Silvia Zucchi - Lambrusco di Sorbara DOC Metodo Classico 2018


di Carlo Macchi

E’ già scritto tutto in etichetta! Non dovete far altro che stappare questo Sorbara profumatissimo, straordinariamente sapido e constatare che quegli aggettivi non sono messi a caso.
 

Lo produce Silvia Zucchi, il futuro del Lambrusco al femminile. Seguitela con attenzione e bevete i suoi vini con gusto!

Intervista a Giovanna Morganti: in tempi brevi si farà molta fatica a fare il vignaiolo


di Carlo Macchi

Abbiamo fatto una bella chiacchierata a 360° con Giovanna Morganti, nota produttrice chiantigiana (Podere Le Bonce), fautrice dei vini naturali e in prima fila quando nacquero le prime sigle di quello che poi è diventato un vero e proprio settore del vino italiano. Con lei abbiamo toccato sia il tema vini naturali che il cambio climatico, passando attraverso riflessioni profonde sul ruolo di un produttore di vino.

Winesurf: “Partiamo da tuo padre Enzo Morganti, che ha fatto un bel pezzo di storia non solo di San Felice ma del Chianti Classico. Dal punto di vista del fare vino ti ha insegnato qualcosa, e cosa in particolare?”


Giovanna Morganti “Mi ha insegnato la sacralità della cantina. Era bello da piccola stare con lui in cantina, magari aspettando Giulio Gambelli. Capire che il nostro lavoro non finiva alla vendemmia ma ce n’era un altro pezzo da fare dopo. Da un punto di vista enologico invece non siamo mai andati molto d’accordo perché lui era figlio di un’epoca anche un po’ troppo interventista e lavorava in aziende dove c’erano dinamiche diverse da quelle che poi ho seguito io. Più che aspetti tecnici babbo mi ha insegnato un’etica.”

W. “Da quanti anni produci vino?”

G.M. “Le Trame (il suo vino più famoso) è nato nel 1990 ma ho iniziato a lavorare nel 1984.”

W. “Ottima annata per iniziare…”

G.M. “Sai che mi ricordo ben poco di quell’anno?”

W. “In Toscana Fu una delle vendemmie più tragiche del secolo scorso.”

G.M. “Mi ricordo solo che far maturare le uve nelle zone alte del Chianti Classico era un vero problema.”

W. “Come ti definiresti come produttrice di vino?”

G.M. “Coraggiosa, rigorosa, curiosa, e sempre con tante domande che non hanno risposte certe.”

W. “Qual è la cosa che in vigna ti dà più gioi e quella che ti fa più arrabbiare?”

G.M. “Forse sembrerò un po’ troppo romantica però mi dà gioia lo starci: a me toccare le viti e vederle sane piace tantissimo. Quello che mi fa arrabbiare sono le “incomprensioni”: cioè vedere che siamo in un momento di passaggio che è epocale, specie nel mio caso dato che ho vigne di trent’anni e quindi in un momento delicato, e non capire, con sicurezza, cosa fare.

W. “Credi che il Chianti Classico, con le UGA e la Gran Selezione, stia seguendo la strada giusta?”

G.M. “No!”

W. “Mi immaginavo questa risposta. Perché?”

G.M. “Perché è una cosa fatta a tavolino, di testa, non fa crescere il territorio, non fa crescere il Chianti Classico d’annata che a sua volta è quello che dovrebbe far crescere il territorio e allontana ancora di più le aziende dal fare buona agricoltura.”

W. “Ce la fai, il più brevemente possibile, a tracciarmi le evoluzioni nel mondo dei vini cosiddetti naturali negli ultimi 20-25 anni?”

G.M. “Il movimento dei vini naturali è nato alla fine del secolo scorso da un impulso venuto dalla Francia. Riuniva i biodinamici italiani insieme a tante altre realtà: all’inizio era molto bello perché metteva insieme situazioni di rispetto ecologico, cioè di voler fare una viticoltura e un’enologia sana e metteva assieme anche ideologie più sociali o se vuoi politiche. C’era un filone piemontese, uno friulano, uno toscano. Realtà e persone molto diverse, per esempio Angiolino Maule e Teobaldo Cappellano. Poi quando è nato l’interesse sono arrivati i protagonismi e si è perso un po’ il senso comune. L’evoluzione attuale è autoreferenziale, moltissimi pensano di essere già arrivati.”

W. “Arrivando a oggi le varie associazioni di vini naturali riescono ad andare d’accordo?”

G.M. “Non credo. Nel mio caso io ne sono fuori ma ho tanti amici all’interno e ho abbastanza il polso della situazione. Secondo me non c’è più nemmeno l’energia del disaccordo e mi sembra che un po’ tutti si siamo chiusi nel loro piccolo mondo e alla fine le associazioni si rianimano solo un mese prima di andare al Vinitaly e questo fa tristezza. Naturalmente non puoi non considerare la parte commerciale ma mi pare che alla fine tutto finisca lì. Anche il fatto che Vinnatur si faccia certificare mi sconcerta, perché eravamo partiti per essere contro alle imposizioni e certificazioni. Stiamo andando in una direzione contraria rispetto a quella iniziale. Anche i pensieri un po’ più ribelli sono sponsorizzati dalle grandi aziende. C’è una grande passione,a parole, per il mondo green, con ognuno che vede il mondo green in maniera diversa.”


W. “Passiamo oltre: la vendemmia 2023 ha messo a dura prova ogni categoria di produttore: credi che vendemmie del genere portino con sé un messaggio di cambiamento e se si quale?”

G.M. “Certamente, portano un’evidenza di un sistema estremamente fragile e sto parlando del sistema vigneto e del rapporto agricoltore-vigneto. Per essere ottimisti dovremmo fare punto e a capo, poi però queste cose vanno elaborate e purtroppo gli agricoltori hanno spesso una memoria molto corta e magari sono già pronti a partire per la nuova annata sperando non si ripresentino le condizioni passate. Poi non so quanto questa forte incidenza della peronospora lasci delle informazioni così importanti anche se dovrebbe essere così. Il sistema pianta ha mostrato una fragilità incredibile mentre noi produttori mostravamo un’ignoranza mostruosa, non sapevamo proprio a che santo votarci. Poi erano anni che la peronospora non dava molta noia e quindi eravamo tutti rilassati, però siamo stati impreparati rispetto a un cambiamento stesso della malattia e della sua intensità. In testa poi io ho messo in fila tutte le falle del sistema: la non adeguata attenzione ai trattamenti, al periodo di copertura, ai prodotti che si usano, ai quantitativi, ai dosaggi e altro. Alla fine diventa tutto un po’ dogmatico. Non si possono utilizzare più di tot chili di questo o di quello ma alla fine è un modo di fare superficiale. Poi c’è anche la fortuna, il famoso fattore C. che è fondamentale.”

W. Sono passati 10 anni da “resistenza Naturale” il film di Nossiter, credi che sia servito? E a cosa?

G.M. “Credo sia servito di più Mondovino, che fu più un film di rottura, denunciava i limiti evidenti di un certo modo di fare vino. Eravamo all’inizio del movimento dei vini naturali e servi molto tra noi. Resistenza Naturale, anche se in Italia è stato visto di più ha fatto un servizio di divulgazione, ma il suo limite è che si posto in qualche modo in una posizione troppo dualista, troppa differenza tra bene e male. Quando Stefano Bellotti fa vedere le due zolle di terra, dicendo che una è buona e l’altra no è un messaggio deciso ma alla fine non so quanto serva.”

W. “Molti anni fa lessi un racconto di fantascienza ambientato in un pianeta estremamente ostile alla vita umana. L’unica base umana era circondata da ogni tipo di pericolo mortale: piante, animali, l’aria che si respirava, tutto. Poi un gruppo di umani riesce ad andare in missione fuori dalla base e si accorge che mano a mano si allontanava dalla base il pianeta non mostrava più l’aggressività di animali e piante ma anzi era molto ospitale. Secondo te noi esseri umani oggi, siamo quelli dentro la base attaccati da ogni parte, siamo il pianeta che si difende da attacchi esterni o cosa?”

G.M. “Abbiamo la presunzione di determinare tante cose poi invece chissà qual è il disegno. poi però penso che come risposta non è sufficiente anche se il disegno va quasi certamente verso una sorta di distruzione e noi dobbiamo uscire dall’idea che noi siamo i protagonisti di questo mondo. Forse partecipiamo all’esistenza dell’universo per un piccolissimo spazio.”

W. “Marie Curie disse che nella vita non c’è niente da temere, solo da capire. Tu credi di aver capito i processi naturali all’interno del tuo microcosmo o hai ancora molto da capire. Inoltre c’è qualcosa che ti fa veramente paura?”

G.M. “Ho paura che questi processi siano molto veloci e che in tempi brevi si farà molta fatica a fare il nostro lavoro. Nel mio caso sono maggiormente esposta perché ho un’azienda piccola con i vigneti tutti assieme, ad alta densità, con quella che un tempo definivamo “bellissima esposizione” e in una zona poco piovosa.”

W. “In borsa direbbero che non hai diversificato abbastanza.”

G.M. “Esatto. Diciamo che ho diversificato tanto ma in un unico luogo e questo mi rende molto fragile.”

W. “Ma hai mai pensato di mollare qui, nel Chianti Classico e andare a produrre da altre parti?”

G.M. “Tante volte, quasi tutti i giorni. Se potessi avere il teletrasporto porterei questa vigna e questo luogo sicuramente al sud. Mi sono impallinata da tempo del Molise perché sono una nostalgica e quindi voglio cercare dei luoghi dove ancora esistono paesi dove c’è una struttura sociale, dove ci sono agricoltori.”

W. “Dove si ricrea il mondo che c’era al tempo di tuo padre nel borgo di San Felice.”

G.M. “Esatto. E’ un’idea estremamente emotiva e non credo che alla fine sia così facile. Nel sud sono attratta anche dalla Sicilia.”

W. “Attratta dall’Etna?”

G.M. “Dall’etna no perché c’è già andata un sacco di gente: è ovvio che gli alberelli etnei mi appassionino, però sono attratta dalla parte più a sud dell’Isola. Poi per me l’Etna è un luogo da visitare, da frequentare per prendere un po’ di energia vulcanica ma non ci starei. Ogni tanto ho pensato a Pantelleria, ma forse è più un’idea di fuga perché poi i luoghi per fare questo lavoro li devi proprio vivere. Ogni tanto mi viene anche la passione e la voglia di misurami con un vino bianco, perché è proprio un’altra cosa.”


W. “A questo punto ti mancherebbe solo la bollicina.”

G.M. “Di quella non me ne importerebbe niente, non mi è mai venuta voglia di farla.”

W. “Ma ormai la bollicina rosé da sangiovese in Chianti Classico la fanno in tanti.”

G.M. “Se devo arrivare a quel punto mi trasferisco veramente in Molise o magari potrei fare altre forme di agricoltura. Noi viticoltori siamo molto concentrati sulla vigna, siamo monotematici e quando vedo dei bei campi di grano mi viene voglia di uscire da quella che potrei definire ossessione di coltivare una sola specie.”

W. “Un altro , non ricordo chi, disse che la vita è come uno specchio, ti sorride se stai sorridendo. Quando ci entro la tua vigna di sorride?”

G.M. “Mmmmmm non sempre e devo dire che anch’io le sorrido poco.”

W. “Vi guardate un po’ in cagnesco…”

G.M. “Ma mai in opposizione, diciamo come compagne di viaggio, però preoccupate, tutte e due. Non la vivo assolutamente come una nemica. Siamo compartecipi di una serie di problematiche da affrontare. Poi dopo ogni vendemmia la guardo con grandissima gratitudine comunque sia andata.”

W. “Cosa pensi dei vitigni PIWI?”

G.M. “Ne penso malissimo, perché credo sia una grandissima scorciatoia. Non sono contraria agli incroci perché gli uomini li hanno sempre fatti per risolvere problematiche di selezione. Non sono oscurantista ma sono contraria perché credo porti verso un mondo di specializzazione, mentre noi bisogna abbracciare la complessità e la diversità. Certo, fai meno trattamenti contro la peronospora però poi ci possono essere altre malattie che te non conosci e che possono arrivare successivamente: inoltre li vogliono inserire anche in zone che non hanno grandi problemi con la peronospora. Forse sarebbe meglio studiare e fare degli atti agricoli che ci proteggano di più da queste malattie. Credo anche che ci sia un modo di arrivare ai PIWI lungo e corretto, come in Germania dove ci hanno studiato molto, ma in Italia penso sia solo una scorciatoia.”

W. “Parliamo di un tema che tocca di lato il mondo dei vini naturali, Il vetro leggero. Quanto pesano le bottiglie che usi? Come vedi questa lotta contro lo spreco e l’inquinamento inutile e cosa pensi dei produttori naturali che usano bottiglie di 700-800 grammi?”

G.M. “Ci sono contraddizioni strane. Bisogna capire il senso del vetro pesante: se mi serve perché devo invecchiare un vino e quindi mi va a salvaguardare dalla luce etc può anche andare, ma spesso viene scelto il vetro pesante per motivi commerciali, che rappresentano in maniera statica e vecchia la qualità di un vino. Bisogna anche dire che spesso nelle bottiglie molto leggere la qualità del vetro è scarsa.”

W. “Da diverse parti, anche direttamente da produttori chiantigiani, si afferma che il Chianti Classico si sta spopolando: chi ci vive e ci lavora vuole andarsene e viene sostituito da turisti mordi e fuggi.”

G.M. “La vedo come una cosa preannunciata e fa tristezza vedere paesi diventati luoghi che ospitano un turismo nemmeno così ricco, e non parlo solo dal punto di vista economico. Un turismo che si accontenta di piatti e cibi non certo di livello, che non entra in relazione con la produzione locale. Come detto mi fa molta tristezza. Sono molto sensibile a questo tema perché il borgo di San Felice è stato uno dei primi ad essere stato svuotato per trasformarlo in un relais chateau. In passato è stata una delle mie grandi battaglie e volevo coinvolgere tutti gli operai di san Felice che ci vivevano.”

W. “Che anni erano?”

G.M. “Poco prima che morisse mio padre, quindi fine anni ottanta e io addirittura volevo fare l’occupazione del borgo. Babbo allora mi disse di non rompere le scatole, che occupando un borgo non si cambiano le sorti del mondo. In quegli anni si pensava che il turismo avrebbe risolto un’infinità di problemi, dando lavoro e prospettive future, ma poi questa cosa non si è avverata e ha provocato anche uno svuotamento dei luoghi. Pensa che oggi un problema veramente serio delle aziende agricole è quello di trovare manodopera e se alle persone non crei una situazione possibile e vivibile la manodopera non la trovi.”

W. “Allora devi ricorrere alle squadre esterne”

G.M. “Le squadre hanno un loro senso, io non sono contraria. Ma anche quelli che lavorano in questi gruppi poi vanno ad abitare nel Valdarno o comunque fuori dal Chianti Classico, dove possono pagare affitti umani e spendere meno per tutto. Occorrerebbe ripensare profondamente a tante cose perché quando si parla di rispetto per un territorio c’è anche questo aspetto da mettere in prima fila.

Invecchiato IGP: Guicciardini Strozzi - Vin Santo 1968


di Roberto Giuliani

Il nostro è un mondo strano, certamente in declino, del resto tutti ne siamo corresponsabili, ogni nostra azione, ogni nostra “scelta” o rinuncia, a volte per puro disinteresse o per semplice pigrizia, produce un’inevitabile e non sempre prevedibile conseguenza. Nessuno ci ha imposto di fare acquisti nei centri commerciali, dove girano sempre gli stessi marchi internazionali, che spesso delocalizzano la produzione per guadagnare di più mantenendo gli stessi prezzi di vendita e proponendoci gli stessi prodotti in qualunque città abitiamo, con la conseguente, disastrosa, morte dell’artigianato di cui, a buon diritto, avremmo dovuto andare fieri e contribuire a mantenere vivo e laborioso.
No, la scusa della poca disponibilità economica non regge, perché basta scendere nei sotterranei parcheggi per notare SUV costosi, coupé dai 50mila in su, che non sono certo dimostrazione di grandi difficoltà economiche. Inoltre i capi e gli oggetti acquistati non hanno neanche lontanamente la qualità e la durata di un buon prodotto d’artigianato, con conseguente spesa più frequente e, quindi, risparmi solo immaginari.


Poi ci sono le mode, anche queste non dettate da noi, ma sicuramente subite senza batter ciglio, così ti rendi conto che anche nel mondo del vino il processo è lo stesso: per quanto ci siano i resistenti (no, non parlo dei piwi ma di persone), la maggioranza segue l’andamento del mercato. Lo abbiamo visto con le barrique e i vitigni internazionali prima, con le anfore e gli “orange” poi, con i vini potenti, grassi, ricchi, concentrati prima e con i vini meno alcolici, più serbevoli oggi. Abbiamo visto tipologie vivere tempi di gloria, altre scomparire. Una di queste è indubbiamente il Vin Santo, che in Toscana è da tempi antichi prodotto in moltissime zone, ma oggi fatica a trovare estimatori, appassionati, ristoratori disposti a metterlo in carta
.

Eppure, quando è fatto con la cura che gli è dovuta, è in grado di competere con i più famosi vini dolci al mondo. Come nel caso di questo straordinario 1968, proveniente dalle cantine della millenaria famiglia Guicciardini Strozzi in quel di San Gimignano. Un Vin Santo che ti mette in crisi seria, che ti fa prendere coscienza di quanto possa essere folle lasciar morire questa tipologia di vino; perché non è fatto per essere bevuto distrattamente, in fretta pensando già al conto, ma in realtà chiede orgogliosamente e a buon diritto attenzione, parla ai sensi più reconditi, va ben oltre il naso e il palato, ti tornisce e ti rapisce, creando un’atmosfera del tutto particolare, fra te e lui, nessun altro.

Irina Guicciardini Strozzi 

A 56 anni dalla vendemmia ti spiazza subito con un’acidità ancora vibrante e una dolcezza davvero ben mascherata, perché se da una parte puoi cogliere il fico in confettura (non secco), dall’altra c’è un’arancia candita che porta il contributo citrino, passando per la noce, il miele di castagno e mille altre sfumature fino al tabacco da pipa e al cioccolato, sempre in movimento e trasformazione. Un sorso che ti accoglie ma con mano ferma ti mostra tutte le sue sfumature, rendendo quel momento semplicemente unico e indimenticabile.


Non seguite la corrente, andate a caccia di questi vini, di cui lo Stivale è ancora ricco, e godeteveli nel modo che preferite, ma sempre con la consapevolezza che dietro c’è un lavoro meticoloso, fatto di produzioni minime e lunghe attese in caratelli che forniranno l’impalcatura per uno dei tanti, magnifici, prodotti artigianali di cui dobbiamo andare fieri.

Cantine di Marzo - Fiano di Avellino 2020


di Roberto Giuliani

Da questa cantina fondata da Scipione Di Marzo nel 1647, un Fiano proveniente da Lapio dall’impatto deciso e profondo di erbe aromatiche come mentuccia e timo, slanci agrumati di mapo, poi pesca e susina; palato salino, quasi salato, intenso.


Beva davvero trascinante, lunghissimo.

Casa Lucii - Verticale Vernaccia di San Gimignano Riserva Mareterra 2019-2013


di Roberto Giuliani

Reduce da quattro giorni passati a San Gimignano, in occasione di Regina Ribelle, la nuova versione dell’Anteprima della Vernaccia che si svolgeva nel mese di febbraio e, finalmente è stata spostata alla seconda metà di maggio, permettendo alla stampa di degustare dei vini con qualche mese di bottiglia, decisamente più leggibili e apprezzabili, ho avuto modo di fare visita all’azienda Casa Lucii.


Prima di raccontarvi della verticale, ci tengo a dire che Regina Ribelle è in un certo senso un evento rivisitato, poiché non si svolge più in una sola giornata, ma ha ampliato il proprio raggio d’azione permettendoci di fare visite programmate ad alcune delle aziende partecipanti (quest’anno 37). Degustare un vino senza conoscere chi lo fa e il territorio dove nasce, secondo me è come comporre un puzzle privo di alcuni pezzi fondamentali, a meno che non si pensi che l’assaggio di un vino sia esclusivamente un fatto tecnico, in un certo senso asettico. Beh, la cosa stona e molto, perché non si può negare che il vino sia anche cultura, storia, tradizioni, non a caso il termine “terroir” unisce l’uomo, il vigneto, il clima e la zona geografica che contribuiscono a dare una precisa identità al vino.


Conoscendo il territorio, i suoli, le altitudini, i portinnesti, l’età delle viti, dialogando con il produttore, vengono alla luce una serie di aspetti che spiegano certe caratteristiche che troviamo nel vino, la sua diversità da altri, portandoci a valutarlo con più consapevolezza, a capire le ragioni di certe percezioni che altrimenti potremmo considerare a priori negative, solo perché non corrispondono alle nostre aspettative. Insomma, conoscevo la Vernaccia di San Gimignano Riserva di Lorenzo Lucii, ma solo nella sua veste giovane, anche se c’è da dire che da tempo lui ha scelto di proporre il vino dopo quasi quattro anni dalla vendemmia.

Famiglia Lucii

Fatto sta che alla cena di gala del 17 maggio nel bellissimo Chiostro di S. Agostino, me lo trovo seduto a fianco, così si chiacchiera un po’, gli dico che la 2019 mi è piaciuta molto, anche se il legno deve ancora assorbirsi e la strada che intraprenderà sembra ancora incerta.
Lorenzo, senza se e senza ma, mi propone di passare da lui la mattina dopo per fare una bella verticale, così mi rendo meglio conto delle potenzialità e caratteristiche di questo vino.


Non me lo sono fatto ripetere due volte, alla 9.30 del 18 mi sono presentato, prima ho fatto un giro dell’azienda, ho visto la vinsantaia, la cantina, le vigne intorno. Poi sono stato lasciato in religioso silenzio a degustare, prima la 2023 e 2022 della Vernaccia annata, poi sei annate della Riserva Mareterra, dalla 2019 alla 2013.

Ed ecco cosa è emerso:

2019 - un inciso: tutte le annate che ho degustato hanno un filo conduttore, già dal colore, che ha una tonalità verdolina sempre presente, molto particolare. Degustata in batteria, la ritrovo altrettanto convincente, caratterizzata da note di frutta esotica, zenzero, miele di acacia, venature speziate, ma anche richiami floreali. Il legno c’è ma non disturba perché non nasconde il carattere della vernaccia (le cui uve provengono da un vigneto in località Cellole). Al palato ha già un discreto equilibrio, l’acidità si sta integrando, così come il legno, emerge anche una piacevole espressione agrumata.

2018 – ecco che già con questo millesimo l’equilibrio è stato raggiunto, tra agrumi e gelso bianco, fieno, una bella finezza espressiva. Al gusto mostra profondità e ampiezza, acidità ben integrata, sembra avere trovato la misura in ogni sua componente, mostrando un corredo di notevole fascino.

2016 – mi è piaciuta molto anche questa versione, dove il frutto non è poi così diretto verso il tropicale, ma sembra più mantenersi legato alle caratteristiche del vitigno, dove l’agrume – qui maturo – ha sempre un ruolo importante. Bocca piena, avvolgente, senza spigoli, progressiva e di notevole persistenza, con un finale decisamente sapido.

2015 – inizialmente mi è parso avere un carattere più diritto, quasi austero, ma questo non è affatto un limite, solo un tratto della sua personalità; al palato ha ancora verve ed energia, elegante, a tratti affiora una nota di mango, la traccia sapida sembra un timbro per questa riserva.


2014 – al contrario di quanto è accaduto con i vini rossi, l’annata piovosa non sembra avere creato particolari problemi a questa Riserva che ha un incedere garbato e a tratti commovente, dalla sua una bevibilità davvero invidiabile che lo rende un vino davvero godibile.

2013 – decisamente diverso da tutti gli altri, Lorenzo mi riferisce che probabilmente quell’anno le uve non le ha prese da Cellole, fatto sta che ha dei profumi importanti, che per la neutra vernaccia sono un bel biglietto d’ingresso. Molto floreale, boschivo, a tratti si coglie la resina. L’assaggio esprime una notevole armonia, ma questo non sottrae nulla alla spinta fresca che riesce a mantenere anche a 11 anni dalla vendemmia. Forse il finale è appena più corto, ma nel complesso davvero un’ottima Riserva.

InvecchiatIGP – Abbazia di Novacella, Alto Adige Valle Isarco DOC Sylvaner Praepositus 2011


Abbazia di Novacella sorge in una frazione di Varna, a poca distanza da Bressanone, in Alto Adige, ed è annoverata tra le più antiche cantine attive al mondo visto che fin dalla sua fondazione, risalente al 1142, il monastero agostiniano, grazie alle generose alle iniziali donazioni del burgravio Reginbert di Säben e di sua moglie Cristina, ha potuto contare su di un cospicuo patrimonio di vigneti nel mezzo dei quali è tuttora immersa.


Oggi Abbazia di Novacella gestisce due aziende agricole: la prima si trova a Novacella e dispone di 6 ettari di vigneti, 12 ettari di frutteti e 0,2 ettari di erbari; la seconda, Tenuta Marklhof, sempre di proprietà del convento, si trova invece a Cornaiano e può contare su 22 ettari a vigneto, 13 ettari a frutteto e 24 ettari a bosco. All'Abbazia fanno inoltre capo 700 ettari di bosco e 400 ettari di pascoli d'altura destinati in parte a riserva di caccia.
La conca di Bressanone, dove si trovano i vigneti posizionati più a nord d’Italia, caratterizzati da grande escursione termica, rappresenta da sempre per l’azienda il terroir d’elezione per la coltivazione di vitigni a bacca bianca come Sylvaner, Müller-Thurgau, Kerner, Grüner Veltliner, Pinot Grigio, Riesling, Gewürztraminer e Sauvignon Blanc.


Per l’odierno InvecchiatIGP vorrei proprio parlarvi di un Sylvaner in purezza figlio di quello storico areale di produzione e appartenente alla linea Praepositus che, come filosofia produttiva, rappresenta le doti di eccellenza e longevità dei vini di Abbazia di Novacella, grazie alla valorizzazione dei migliori cru a disposizione e delle uve che qui riescono ad esprimersi totalmente nella loro complessità aromatica.


Diciamolo subito, così come tanti vitigni a bacca bianca piantati in Italia, anche il Sylvaner non gode di una grande nomea in termini di capacità evolutive per cui trovare una 2011 in stato di grazia non può che non farmi piacere avvalorando la tesi che, probabilmente, nel nostro Paese ci vorrebbe uno sforzo comunicativo importante per far capire che spesso e volentieri beviamo vini bianchi troppo giovani a cui non si fornisce il giusto tempo uscire fuori in tutta la loro bellezza.


La “prova provata” di quanto appena scritto si concretizza senza dubbio in questo “vecchio” Sylvaner che, dopo 13 anni di riposo in bottiglia, come una bellissima farfalla, spiega le sue ali donando ricchezza aromatica che svela ricordi di giglio, spezie orientali, frutta esotica e ritorni minerali. In bocca ha ancora tantissima polpa e trama perfettamente bilanciata espressa in pingue morbidezza sostenuta da sferzante acidità. Completa il quadro gustativo un finale su toni floreali.

Cantine Brugnano - Zibibbo Terre Siciliane IGT 2023


I fratelli Francesco e Giuseppe Brugnano, giovani vignaioli di Partinico (PA), producono vini dalla forte identità territoriale come questo zibibbo secco, floreale e dal sapore iodato, che da ora in poi sarà la mia risposta, in salsa sicula, al più noto abbinamento tra frutti di mare e Muscadet francese.

Almatò, il ristorante romano dove vige la regola del tre


Almatò, nato a gennaio 2020 quando la pandemia era appena alle porte, è un progetto ristorativo che, nonostante le difficoltà degli ultimi anni, oggi sta diventando sempre più punto di riferimento nel panorama ristorativo della Capitale grazie ad un giusto connubio tra sperimentazione culinaria, rispetto della tradizione e buona dose di entusiasmo, misto ad incoscienza, visto che il locale è gestito da tre amici poco più che trentenni.

Alberto, Tommaso e Manfredi

La sala

Situato nel tranquillo quartiere Delle Vittorie, a metà strada tra il centro storico e la movida di Roma Nord, Almatò devo il suo nome dall’unione dei nomi di Alberto Martelli (socio ristoratore), Manfredi Custoreri (restaurant manager) e Tommaso Venuti che, conosciutesi sui campi di rugby, hanno deciso di dar sfogo alla loro passione per la buona cucina dato vita a un locale che sin dagli inizi ha saputo distinguersi per l’originalità della proposta culinaria, in uno spazio curato nel dettaglio per risultare elegante e accogliente.


La nostra cucina è cambiata molto nel tempo: puntiamo ora su piatti con la giusta dose di eclettismo, dal gusto intenso e al tempo stesso raffinato, ma senza dimenticare chi siamo, portandoci quindi dietro il valore della tradizione” sottolinea Tommasi Venuti, classe 1992, con un passato tra le cucine di Villa Crespi e con Heinz Beck a La Pergola Rome Cavalieri.


Da Almatò sembra vigere la “Regola del 3” perché oltre i tre volti e le tre anime dei soci fondatori sono tre anche i percorsi di degustazione, rispettivamente da 5, 7 e 9 portare a 75, 100 e 120 euro, e tre opzioni per ogni tipologia di portata che il cliente può scegliere nel menù alla carta. Il motivo? Semplice, rendere snello e dinamico il lavoro in cucina fornendo allo chef tutto il tempo creare i suoi piatti partendo da poche materie prime stagionali di qualità altissima.


La sala, elegante ed essenziale nei suoi caldi colori, è il regno di Riccardo Robbio, maître e sommelier, campano classe 1989, giunto a questa nuova sfida professionale dopo gli importanti trascorsi da Kai Mayfair a Londra, Imàgo all’Hassler, La Pergola e Pipero a Roma. A lui spetta curare i circa 20 coperti del locale proponendo interessanti abbinamenti grazie ad una carta dei vini che, come il menù, è abbastanza snella contando al massimo un centinaio di etichette che fanno riferimento essenzialmente a grandi cantine sia italiane che internazionali come, ad esempio, Bollinger, Mastroberardino e Tasca d’Almerita.

Uno degli Appetizer

Durante la mia ultima visita al locale ho optato per il percorso di degustazione da cinque portate con abbinamento vini incluso, che è iniziato con tanti deliziosi piccoli appetizer tra cui spiccano un ottimo calvofiore in tre consistenze (arrosto al burro nocciola, in crema alla base, in carpaccio, avvolto in salsa tartara e kefir) e il classico uova di quaglia alla monachina con crema di tuorlo d'uovo, da sempre presente nel menù di Almatò.

Uova di quaglia alla monachina

La tradizione romana e la cucina del recupero, temi cari allo chef, sono esaltati dalla proposta culinaria successiva costituita da un golosissimo maritozzo alla picchiapò di agnello accompagnato da maionese al wasabi e sedano croccante. Da mangiare rigorosamente con le mani! 

Maritozzo alla picchiapò

L’abbinamento perfetto, grazie a Riccardo, mi porta in Franciacorta con un ottimo 61 Rosé di Berlucchi.


Arriva il primo piatto e si inizia ad usare la forchetta con la tagliatella, coniglio, beurre blanc all’arancia e olive, un piatto delicato e bilanciato il cui ragù rimasto nel piatto è vittima, successivamente, di una irrinunciabile scarpetta fatta con la buonissima focaccia calda preparata da Tommaso poco prima il nostro arrivo. 

Tagliatella, coniglio, beurre blanc all’arancia e olive

Il piatto è stato abbinato ad un calice di Ferentano (100% roscetto) prodotto dalla famiglia Cotarella.


Il secondo piatto ci porta invece nella zona di Campagnano di Roma da dove proviene il succulento manzo 30 mesi alla brace con fave, piselli e carciofi, omaggio alla primavera e alla vignarola romana, il tutto accompagnato da una kombucha prodotta con i baccelli dei piselli e le foglie esterne del carciofo. Piatto interessantissimo che sintetizza un po’ la filosofia culinaria di Almatò fondendo in un'unica proposta ricerca, tradizione, leggerezza e attenzione alla cucina del recupero. Chapeau!

Manzo 30 mesi

L’abbinamento al calice proposto dal sommelier è stato un Etna Rosso DOC “Ghiaia Nera” (100% nerello mascalese) di Tasca d’Almerita. Matrimonio perfetto.


Dopo la mousse di melanzane al cioccolato, predessert che strizza l’occhio al sud Italia, arriva Gianni, il dessert che è anche uno dei manifesti gastronomici di Almatò. Presente in menù sin dall’apertura del ristorante, è un omaggio a Manfredi, Gianni per gli amici, e alle sue passioni ovvero al sigaro, che in questo caso è di cioccolato aromatizzato al tabacco, e al gelato che Tommaso interpreta al gusto variegato di nocciola e cacao con fondo di biscotto alla nocciola.

Gianni

Chiusura golosa e per nulla stucchevole, degno finale di una cena che mi ha lasciato grandi speranze per questi tre ragazzi che portano finalmente un po’ di aria fresca all’interno del panorama ristorativo della Capitale. Bravi!

Almatò
Via Augusto Riboty 20/c – Roma
Tel: 06/69401146
www.almato.it

InvecchiatIGP: Monte Tondo - Soave Classico Doc “Casette Foscarin” 2005


di Lorenzo Colombo

Per la rubrica del sabato, InvecchiatIGP, andiamo solitamente a cercare quelle bottiglie che nel corso degli anni si sono accumulate nella nostra cantina e delle quali a volte non ricordiamo più neppure l’esistenza. E’ il caso di questo Soave, acquistato, molto probabilmente, durante una nostra visita presso la cantina Monte Tondo, della famiglia Magnabosco


Si tratta di un vino che attualmente rientra in una delle 33 UGA riconosciute al territorio del Soave, ma che allora non lo era.

Iniziamo quindi dalla nascita delle UGA

Lo studio di zonazione del Soave, iniziato nel 1995, aveva portato all’individuazione di 14 sottozone individuate in base alle loro caratteristiche orografiche, climatiche e pedologiche. 

UGA Soave

Da questo studio si era poi arrivati dapprima all’individuazione di 45 macrozone (39 delle quali all’interno del territorio del Soave Classico) ed infine, nel 2019, si è giunti a poter ufficialmente registrare 33 UGA (Unità Geografiche Aggiuntive), 28 delle quali nella zona classica.

L’azienda

Il fabbricato dell’Azienda Monte Tondo non passa certamente inosservato, situato com’è a poche centinaia di metri dall’uscita autostradale Soave-San Bonifacio, si trova nel comune di Soave, nella parte più meridionale del territorio della Doc Soave Classico dove si trovano anche i vigneti per la produzione del loro Soave Doc Monte Tondo.

Credit: maderural.com

La famiglia Magnabosco dispone però anche di vigne in altre zone, ovvero sul Monte Foscarino dove in due distinti vigneti si producono il Soave Classico Doc Casette Foscarin, oggetto della nostra degustazione e il Soave Classico Superiore Docg Foscarin Slavinus. Sempre nel territorio del Soave e precisamente sul Monte Tenda si produce un altro Soave, e precisamente un Recioto di Soave, ci sono poi altri vigneti sul Monte Gazzo, dove oltre alle uve per la produzione del Soave troviamo anche Cabernet sauvignon. Infine altri vigneti si trovano in Valpolicella, a Cazzano di Tramigna, dai quali si ricavano Valpolicella, Amarone e Ripasso. 
In totale sono una quarantina gli ettari vitati per una produzione annuale di circa 300.000 bottiglie.

Il vino

I vigneti per la produzione di questo vino (90% Garganega e 10% Trebbiano di Soave) si trovano in Località Casette, sul Monte Foscarino, qui i suoli, di natura vulcanica, sono caratterizzati dalla presenza di basalto e vanno a conferire ai vini i tipici sentori minerali e sulfurei. 


La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio, il vino viene quindi posto parte in barriques e parte in tonneaux usati dove sosta per sei-otto mesi, viene quindi assemblato e rimane in affinamento per altri quattro-cinque mesi in acciaio, segue un’ulteriore sosta di almeno sei mesi prima d’essere messo in commercio. All’interno del Cru Foscarino, uno tra i più ampli tra i 33 Crus del Soave, l’azienda Monte Tondo produce due vini, il Casette Foscarin, oggetto del nostro assaggio, e il Foscarin Slavinus.

La degustazione

Diciamo che l’approccio con questo vino non è iniziato nel modo giusto, l’apertura della bottiglia non è stata infatti delle più facili, il tappo si è dapprima spezzato in due e la parte rimanente all’interno del collo della bottiglia si è letteralmente sbriciolata, a nulla è valso neppure l’utilizzo del cavatappi a lamelle, abbiamo così dovuto filtrare il vino con un colino per eliminare ogni residuo di sughero e versarlo in un decanter. Svolte queste operazioni preliminari passiamo alla degustazione vera e propria, iniziando come prassi stabilisce, dall’analisi visiva.


Il vino si presenta con un color giallo-oro luminoso, c’era da aspettarselo visto che sono passati (quasi) vent’anni dalla vendemmia. Lo troviamo intenso al naso dove le note boisé ed i ricordi di legno, seppur affievoliti dal tempo, sono ancora presenti, lo troviamo complesso, son sentori che vanno dallo zucchero vanigliato all’albicocca, dalla camomilla all’Erba Iva (Achillea Moschata), vi troviamo inoltre ananas maturo, pesca gialla, fiori secchi, accenni sulfurei e note minerali ed un impercettibile sentore d’idrocarburi.


In bocca notiamo il suo buon corpo, la vena acida ancora ben presente, la sua nota sapida, confettura di pesca gialla, albicocca, mela cotogna, ananas e, nuovamente, leggeri ricordi di legno, lunghissima infine la sua persistenza. In pratica la classica bottiglia sulla quale non avevi grandi aspettative ma che alla luce dei fatti ti stupisce.

Valenti - Etna Rosato Doc 2022 “Poesia”

di Lorenzo Colombo

Le uve per la produzione del Poesia provengono dalla vigna Corvo, situata sul versante Nord dell’Etna, il suo colore ramato scarico si ottiene tramite un contatto con le bucce di otto ore.


Intenso al naso, con note d’agrumi e d’erbe aromatiche essiccate, fresco, asciutto e leggermente tannico alla bocca.

La Verticale (in Magnum) di Guidalberto è pura goduria!


di Lorenzo Colombo

L’IGT Toscana Guidalberto viene spesso considerato il secondo vino della Tenuta San Guido – e probabilmente all’inizio lo era anche-, ovvero il vino che viene dopo il Sassicaia, ma in realtà così non è anche se il suo prezzo è assai minore, si tratta unicamente di un vino diverso, nella cui composizione ad accompagnare il Cabernet sauvignon troviamo infatti il Merlot, anziché il Cabernet franc, come avviene nel Sassicaia. Come ben specificato sul sito aziendale, il Guidalberto, che prende il nome da Guidalberto della Gherardesca pioniere della conversione agricola del territorio nei primi decenni dell’Ottocento “Non vuole calcare le orme del Sassicaia ma proporsi, piuttosto, come un vino che racconti un’altra vocazione del territorio di Tenuta San Guido”.


La sua genesi è assai più recente rispetto a quella del vino simbolo della Tenuta San Guido, nasce infatti nel 2000 e d’allora è stato prodotto in tutte le annate, i vigneti si trovano su un suolo calcareo, ricco d’Alberese e Gabbro, parzialmente argillosi e ricchi di pietre, l’altitudine varia tra i 100 ed i 300 metri slm, l’esposizione è Ovest, Sud-Ovest ed il sistema d’allevamento è a cordone speronato con densità di 6.200 ceppi/ettaro. La composizione di questo vino, ed in minima parte la sua lavorazione, sono cambiate nel corso degli anni, infatti all’inizio, oltre a Cabernet sauvignon e Merlot entrava nella sua composizione anche un 20% di Sangiovese, vitigno utilizzato sino al 2004, dopo di che la sua ricetta è rimasta stabile (60% Cabernet sauvignon e 40% Merlot) sino al 2020, mentre dal 2021 in poi i due succitati vitigni sono stati utilizzati in parti uguali.


Nell’ambito della tappa milanese dell’evento “La grande bellezza”, tenutosi lunedì 20 aprile presso Ai Chiostri di San Barnaba, abbiamo potuto partecipare ad una degustazione verticale che prevedeva l’assaggio di cinque annate (in Magnum) di Guidalberto, dalla 2021 sino alla prima prodotta, ovvero la 2000, la degustazione è stata condotta con garbo da Raffaele Vecchioni, che ha dapprima ricostruito la genesi di questo vino.

Ecco le nostre considerazioni sui vini degustati

2021 - Frutto di un’annata di grande qualità con la vendemmia dell’uva Merlot iniziata già a fine agosto e quella del Cabernet sauvignon nella seconda settimana di settembre. La fermentazione si è svolta in acciaio per entrambe le uve –separatamente- con una macerazione di un paio di settimane con rimontaggi e délastage mentre l’affinamento è stato effettuato in barriques di rovere francese (una piccola parte in rovere americano) per il 40% nuove, il tutto per 15 mesi.


Color rubino, luminoso e trasparente, di discreta intensità. Bel naso, intenso, fresco e pulito, molto elegante, fruttato, frutto rosso dolce, floreale, spezie dolci e legno dolce, note vanigliate. Dotato di buona struttura, fresco, con trama tannica in perfetto equilibrio, sapido, verticale, con buona vena acida, presenta accenni piccanti di pepe, lunga la sua persistenza. Un vino giovanissimo, ma che promette assai bene. 

2019 - Annata dall’andamento climatico estremamente variabile che ha comportato una grande attenzione e cure in vigna dal germogliamento -anticipato- sino alla vendemmia, iniziata ai primi di settembre con il Merlot delle altitudini più basse per concludersi ad inizio ottobre con gli ultimi Cabernet sauvignon. Fermentazione in vasche d’acciaio con macerazione di un paio di settimane per il Merlot e leggermente più prolungate per il Cabernet sauvignon, affinamento per 15 mesi in barriques di rovere francese (20% in rovere americano).


Color rubino di discreta intensità, leggeri accenni granati sull’unghia. Buona la sua intensità, balsamico, frutto dolce e più maturo del precedente vino, ciliegia, leggeri accenni vegetali. Intenso e strutturato, piccante pepato, tannino deciso e leggermente asciugante, verticale, il frutto appare meno maturo rispetto a quanto percepito al naso, lunga la sua persistenza.

2017 - Annata calda e siccitosa che ha notevolmente influito sulle caratteristiche del vino, la vendemmia del Merlot è iniziata a fine agosto proseguendo quindi nel mese di settembre per il Cabernet sauvignon. Vinificazione in vasche d’acciaio con macerazione di un paio di settimane per il Merlot e leggermente più breve per il Cabernet sauvignon, con frequenti rimontaggi e délastage, affinamento per 15 mesi in barriques di rovere francese e per un 5%-7% in rovere americano.


Color rubino, piuttosto intenso e compatto. Buona la sua intensità olfattiva come pure l’eleganza, frutto rosso maturo, accenni di prugne, leggere venature vegetali.
Strutturato, si svuota un poco nel centro bocca, buona vena acida, tannino leggermente asciugante, ci ricorda la pellicina di castagne crude, meno equilibrato rispetto ai precedenti vini. Alla bocca non ha rispettato le aspettative che ci aveva fornito al naso. 

2012 - Annata particolare, con un’estate molto calda ma con notevoli escursioni di temperatura tra giorno e notte, vendemmia leggermente anticipata con uve che presentavano acini di piccole dimensioni con una perdita di poco inferiore al 10% della produzione. 60% Cabernet sauvignon, 40% Merlot, fermentazione in vasche d’acciaio con macerazione di circa due settimane, affinamento in barriques francesi (un 5%-7% s’affina in barriques americane) per 15 mesi.


Rubino di discreta intensità con unghia tendente al granato. Buona la sua intensità olfattiva, elegante ed armonico, note balsamiche e di frutto rosso dolce e maturo, ciliegia matura, accenni di prugne essiccate. Fresco e verticale, armonico, elegante, con tannino in perfetto equilibrio, buona vena acida, bel frutto, accenni di liquirizia, lunga la sua persistenza.
un vino elegante e dal grande equilibrio, di notevole qualità, il migliore della batteria. 92/100

2000 - Prima annata di produzione, il blend era composto da 40% Cabernet sauvignon, 40% Merlot e 20% Sangiovese, quest’ultimo vitigno è stato utilizzato sino all’annata 2004 e poi definitivamente tolto. La vendemmia è iniziata ai primi di settembre per il Merlot ed a metà del mese per il Cabernet sauvignon. Fermentazione in vasche d’acciaio con una macerazione di una decina di giorni, affinamento in barriques francesi, per 1/3 nuove (un 5%-7% s’affina in barriques americane) per 15 mesi.


L’età del vino si coglie già dalle sue tonalità, granato di buona profondità con unghia tendente all’aranciato. Buona la sua intensità olfattiva, balsamico, note terziarie di sottobosco, humus, tabacco, radici, fiori secchi, legno ancora percepibile. Strutturato, con tannino un poco asciugante e che tende leggermente all’amarognolo, note di radici, lunga la sua persistenza su sentori di bastoncino di liquirizia. Un vino diverso dai precedenti, con un naso interessante, anche se ovviamente evoluto, ma che alla bocca si perde un poco, pare non compiuto ed un poco slegato., d’altra parte la sua vita l’ha fatta. 


Presso i banchi d’assaggio siamo riuscito anche ad assaggiare l’ultima annata, la 2022, da poco imbottigliata. Il suo colore è rubino purpureo, luminoso. Buona la sua intensità olfattiva, fresco, con un bel frutto, ciliegia, presenta note balsamiche e leggeri accenni di fumo.
Pulito e fresco, con bella vena acida e tannini setosi, spezie dolci, bell’equilibrio gustativo, buona la sua persistenza. Un vino giovanissimo ma che promette molto bene.

InvecchiatIGP: Valentino Butussi - Sauvignon Blanc Colli Orientali del Friuli "Genesis" 2014


di Stefano Tesi

Non ho mai fatto mistero del mio apprezzamento per i vini di Butussi, dei quali in generale apprezzo non solo la precisione, la finezza e l’eleganza, ma anche la dimensione di compostezza all’interno della quale essi nascono. E che mi pare lo specchio perfetto della stessa filosofia familiare, ossia una giusta miscela di realismo, di coerenza alle proprie dimensioni e di una capacità di visione enoica attenta ma senza fronzoli, frutto di un coraggio e un pragmatismo molto friulani.


Ne è un lampante esempio l’abitudine di rimettere in commercio tutti i cru aziendali otto anni dopo la prima uscita, tanto per capire non solo l’evoluzione del prodotto in sè, ma anche il suo impatto sul consumatore e sui gusti del pubblico. Già anni fa, con risultati lusinghieri, mi ero imbattuto nel loro Genesis, un Friuli Colli Orientali Doc, Sauvignon 100%, biologico dal 2013, proveniente dalla Madonna dell’Aiuto, una piccola vigna (mezzo ettaro e poco più) di fondovalle tra San Biagio e Rosazzo, piantata nel 1990, dove le correnti della montagna si incontrano e – spiega Filippo Butussi, che è anche l’enologo dell’azienda di famiglia – provocando forti escursioni termiche consentono all’uva di maturare molto più lentamente, anche dieci giorni dopo rispetto alle quote più alte, e di dare al vino una forte impronta territoriale.


Assaggiare il Genesis in verticale (2000-2007-2022-2014-2015-2019-2021) è stato però tutto un altro paio di maniche. Tra le varie annate, sebbene con scarti in qualche caso davvero minimi, ci è piaciuta più di tutte le 2014, che abbiamo trovato di grande personalità e di un equilibrio quasi olimpico.


All’occhio in vino si presenta di un color oro carico e brillantissimo. Al naso l’impatto è gentile, con una varietalità che lascia subito il campo a un ventaglio di sentori cangianti e delicati, dei quali alla fine nessuno prevale: toffees, frutti tropicali, accenni agrumati, fiori appassiti si affacciano, scompaiono, poi tornano. Tutte sensazioni che si riaffacciano con grande eleganza a livello retronasale e in bocca, dove emerge una netta nota citrica e l’acidità si fa ben sentire. Ne esce una bevuta gratificante, lunga, profonda, a tratti perfino provocante, che si pone esattamente a metà tra l’esplosività delle annate più recenti e l’affascinante maturità di quelle più vecchie.