Casale del Giglio contro Jonathan Nossiter. Botta e risposta su Dissapore in merito all'articolo apparso su GQ.

Sul Dissapore non si è fatta attendere la risposta di Casale del Giglio, nota azienda vitivinicola del Lazio, che risponde le rime a Jonathan Nossiter in merito alle sue accuse, che potete leggere qui, di essere industriali del vino non ecocompatibili.

LETTERA APERTA A JONATHAN NOSSITER

Caro Jonathan,


sono Antonio Santarelli, titolare della Casale del Giglio (non Casal). Con il mio enologo, Paolo Tiefenthaler, abbiamo letto il tuo assai infelice articolo dal titolo “Attenti al Vino”, apparso sul mensile GQ di Gennaio 2012 a pagina 30.
Rispettiamo il tuo approccio “NO-GLOBAL” (meno la tua competenza tecnica), ma non possiamo restare indifferenti alle pesanti e ingiuste accuse verso la nostra azienda, le altre aziende vinicole citate e verso gli stimati amici ristoratori romani.
Fai bene ad esaltare lo sforzo di quei viticultori che producono vini naturali e che riducono l’uso di prodotti di sintesi, ma questo vale anche per aziende come la nostra, che segue realmente da molti anni un protocollo “ecocompatibile”. Questo protocollo prevede l’assoluto non utilizzo di gran parte degli anticrittogamici in commercio, facendo uso di rame e zolfo secondo il protocollo applicato in Trentino e seguito da uno dei piu’ prestigiosi istituti di ricerca: Istituto agrario di San Michele all’Adige. Le analisi di controllo sulle uve dimostrano gia’ da molti anni l’assoluta assenza di qualsiasi residuo al momento della raccolta, cosi’ da allinearsi ai livelli della certificazione biologica, che potremmo facilmente richiedere e sfruttare a livello commerciale, ma che applichiamo silenziosamente come stile di lavoro. Dunque l’accusa di utilizzare “sostanze chimiche, “tossiche per qualsiasi cosa vivente” e’ veramente da dilettanti alla ricerca di effimera visibilita’.
Il tuo attacco alla Casale del Giglio e’ tuttavia ben congegniato e si ripete piu’ volte nel corso dell’articolo, anche per bocca del commesso di enoteca di primo pelo, tal Francesco Romanozzi (che lavora nell’affermata enoteca Bulzoni di Roma), che confonde l’antipatia personale con valutazioni oggettive, tenuto conto che il livello di apprezzamento dei vini della Casale del Giglio da parte del pubblico, romano e non, non crediamo si possa basare sull’indolenza del consumatore.
Questo giovane presuntuoso ha poi utilizzato termini confusi e generici,di cui non comprende forse neppure il significato e la giusta attribuzione.
Forse, caro Jonathan, hai voluto perfidamente sfruttare la sua incauta vanita’?
Ti facciamo osservare che,disponendo di una congrua estensione di vigneti propri, con annessa cantina vinicola, siamo tecnicamente considerati una azienda agricola vitivinicola e dunque non industriale.
Quando invece si parla di “tradimento”, rispetto a cosa lo si intende? Al fatto di aver ottenuto un’alta qualita’ e non alte rese? Al fatto di aver costruito una buona immagine rispetto alla bassa considerazione che il nostro territorio aveva in passato? Al fatto di essere orgogliosamente diventati una cantina di riferimento sul proprio mercato di appartenenza(Roma e Lazio), riuscendo a contrastare, battendosi ad armi pari, l’invasione dei vini nazionali che la facevano da padroni?
Al fatto di essere riusciti (insieme ad altre cantine laziali) a rappresentare la produzione regionale a livello nazionale con una capillare presenza nelle carte dei vini dei ristoranti d’Italia? Al fatto di aver creato una struttura di accoglienza altamente dignitosa, con uno staff professionale, rispetto alla riottosita’ e all’ignoranza verso l’ospite di certe cantine laziali del passato? Se cosi’ fosse, allora ci dichiariamo sicuramente dei “super traditori”!!!
Quanto all’abuso del termine “commerciale”, anche questo e’ un “non sense”, in quanto assecondare la spontanea richiesta del mercato e’ un fatto assolutamente “naturale” (ti disturba questo termine?).

Se fossi l’amico Alessandro Bulzoni, titolare dell’omonima enoteca, non mi terrei in azienda un imberbe khomeinista come Francesco Romanozzi, che divide le aziende fra “buone” e “cattive”, creando perplessita’ nei suoi clienti…
Quanto al termine “tossico”,poi, ti informiamo ulteriormente che anche la nostra cantina lavora,in parte, uve biologiche. Aggiungiamo inoltre che la nostra azienda e’ da anni coinvolta in attivita’ di ricerca anche tramite convenzioni universitarie e attraverso progetti di studio come “MAGIS” e “TERGEO”.
Abbiamo di recente sottoscritto un accordo di collaborazione con la Provincia di Latina nell’ambito del progetto europeo ”LIFE”, per il risparmio delle risorse idriche in agricoltura.
Nel 2010 l’azienda ha realizzato un impianto fotovoltaico da 200KW, sulla copertura della propria cantina, rendendosi cosi’ quasi totalmente indipendente a livello energetico.Evidentemente non documentarsi e’ ormai diventata la caratteristica di giornalisti sensazionalisti che non meritano di appartenere alla categoria.
Quanto alla strenua difesa degli autoctoni, che condividiamo, va detto che non si puo’ generalizzare in quanto nella storia c’ e’ sempre stata una “prima volta”, quando una nuova varieta’ approdava in un territorio. Quasi tutte le varieta’ viticole provengono dall’Asia Minore, per fare un esempio. In Friuli ci sono molti vitigni di origine francese o slava, oggi considerati “assolutamente” autoctoni. Nell’Agro Pontino (da noi) vi erano le paludi pontine,poi bonificate, dove non si potevano rintracciare vitigni storici, per cui e’ pienamente legittimo aver piantato, dopo anni di studi, le varieta’ che meglio si adattavano senza alcun pregiudizio alla Jonathan!
Piu’ a Nord, in Toscana, sempre sulla costa, c’e’ la Maremma (molto simile al nostro Agro Pontino), anch’essa un tempo paludosa. Vai a vedere, caro Jonathan, che razza di territorio vocato (lo ricordiamo anche al buon Romanozzi) ne e’ venuto fuori e che varieta’vitigni hanno piantato!!

Partecipiamo poi a progetti di valorizzazione del territorio, come gli scavi archeologici dell’antica citta’ di Satricum(documentati caro Jonathan!!!) e piste ciclabili (da noi promosse in una collaborazione bipartisan fra PDL e PD).
Infine disponiamo di una piccola oasi naturale che comprende un lago con pesci “viventi”che viene di frequente utilizzato dalla avifauna di passaggio, in particolare da aironi.
Pensa, caro Jonathan, in azienda ci sono anche numerosi conigli selvatici che negli ultimi anni si sono spontaneamente moltiplicati; forse saranno resistenti alle sostanze tossiche da te malevolmente immaginate. C’e’ tanto ancora, ma forse e’ giusto fermarsi qui. Chi ha potuto farci visita conosce la nostra passione, il nostro rigore e la nostra serieta’, qualita’ che non sembrano appartenerti. Tuttavia vogliamo augurarci che tutto cio’ non sia farina del tuo sacco ma che concorrenti sleali, che a fatica digeriscono il lavoro da noi fatto, ti abbiano facilmente manipolato…
In ogni caso ci riserviamo di tutelare la reputazione della nostra azienda nelle opportune sedi giudiziarie.

Distinti saluti


La risposta di Nossiter non si è fatta attendere e, devo dire, merita un plauso per pacatezza ed intelligenza. Magari a pensarci prima...

Egregio Sig. Santarelli,

Mi dispiace che il tono del mio articolo abbia provocato da parte sua una lettera talmente sarcastica. Ho ovviamente instaurato un dialogo incivile e questa non era la mia intenzione.
La verità è che lei non è il bersaglio del mio articolo. Sono preoccupato invece della speculazione – intesa come il contrario della produzione – che sta, nei miei occhi, distruggendo l’economia e la società occidentale. In linea di principio anche lei dovrebbe sentirsi scandalizzato, dato che vende i suoi vini a 5 euro e li trova rivenduti a 25. A lei sembra giusto? Non vorrebbe controllare un po’ la speculazione dei ristoratori che guadagnano sul vostro lavoro? E fra l’altro non ho la minima intenzione di mettere in discussione la vostra buona fede nell’elaborazione dei vostri prodotti. Volevo solo mettere in discussione il tipo di prodotto come espressione di un territorio e il fatto che una sola azienda domini il mercato locale di una grande città.
Ma leggendo la sua lettera mi chiedo anche perché un’azienda talmente forte, grande, riuscitissima – nel senso commerciale e critico – perda tempo con una piccola e singola voce critica in una rivista fuori settore e dopo tanti anni di ammirazione generalizzata? Mi dispiace soprattutto la reazione all’opinione di un giovane come Francesco Romanazzi. E’ una democrazia, il luogo in cui si può ancora esprimere un giudizio, no? E infatti l’ho citato perché mi sembra uno dei giovani appassionati più informati e impegnati nella ricerca etica della cultura del vino che abbia conosciuto: nonostante la sua età ha già lavorato in alcuni dei posti più impegnati nel vino a Roma, come Roscioli, Settembrini e Bulzoni.
Non siamo liberi, tutti e due, di dire che i vostri vini non ci piacciono? O che consideriamo il successo di marketing delle uve internazionali, sull’onda di ciò che si vende più facilmente dall’Australia alla Maremma fino all’Argentina, il contrario di un impegno necessario per salvare le tante bellissime uve autoctone laziali in pericolo? Ovviamente, come scrive lei, una tradizione comincia a volte con un gesto innovatore. Ma non può pretendere che mettendo sul mercato 1.2 millioni di bottliglie di Syrah, Merlot, Cabernet, Chardonnay, Sauvignon e gli altri “best seller” internazionali che tutti stanno impiantando in tutte le regioni del mondo, lei stia facendo un gesto di avanguardia! Lei ha assolutamente il diritto – per carità – di fare il tipo di prodotto che vuole, dove e quando lo vuole, ma la prego, lasci ai pochi che non sono convinti di questa scelta la possibilità di esprimere la propria opinione.
Per quanto riguarda poi la discussione sul biologico-non biologico, non ho capito bene. Siete in agricoltura biologica o no? Lei mi ha scritto una mail affermando chiaramente che non siete in agricoltura biologica. Praticamente vuol dire che utilizzate sostanze chimiche. Per via di questa sua affermazione, oltre che per quello che trovo scritto ad esempio nella guida Slow Wine (“Casale del Giglio: diserbo chimico/meccanico”), capisco che utilizzate prodotti di sintesi. Oppure vuol dirmi che nelle vigne e in cantina, non lasciate che una sola gocciolina di sostanze chimiche tocchi le uve e il vino? Perché tecnicamente, come lo sa molto meglio di me (io sono un regista di cinema che ama il vino e ne parlo come un laico ad un altro laico), il momento in cui qualsiasi sostanza chimica entra nella terra, nella pianta o nell’uva, il vino che ne risulta contiene almeno tracce di “tossicità”, perfettamente riscontrabili tramite analisi chimiche.
Forse la mia terminologia non è sempre preciso in Italiano: sto ancora imparando a maneggiare la vostra bellissima lingua. Ma ci tengo davvero a sottolineare che non era la mia intenzione di identificare l’azienda come eccezione.
Anzi, bisogna dire che 99% dei vini del mondo sono fatti così (anche molti che dichiarono uve biologiche dopo fanno tante cose in cantina che non si può sapere la “naturalità” di quello che si beve). Come la maggioranza delle cose che mangiamo. E so bene che anche molte stimabili persone che seguono il movimento del vino naturale con simpatia non sono d’accordo sull’idea della “tossicità” (sostenendo per esempio che l’alcool in sé sia già tossico…oppure altri che dicono che lo zolfo in sè è tossico, cose tecnicamente giuste*).

Accetto volentieri che non siamo tutti d’accordo su cosa sia un vino chimico, industriale o tossico. Però, visto quello che è successo per decenni nei campi (e nelle cantine) in Italia, in Francia, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, io personalmente sento il bisogno di reagire. Per la salute delle persone e dell’ambiente. Da qui nasce la mia ammirazione per l’impegno, coraggioso e innovatore, dei vignaioli naturali, da Elena Pantaleoni a Aubert de Villaine e Dominique Lafon (che non toglie il fatto che posso anche stimare chi non ha (ancora?) scelta questa strada).
Bisogna anche dire che negli ultimi anni, grazie al sorprendente successo di mercato della viticoltura biologica, biodinamica e naturale, sono state elaborate molte strategie aziendali per suggerire al consumatore che sta mangiando o bevendo cose sane – cosa spesso non vera – con frasi di marketing come “lutte raisonnée”. Mi perdoni se lo dico, ma mi sembra che “ecocompatibile” sia un’altra frase che rischia di confondere il consumatore. Inutile dire che se lei può affermare e provare che non c’è un gocciolino di sostanza chimica che entra nel suolo o nel suo vino, sarò il primo a scrivere una ritrattazione e chiederle scusa.
Anzi, se vuole, perché non facciamo un lavoro insieme? Chiediamo ad un agronomo ed un chimico di studiare durante l’anno tutte le vostre pratiche, nelle vigne e in cantina, e dopo facciamo un’analisi dei risultati da condividere a più voci (dagli specialisti, dal suo enologo, da lei, da un nutrizionista, da me, da un giornalista indipendente). Io conosco un bravissimo agronomo, Stefano Pescarmona, specialista in biodinamica, che insegna in vari posti in Italia, fra l’altro in un centro di ex tossicodipendenti ed anche all’Università di Slow Food a Bra. Potrei chiamarlo, magari insieme a Claude e Lydia Bourguignon, grandissimi biologi francesi, specialisti della vita del suolo. Qualsiasi sia il risultato (o i risultati), avremmo senz’altro molto da imparare, noi tutti.
Infine, lei sostiene che sono stato manipolato dai vignaioli naturali per motivi di concorrenza sleale. Lei mi lusinga. Invece credo che i produttori di vini naturali che conosco abbiano troppo lavoro nelle vigne per perdere tempo con un cineasta appassionato di vino.

Invece, vista l’ubiquità del suo vino nei ristoranti e nelle enoteche romani (ripeto, sono stupito del fatto che molti ristoratori lascino ad enoteche e altri “middlemen” la possibilità di costruire le loro carte dei vini), non credo che lei debba avere paura che anche qualche piccolo produttore di territorio possa trovare uno spazio accanto a voi. Non c’è nessuna minaccia per il vostro ampio dominio del mercato locale.
Ma se vuole, facciamo insieme anche uno studio economico-commerciale durante un anno per vedere da vicino le pratiche di distribuzione tra i ristoratori e enotecari di Roma. Con questo studio approfondito e dettagliato, potremmo imparare molto sulle strategie commerciali e di marketing che fanno la differenza nel mercato libero. Sarà senz’altro un insegnamento democratico per noi tutti.
Non sono contro di voi (e mi dispiace di offendere qualsiasi essere umano), nel modo più assoluto, anche se non amo i vostri vini (il che non è nulla più di un giudizio personale). Noto solo che in questo mondo il più grande e il più forte prende sempre più spazio – che lo voglia o no – lasciando al cittadino (di qualsiasi paese, in qualsiasi posto) meno scelta. Io, modestamente, vorrei difendere chi non riesce a trovare neanche un piccolo posto alla grande tavola della cultura e del piacere del vino. Non posso (e neanche vorrei) minacciarvi.
Vi auguro un successo democratico con la vostra visione, e auguro anche lo stesso agli altri con visioni diverse.

Cordiali saluti

Jonathan Nossiter


3 commenti:

  1. Partendo comunque dal presupposto che la penso come Nossiter, in questa discussione Casal del Giglio non ha fatto una bellissima figura, aggredendo con parole pesante chi ha esercitato un suo diritto di pensiero (davvero triste in particolare l'attacco a Romanozzi). Secondo me hanno ancor di più rafforzato la tesi che le cose dette da Nossiter siano vere.

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  2. Cioè che Casale del Giglio fa disinformazione?

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  3. A mio modo di vedere, l'articolo firmato da Jonathan Nossiter è sufficientemente ambiguo da meritare la risposta dell'attento patron di Casale del Giglio.
    Da quelle 'esternazioni' un (bel) po' estemporanee emerge il profilo di un'azienda vitivinicola che tradisce profondamente il lavoro fatto dalla famiglia Santarelli, e incorporato nei loro prodotti.
    Tanto è vero che lo stesso Nossiter se ne scusa, motivando una parte delle insinuazioni avanzate come dipendenti da una non piena padronanza dell'italiano [sic!).
    Insomma, per me che abito a Roma i vini di Casale del Giglio costituiscono una ricchezza del Lazio e ritengo che, sebbene tutto sia migliorabile e criticabile in modo chiaro e documentato, appioppare 'etichette' a casaccio a chi lavora e rischia in proprio assieme a tutta la propria organizzazione aziendale, non sia una operazione di onestà intellettuale sopraffina, specie se fuori dal proprio campo di competenze; e ancor più se si usano strumenti di informazione di massa che lasciano tracce indelebili.
    Bene ha fatto pertanto Antonio Santarelli a rispondere al giudizio frutto delle sbrigative riflessioni di Nossiter per salvaguardare il portato della propria impresa e i valori che con pazienza e impegno prosegue una cultura transgenerazionale di sapiente gestione di un prodotto così complesso come il vino.

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