con tale espressione intendiamo – spiega - evocare lo stilèma della vinificazione dei vitigni autoctoni d’Irpinia (il Fiano, l’Aglianico, il Greco) così come avveniva a cavallo tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 70 del Novecento per il Taurasi, e tra gli anni ‘70 e ‘80 per i due più nobili bianchi d’Irpinia”.


Stilema - Fiano di Avellino Riserva Docg 2019

Si riaggancia al 2015, prima uscita. Nasce da uve di Montefalcione e Manocalzati. Un dieci % matura in barrique di secondo e terzo passaggio. Qua il tempo diventa il grande alleato alleato e questa etichetta esce dopo quattro vendemmie. Note di pera matura, di foglia di fico, balsamico, agrumato lungo, intenso. Al palato è sapido, piacevole, lungo, amaro finale.


Stilema - Greco di Tufo Riserva Docg 2019

La sorpresa di questa degustazione è stato proprio il Greco. E’ vero che i due grandi bianchi di solito procedono a corrente alternata, ma stavolta l’uva di Montefusco, Tufo e Petruro Irpino stupisce per la grande energia al palato. Piacevole, lungo, è decisamente avanti rispetto al Fiano per completezza e complessità. L’aspetto più interessante è che l’eleganza allontana i toni rustici tipici di questo vitigno, un po’ in difficoltà negli ultimi anni a causa delle annate calde. Del totale, meno del 10% ha un passaggio in legno.


Stilema - Taurasi Docg 2017

La volontà è quella di riproporre lo stile dei Taurasi del passato. E’ un blend di uve di Pietradefuso, Montemarano e Paternopoli, parte bassa e parte alta della denominazione. Breve macerazione (7/8 giorni) e poi affinamento per circa due anni in legno di rovere di Slavonia di 50 ettolitri e barriques di rovere francese (non di primo passaggio). Infine 30 mesi in bottiglia. L'estrazione non esagerata è sempre stato il marker aziendale: al naso esprime una bella ciliegia, al palato il tannino è ben risolto, la sensazione è di freschezza con un finale lungo e piacevole.


Ora restiamo alla 2017, annata non facile ma molto ben interpretata dall’azienda per illustrare gli altri due grandi rossi da aglianico

Naturalis Historia Taurasi Riserva Docg 2017 

Rosso vino ottenuto con uve provenienti da un vigneto di circa 50 anni della tenuta di Mirabella Eclano. Invecchiamento solo nel legno piccolo, da vigne vecchie di 50 anni. Il vino si presenta compiuto, tannini e freschezza ben bilanciati, al naso frutta croccante e rimandi appena accennati di affumicato, al palato beva amica e golosa. Un grande rosso da manuale.



Radici Taurasi Riserva Docg 2017

L’etichetta più amata da Parker nasce nel 1986 e da allora è sempre stata usata l’uva del vigneto di Montemarano. Affinato in barriques di rovere francese e botti di rovere di Slavonia per circa 30 mesi e almeno 40 mesi in bottiglia. Mentolato, balsamico, lungo. Tannino più presente, lungo. Piacevole.


La grande bellezza di questi vini è la loro capacità di essere grandi interpreti territoriali e al tempo stesso di essere molto caratterizzati. Quando li bevi non pensi mai ad altri riferimenti, ma proprio al lavoro fatto da Mastroberardino in questi anni. Tutti hanno un grande futuro.

InvecchiatIGP: Podere 414 - Morellino di Scansano 1999


di Carlo Macchi

Il podere dell’Ente Maremma 414 è uno dei tanti che l’ente creò nel 1960, dividendo giganteschi latifondi e affidandoli ad “assegnatari”, cioè a famiglie contadine provenienti da ogni parte d’Italia. Erano terreni praticamente vergini dal punto di vista agricolo ma non certo facili da coltivare. Dopo quasi quarant’anni, nel 1998, Simone Castelli, figlio d’arte di Maurizio, uno degli enologi che hanno fatto la storia della Toscana enoica sin dagli anni ’80 del secolo scorso, acquistò questo podere e iniziò a fare vino. 


Non era facile coltivarlo nel 1960, ma anche nel 1998 non era certo una passeggiata. Sin dall’inizio Simone puntò sul sangiovese e, magari sotto l’influsso di quegli anni, produsse dei vini forse un po’ troppo legati alla concentrazione e all’uso del legno. Piano piano ha affinato le sue proposte, anche se i Morellino di Podere 414 sono sempre austeramente importanti. I vini dei suoi inizi erano indubbiamente un po’ eccessivi, almeno così li valutai allora. Però il tempo da una parte è galantuomo ma dall’altra prima o poi ti presenta il conto.
Questo “conto” per me è arrivato durante una visita estiva a Simone quando , oltre a tutti i vini adesso in commercio ha aperto una bottiglia di 1999: così il tempo si è dimostrato galantuomo, ma per Simone.


Certe volte i sangiovese (questo con un piccolo tocco di ciliegiolo) mi lasciano di stucco sin dal naso. E’ stato il caso di questo grande vino, che unisce ancora del frutto rosso al cioccolato e a sentori di terra e sottobosco, il tutto con un’intensità incredibile . In bocca ha potenza ancora da vendere ma ben distribuita, con accanto freschezza e sapidità. I tannini sono grossi e grassi, dolci e quasi “pesanti”, portando il vino ad un allungo incredibile. Sfido chiunque ad assaggiarlo bendato e a non pensare ad un grande Brunello di Montalcino, invece è un grandissimo Morellino di Scansano, sicuramente uno dei più buoni assaggiati in vita mia.


Complimenti Simone, la lezione che ho imparato ma che difficilmente metterò in pratica adesso vista la mia età è che per valutare un vino devo aspettare almeno 20 anni, meglio se un po’ di più.