InvecchiatIGP: Poggio Antico - Rosso di Montalcino DOC 1993


di Stefano Tesi

Poiché sono vecchio del mestiere, nella sede odierna non voglio certo immischiarmi nelle polemiche e nelle dietrologie legate al recentissimo aumento del 60% della superficie della celebre doc montalcinese, sulle quali - e sulle logiche delle quali - andrebbe aperto un capitolo a parte. Agli attuali 519,7 ettari si potranno infatti aggiungere ulteriori 364 ettari (+60%), ma senza l’impianto di nuove vigne: “gli ettari aggiuntivi rivendicabili”, comunicano gli organi consortili, “fanno infatti parte delle mappe del territorio come quota di vigneti coltivati a Sangiovese ma liberi da albi contingentati. In termini di bottiglie, la produzione potenziale aggiuntiva del Rosso sarà di poco superiore ai 3 milioni che si andranno a sommare alla media attuale di circa 3,6 milioni di pezzi l’anno”.


Né voglio addentrarmi in definizioni più o meno surreali ascoltate qua e là a proposito di questo vino (si va dal “da piscina” a “contemporaneo”, termine oggettivamente insopportabile) che, un ventennio fa, grazie alla propria linearità e alla mancanza di “palestra”, rischiò seriamente di sostituirsi, nei gusti di una percentuale minoritaria ma non troppo di stampa e consumatori, al fratello maggiore Brunello. Men che meno desidero schierarmi a favore o contro chi, per ragioni anch’esse lunghe da spiegare adesso, vorrebbe o affossarlo del tutto, come una sorta di inutile e meno remunerativa brutta copia del principale vino ilcinese, oppure farne qualcosa di talmente “altro” da non avere quasi più nulla in comune, se non la provenienza geografica e il vitigno, col primo.


Sono qui invece perché - alla terza edizione di “Red”, la giornata che da qualche anno il Consorzio del Brunello di Montalcino dedica alla valorizzazione del Rosso e che nel 2024 coincideva col 40° anniversario della nascita della denominazione - mi sono imbattuto in alcune classiche “vecchie annate”, come si usa chiamarle, che mi hanno davvero sbalordito per longevità e spessore. Devo ringraziare il collega Riccardo Viscardi per averle selezionate con un approccio saggiamente laico e con l’aiuto, va detto, dei produttori. “Per individuare le bottiglie da portare oggi in degustazione – ha detto uno di quelli “storici”, Francesco Ripaccioli di Canalicchio di Sopra – abbiamo chiesto ai soci di portare annate a loro scelta, anche vecchie, e le abbiamo assaggiate alla cieca, cercando di farlo però mettendoci nei loro panni e nel loro gusto: perché il tal vignaiolo ha scelto proprio questo Rosso? Abbiamo insomma cercato di capire se e quale fosse la loro visione di questo vino”.



Si è trattato di un viaggio oggettivamente affascinante, capace di riavvolgere lentamente un film che, a causa dell’effetto-schiacciamento del tempo, tende a volte a sembrare troppo rapido e lineare. Ne è emerso invece il quadro potente di un vino che non ci è parso aver nulla di balneare o di contemporaneo ma al quale, nel lungo periodo, la mancanza di troppi riflettori addosso fa indubbiamente bene.


E si arriva così all’assaggio di questo Rosso di Montalcino di Poggio Antico, vendemmia 1993 (“annata fresca e tardiva”, ci ricordano). Naturale che ti aspetti un vino quasi decrepito, messo lì ad aprire il parterre dei roi un po’ per fare notizia e un po’ dimostrare, al massimo, in che modo un pur ottimo prodotto sappia invecchiare con dignità. Invece nulla di tutto questo. Il colore è ancora integro, al netto di una naturale e non eccessiva aranciatura che dà l’idea di senectutem sì, ma non certo molestam.


Al naso questo Rosso è invece pieno e avvolgente, la sua evoluzione è solida, ben contenuta tra sentori terziari asciutti (cuoio secco, tabacco) e composti, con un frutto ancora presente e una morbidezza eterea, elegantissima, piena di sfumature. Altra sorpresa al palato: il primo impatto è di una potenza quasi spiazzante e di un corpo marcato che poi, piano piano, preso trascolora in una lunghezza avvolgente, fatta di tannini fini e di un’acidità che fa ancora capolino, sostenendo il sorso. In sintesi, una bottiglia sontuosa. Ma solo se degustata in tempo: dopo mezz’ora passata nel bicchiere la sua verve sembra appannarsi progressivamente e il gran vino diventa “solo” un grande vecchio dotato di una pur rispettabile e piacevolissima dignità. Comunque sia, non è poco.

Cantina di Cembra - Vigneti delle Dolomiti IGT "Zymbra" 2019


di Stefano Tesi

Non c’entrano i Talking Heads, ma il nome della valle: un taglio di Riesling, Chardonnay e Muller Thurgau vendemmiati sui terrazzamenti lungo l’Avisio. 


Vino dorato, screziato e cangiante con note di acacia, miele e pietra focaia che torna al palato, sostenuto da una bella vena acida, sapido e profondo. Bene.

Vinschgauer Weinpresentation 2024: il castello dove di scoprono i vini della Val Venosta


di Stefano Tesi

Di qualunque iniziativa si usa dire che, in genere, la seconda edizione è sempre più difficile della prima, perché deve scontare aspettative maggiori, un entusiasmo più basso e l’attenuazione dell’effetto-novità che connota ogni esordio. Non si può dire lo stesso, invece, della recente seconda Vinschgauer Weinpresentation, la degustazione di vini di grandi e piccoli produttori della Val Venosta organizzata nello spettacolare castello di Castelbello (BZ), da Sonja Egger, sommelier dell'anno della Guida Michelin per il 2021 nonché anima – col marito Jorg Trafojer e i figli, Kevin Nathalie e Julya – del ristorante stellato Kuppelrain (ove la sosta è suggeritissima, si capisce), che si affaccia proprio davanti al maniero arroccato sull’antica statale che da Merano risale fino a Resia.


È tra quelle mura, oggi pubbliche dopo un lungo restauro, che dall’anno scorso Sonja allestisce quest’interessante appuntamento avviato a diventare, a mio modesto parere, irrinunciabile: non solo per gli amanti dei vini venostani, produzioni spesso eroiche per dimensioni, quote e numeri, ma per chiunque sia desideroso di avventurarsi in assaggi di etichette poco reperibili fuori da quel contesto. Se a questo si aggiunge la presenza in loco di molti vignaioli in persona, ben lieti di scambiare quattro chiacchiere e di tirare fuori da sotto il banco qualche chicca fuori lista, non sarà difficile capire come e perché un paio di settimane fa, memori dell’ottima esperienza del 2023, ci siamo tuffati senza esitare tra le 22 aziende e le 99 (chicche escluse) bottiglie in catalogo.

Sonja Egger

Il tutto in un’atmosfera priva di retorica e ricca di familiarità che, ponendosi agli antipodi di certi eventi enomondani, onestamente riconcilia col mondo del vino e le manifestazioni ad esso legate. L’impresa di riuscire riunire un così ampio ventaglio di produttori di un contesto marginale, “valligiano” sotto ogni punto di vista, con tutte le dinamiche umane, anche localistiche, che ciò comporta, non va sottovalutata: si tratta di uno sforzo organizzativo e pure diplomatico che solo la tenacia, la diplomazia e l’indiscussa autorevolezza della Egger, estesa ben oltre i confini altoatesini, potevano premiare. Ed ora il timone è già rivolto, come confessa l’ideatrice, a un’ambiziosa edizione 2025.


Sugli scudi dei vini in degustazione quest’anno un ampio ventaglio di vitigni, dagli internazionali ai classici dell’Alto Adige, per passare da alcuni piwi e finire a varietà decisamente desuete alle latitudini mediterranee come il teutonico Scheurebe. Unico limite, troppo breve una giornata per poter assaggiare in modo approfondito quasi cento campioni. Abbiamo dovuto quindi limitarci ai bianchi e ai rosati (i migliori li segnaliamo qui sotto): i rossi li abbiamo solo “bevuti”. 

Ecco cosa ci è piaciuto di più.

Weinggut Befelhof, Riesling 2022 Sudtirol Vinschgau doc bio

Solo acciaio, colore oro pallido, al naso ha una varietalità marcata ma gentile e una bocca precisa, elegante, composta, col giusto conforto di acidità.

Weinggut Befelhof, Jera 2023 (Fraueler) Mitterberg IGT bio

Il Fraueler è un antico vitigno altoatesino che nella circostanza dà un vino di colore paglierino, dal bouquet tenue ma al palato decisamente ricco, screziato, molto lungo, dal finale amarognolo.

Schlossweingut Stachburg, Partschins, Pinot Bianco 2023 Sudtirol Vinschgau doc bio

Colore paglierino, bouquet fragrante e ricco con sentori di pesca dolce, in bocca è invece è asciutto, composto, con un piacevole finale amarognolo.

Oberrieglhof, Schlanders, Sauvignon 2023 Stuanig Sudtirol Vinschgau doc

Un Sauvignon paglierino, dal naso delicato, ma più esuberante che varietale, molto gradevole anche al palato grazie a una vivacità quasi giocosa.

Oberschlossbauer, Juval, Muller Thurgau 2022

Da un vitigno a oltre 900 metri di quota un vino dorato, dall’aroma elegante e compostissimo che in bocca si evolve in pienezza, sapidità e complessità.

Castel Annenberg, Latsch, Aura 2021

Da uno dei pochissimi vigneti di Scheurebe presenti in Alto Adige (la proprietaria è tedesca), ha un bel tono di oro brillante e al naso ricorda un ricco pot pourrì floreale che si ripropone più ampio al palato, con ritorni di toffees e Quality Street.

Weingut Englberg, Schludern, Muller Thurgau IGT 2023

Colore oro pallido, al naso è varietale, verace, diretto e penetrante così come in bocca, ove pulizia, semplicità e piacevolezza prevalgono dando sensazioni di godibilità senza fronzoli.

Kellerei Meran, Vinschgau, Sudtirol Vinschgau Pinot Bianco Doc 2023

Tra l’oro e il paglierino, al naso ha una piacevole nota varietale di mela fresca, mentre in bocca è sapido, agile, pulito, appagante.

Imkerei Innerhofer Bert, Partschins, Honeygourmet 2023.

Questo “spumante” in realtà non è un vino: essendo il frutto del miele fermentato è formalmente una semplice bevanda, ma estremamente curiosa. Nato “per errore” in casa di apicoltori e prodotto in meno di mille bottiglie, è una bollicina dall’intensissimo e ovvio bouquet di miele e cera, ma che in bocca risulta asciutto, sapido, con un’effervescenza gentile e un delicato retrogusto di favo. Scoperta intrigante!

InvecchiatIGP: Sartarelli - Verdicchio dei Castelli di Jesi "Tralivio" 2013


di Luciano Pignataro

La mia passione per i bianchi invecchiati mi ha trasformato in una funicolare che sale verso il Verdicchio e scende verso il Fiano di Avellino. E viceversa. Intendiamoci, ci sono tanti (ma non tantissimi) vini bianchi italiani pensati per durare a lungo e che mi piacciono, altri che riservano inaspettate sorprese, ma la mia opinione è che queste due uve sono quelle veramente al top per evolvere con naturalezza anche se lavorate con grande semplicità, in acciaio per la precisione. Intendiamoci, acciaio o legno sono strumenti e non costituiscono di per sé un plus, almeno per chi ama il vino oltre le mode del momento.


Tralivio
non ha mai tradito e conferma anche un’altra mia idea: che cioè dietro i vini buoni c’è sempre il valore della famiglia italiana che li sostiene. I Sartarelli producono vino dal 1972, poco più di mezzo secolo e, dopo Ferruccio il fondatore, il figlio Patrizio con la moglie Donatella, sono alla terza generazione con i figli Caterina e Tommaso, ossia export e produzione.


Il Tralivio che vi propongo è del 2013, ha dunque dieci anni e benché nelle premesse aziendali ci sia la specifica di una bottiglia vocata al lungo invecchiamento, direi che è il caso di lavorarci con ancora più determinazione verso questo risultato perché il vino che ho avuto la fortuna di stappare in famiglia aveva energia da vendere, un vigore da esprimere, ancora per qualche anno.
Non è retorica dire che i buoni vini nascono da grande agricoltura come premessa, questo è uno dei sei di casa Sartarelli, nasce da una selezione di uve a Poggio San Marcello, nel cuore del Verdicchio di Jesi, a circa 350 metri su terreni di altezza su terreno calcareo di medio impasto e una produzione di circa 80 quintali per ettaro.


Non un cru, dunque, ma una selezione. E che selezione. Il bianco, speso poi su una spigola al forno straordinariamente cucinata da mia moglie in casa, ha subito evidenziato il suo carattere regalando una sensazione di benessere a tutti quanti noi. Colore giallo paglierino carico e vivo, al naso presentava una decisa complessità aromatica capace di spaziare dalle note balsamiche alla frutta gialla sciroppata, alle note di macchia mediterranea sino ana buona declinazione di leggero fumè capace di esaltarne il sapore.


Al palato si presenta molto equilibrato, con una freschezza decisa ma che, dopo tutto questo tempo, più che un gioco di anticipo è impegnata nel sostenere una beva piena, appagante, che riporta integralmente le promesse fatte dal naso, sino alla chiusura lunga, pulita, assolutamente precisa.
Un altro aspetto riguarda il rapporto qualità prezzo: se fate un giro su Google, trovate le ultime annate ad un prezzo imbattibile, sui 16, massimo 18 euro. Ed è per questo che molti bianchi italiani costituiscono ancora una occasione di fare affari per chi compra, un po’ come avveniva negli anni ’90 per altre regioni. Con un po’ di pazienza, senza aspettare magari i dieci anni, se ben conservato, il Tralivio è un vino assolutamente competitivo e in grado di reggere qualsiasi paragone. Provare per credere.

Legras & Haas - Champagne Les Sillon 2012


di Luciano Pignataro

Può sembrare strano ma in realtà è sullo spaghetto con le cozze che abbiamo stappato Chardonnay, lavorato in rovere proveniente da una particella della Maison dei fratelli Legras impegnati nella produzione dal 1991 a Chouilly. 


Perlage fine e persistente, salino e austero al palato, un bicchiere che si ricorda.

Cantine dell’Angelo - Greco di Tufo DOCG "Miniere" 2020


di Luciano Pignataro

Uno dei miei bianchi preferiti di una delle mie cantine preferite. Chi avrebbe mai pensato di incontrarlo a New York? Invece è andata proprio così perché Giuseppe Di Martino, proprietario di The Oval al Chelsea Market, dedicato alla pasta che produce e porta il suo nome, è un grande appassionato di bianchi o, meglio, di Champagne e vini bianchi campani. La sua è una carta colta perché nasce dalla gioia di berli, prima condizione di una carta che abbia carattere e che si ricorda. E così, dalla Coda di Volpe di Perillo ai Fiano di Avellino, ecco spuntare, durante una serata, il Miniere 2020, il cru di Angelo Muto che prende il nome da una vigna piantata proprio sopra le antiche miniere di zolfo che all’inizio dell’800 fecero di Tufo un importante riferimento minerario nel Regno delle Due Sicilie.


Di tutto questo zolfo è rimasta traccia nei vini della piccola docg campana che declina dalle note di zolfo a quelle di frutta agrumata man mano che ci si allontana dall’epicentro da cui prende il nome il vino, un vero rosso travestito fa bianco.
La storia è recente, neanche vent’anni. Parte dalla vendemmia del 2006 quando la famiglia Muto, Angelo è la terza generazione direttamente impegnata nei filari, considerato il continuo abbassamento del prezzo delle uve, ha deciso di difendere il reddito agricolo vinificando in proprio, prima appoggiandosi a terzi, poi dalla vendemmia 2008 nella cantina garage di casa in collaborazione con il bravissimo Luigi Sarno, l’enologo che esprime il suo carattere deciso nelle bottiglie più che nella comunicazione. E per fortuna: i suoi bianchi, coda di volpe, fiano e greco, si ricordano sempre e hanno prezzi più che abbordabili.

Angelo Muto

Il sodalizio tra Luigi e Angelo è di amicizia oltre che professionale, il triangolo è completato dai ragazzi del Cancelliere con l’Aglianico di Montemarano e quello che mi piace di queste tre aziende è che hanno fatto quello che tutte le piccole cantine dovrebbero fare per essere credibili sul mercato degli appassionati e non su quello degli ignoranti: mettere insieme le loro specialità, in questo caso Greco, Fiano e Taurasi e presentarsi insieme invece di fare tutti tutto.


L'agricoltura di Angelo è a basso impatto, proprio come quella del nonno e del padre, molto attenta alla salubrità del suolo, viene da dire già di per se ricchissimo di zolfo. Il Miniere 2020 è il vino del lockdown, l’anno in cui non si trovava personale nelle campagne. Un problema che non riguarda Angelo Muto che fa tutto da sé nei suoi cinque ettari. Il vino sprizza energia nel bicchiere, a New York direi che è perfetto! Il naso gode dei rimandi di frutta e di zolfo, proprio la sensazione del fiammifero appena spento, al palato è ampio, di corpo, ancora freschissimo, lungo, maturando la giusta complessità che il tempo sempre regala ai grandi bianchi. Intendiamoci, il Greco non è il Fiano, sui tempi lunghi, diciamo oltre i sei, sette anni, è sempre una scommessa, ma sicuramente nel tempo medio esprime il meglio di sé, spendibile davvero su qualsiasi piatto. E sicuramente questo Miniere 2020 farà ancora parlare a lungo di sé.

InvecchiatIGP: Villa Saletta - Toscana IGT "Saletta Riccardi" 2015


di Carlo Macchi

Per noi toscani il detto “Peggio Palaia” (anche nella versione più tragicamente ironica “meglio Palaia”) è sinonimo di grande disgrazia, come quella, appunto, che capitò durante il medioevo al borgo fortificato di Palaia, dove assedianti e assediati fecero quasi tutto una brutta fine. Per gli amanti del vino, non solo toscani, però “vicino a Palaia” d’ora in poi sarà sinonimo di gioia e piacere, perché a pochi chilometri da quel piccolo paese si trova Villa Saletta, una cantina, pardon un borgo con cantina e molte altre “cosucce” agricole come silvicoltura, tenuta di caccia, oliveti, tartuficoltura che fanno di questa tenuta di 1400 ettari un progetto (nato nel 2001) a cui dedicare molta attenzione.


La parte vigneti conta circa 40 ettari, che vedranno futuri ampliamenti grazie all’acquisizione della tenuta di San Gervasio, il tutto sotto la giurisdizione dell’enologo toscano David Landini. Qualcuno potrebbe obiettare che un così grande dispendio di energie e fondi forse sarebbe stato meglio farlo in zone più famose, tipo Montalcino o il Chianti Classico, ma a questo qualcuno rispondo con un dato storico. “Solo” un secolo fa la situazione vitata in Toscana era molto diversa da adesso: la zona enoica del pisano, grazie anche alla situazione viaria, era tra le più importanti della regione, mentre Montalcino e le scoscese colline del Chianti Classico erano praticamente sconosciute dal punto di vista. Nobiltà fiorentina, pisana, lucchese facevano a gara per accaparrarsi questi terreni che, allora come adesso, producevano ottimi vini, cosa conosciuta e riconosciuta in precedenza anche dagli stessi Granduchi di Toscana.


Oggi gli ottimi vini di Villa Saletta nascono soprattutto da Sangiovese, anche se in azienda sono presenti diversi ettari di vitigni internazionali. E tra i Sangiovese che ho assaggiato ce n’è stato uno che mi ha veramente conquistato: sto parlando del Toscana IGT Saletta Riccardi 2015, un vino che non ha niente da invidiare ai più blasonati sangiovese toscani.


Si parte dal color rubino ancora molto giovane per passare subito ad un naso dove note balsamiche portano in alto sentori ancora fruttati. In bocca questa giovinezza porta ad una tannicità viva ma rotonda e gustosa, con un alcol importante (14.5) che però non incide, anzi accompagna il sorso. Chi mi conosce sa che amo moltissimo l’annata 2015, anche perché ogni volta che me la trovo davanti ne rimango profondamente soddisfatto. Anche questo Saletta Riccardi 2015, pur avendo trenta mesi di legno è perfettamente equilibrato ed ha quella “ruvida dolcezza” che contraddistingue i rossi toscani dotati di attributi. Un vino memorabile, una memorabile sorpresa, vicino a Palaia.

Muratori - Franciacorta Brut DOCG Simbiotico


di Carlo Macchi

Va bene, è senza solfiti aggiunti! Ok, è un metodo classico biologico, sboccato nel 2022! Rigiro il bicchiere in mano ma il colore è giovanissimo. Naso troppo maturo? Quando mai! Frutto si, ma fresco e scortato da florealità. 


Bocca? Concreta, dinamica, lunga. Cedimenti? Zero! Che gran bella sorpresa!

Cosa aspettarci dai vini bianchi italiani dell'annata 2023? Ve lo diciamo noi!


di Carlo Macchi

Siamo quasi alla metà di luglio 2024 e scagli la prima pietra chi non ha ancora assaggiato un bianco italico del 2023. Winesurf a questo punto, grazie agli assaggi per la guida vini online, ne ha già degustati alcune centinaia e mi sembra il momento giusto per dare qualche dritta su cosa ci possiamo aspettare dai bianchi del 2023, annata funestata nel centro e sud Italia dalla peronospora e comunque non facile per grandine, siccità, e piogge “a tradimento”, anche al nord.
In queste righe non faremo nomi o daremo voti ai vini: chi volesse saperne di più basta vada a consultare la nostra guida vini su www.winesurf.it


Alto Adige

Partiamo proprio dal “nord-nord” cioè dall’Alto Adige, dove l’annata 2023 ha mostrato una caratteristica comune per tanti vitigni, cioè la scarso peso al palato. I vini, vitigno per vitigno. hanno profumi classici, ma solo in pochi casi abbiamo trovato dei corpi abbastanza importanti. E’ vero che i primi vini ad uscire sono sempre i “base” e sicuramente l’anno prossimo degusteremo dei 2023 più concentrati, ma questa è la situazione attuale, quella che ognuno di noi troverà se acquista un bianco altoatesino del 2023. Se dovessimo sbilanciarci su qualche vitigno ci sentiamo di fare un nome classico e uno, per noi, a sorpresa: il primo è il Pinot Bianco, non certo a livello di altre annate ma con corpi e profili aromatici centrati e il secondo è, udite udite, lo Chardonnay. Quelli di annata (e non solo) per noi sono sempre stati vini semplici, quasi noiosi e invece i 2023 (anche i 2022!!) hanno una marcia in più.

Roero Arneis

I 2023 di questa denominazione ci hanno colpito molto positivamente, anche sul fronte aromatico, pur non trovandoci di fronte a note imponenti e variegate. Ho detto “anche” perché la bella notizia viene dal corpo e dalla sapidità degli Arneis, nettamente superiore rispetto ad annate come la 2022 e la 2021. Forse non invecchieranno per lunghi anni ma sicuramente sono buoni adesso e lo saranno per i prossimi 3-4 anni.

Vernaccia di San Gimignano

Non certo l’annata del secolo ma da una vendemmia così difficile ci saremmo aspettati molto meno. Per noi è chiaro ormai che un vitigno autoctono come la Vernaccia di San Gimignano si adatta meglio di altri vitigni alloctoni ai cambi climatici e crediamo anche che i produttori abbiano assecondato questo adattamento, senza cercare forzature di cantina. Quindi un’annata giocata in difesa ma con tanti bei “contropiede”: fuori da paragoni calcistici la Vernaccia di san Gimignano 2023 si è mostrata in bocca sapida, rotonda e ampia più che fresca e verticale, con profumi che puntano più sul balsamico/floreale che sul fruttato e soprattutto con una piacevole prontezza, che forse non la farà maturare per molti anni ma che sicuramente la rende molto piacevole nell’arco di 2/3 anni.

Orvieto

Qualche anno fa forse non avremmo nemmeno citato i vini d’annata di questa denominazione ma le cose cambiano anche a Orvieto e quest’anno gli Orvieto Classico 2023 ci sono sembrati molto meno “fatti solo per fare” di tanti altri anni. Certo niente di eclatante ma trovandosi di fronte a vini che costano da 4 a 8 euro in enoteca ci sembra un risultato da segnalare.

Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico

Sapete dove l’uso del tappo stelvin è più diffuso? Non in Alto Adige o in denominazioni altolocate e famose ma proprio nel Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico. Quasi il 50% dei campioni degustati usa infatti questa chiusura e noi ne siamo felici perché si tratta di vini bevuti non da espertoni ma da semplici consumatori, dimostrando così che questa chiusura è sempre più accettata e forse viene discussa solo dagli “espertoni” citati in precedenza. Ma parliamo del vino che ha prezzi al massimo attorno ai 10 euro ma corpi, sapidità, pienezza da vini di almeno 2/3 livelli superiori. Magari i nasi devono ancora pagare il dazio alla solforosa, magari i colori sono più carichi del normale e preannunciano una non grande longevità, ma in quanto a corpo, pienezza, “cicciosità” i Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico ci hanno lasciato a bocca aperta, sempre considerando che siamo di fronte a prodotti sotto i 10 euro.


Non vi parlerò adesso dei Verdicchio dei Castelli di Jesi Superiore o dei Riserva, come del resto lascerò al prossimo articolo agostano per gli IGP I bianchi del Friuli, i Soave, gli Etna Bianco, i bianchi campani, quelli sardi e altri che adesso mi scordo. Ma già da questi consigli qualcosa da assaggiare di buono lo troverete di sicuro

InvecchiatIGP: Poggio Scalette - Il Carbonaione 1998


di Roberto Giuliani

Il legame con il sangiovese da parte di Vittorio Fiore, enologo di lungo corso originario di Fortezza (BZ) ha radici lontane figlie di un percorso di vita che lo ha portato nel 1979 a trasferirsi in Toscana. Classe 1941, completati gli studi tecnici prima a San Michele all’Adige e poi a Conegliano, inizia la sua attività di consulenza in aziende del nord Italia, soprattutto in Piemonte, parliamo degli anni ’60, quando la figura dell’enologo consulente era ancora quasi del tutto sconosciuta. Negli anni ’70 diventa Direttore Generale di Assoenologi (allora Associazione Enotecnici Italiani), incarico che mantiene fino al 1979, quando decide di trasferirsi in Toscana per una serie di motivi, da una parte il desiderio di cambiare luogo di residenza a causa del clima troppo umido della casa di Agliate in prossimità del Ticino, dall’altra l’incontro con un industriale che aveva acquistato la Fattoria Le Bocce a Panzano, gli portava i campioni al laboratorio di Assoenologi e gli aveva proposto di lavorare per lui in azienda. Ovviamente a Panzano in Chianti il clima era ben diverso, così la famiglia si trasferì senza esitazioni in questo noto comune toscano.

Vittorio Fiore

Fiore lavorò a Le Bocce per un paio d’anni, nel frattempo fece anche le sue prime consulenze nel territorio e si rese conto che il sangiovese chiantigiano doveva liberarsi delle uve bianche per esprimersi al meglio (ma anche di quel 15% di prodotto proveniente da altre zone consentito dal disciplinare di allora), puntando però a un vigneto rinnovato e concepito non per produrre quantità ma qualità. Facile a dirsi, difficile a realizzarsi, soprattutto quando un vino ottenuto da un approccio di questo tipo, cambia radicalmente le sue caratteristiche organolettiche, rischiando di essere rimandato indietro dalle commissioni di assaggio.


Il tempo gli ha dato ragione, infatti Vittorio Fiore, insieme a Maurizio Castelli e Franco Bernabei, sono giustamente considerati coloro che hanno portato il rinnovamento nel mondo del vino toscano. Intanto, nel 1991, Fiore acquista sulla collina di Ruffoli a Greve in Chianti il Podere Poggio Scalette, che condivide con il figlio Jurij fresco del diploma di enologo ottenuto a Beaune.


Qui, al Chianti Classico rigorosamente ottenuto da sole uve sangiovese, affianca dall’annata 1992 un vino che lascerà il segno e potremmo definire un supertuscan profondamente toscano, visto che anch’esso è ottenuto da sole uve sangiovese, ma maturato in carati da 350 litri (allora forse erano 450).


La versione ’98 (IGT Alta Valle della Greve, 13,5% vol.) è a mio avviso la migliore prodotta in quel decennio, lo dimostra l’incredibile tenuta dopo 26 anni, grazie anche a un tappo in sughero che oggi difficilmente potrebbe avere le stesse capacità: colore granato di buona profondità con unghia appena aranciata. Il bouquet chiede rigorosamente tempo, non potrebbe essere altrimenti, e infatti dopo circa 5 minuti in cui il vino manifestava riduzione e sentori terziari avanzati, si è potentemente ripreso regalando note di confettura di ciliegia e prugna, cioccolato fondente, liquirizia, sottobosco, incredibile la delicatissima presenza di funghi, cuoio e tabacco, che testimonia quanto il percorso di questo sangiovese non volge al termine, il vino viaggia su toni vivi, ariosi, stimolanti e cangianti, ma mai tendenti al decadimento.


Al palato conferma una vitalità entusiasmante, grande freschezza e un’integrità di frutto che impressiona, con finale al cacao con cenni di cardamomo e legno di liquirizia e una persistenza in bocca quasi interminabile. Un vero Fiore all’occhiello!

Sosol - Venezia Giulia Bianco IGP Borjač 2022


di Roberto Giuliani

Il giovane Ivan Sosol di Oslavja ha realizzato questo splendido bianco a base ribolla gialla, friulano, chardonnay e malvasia, dai profumi che ti conquistano: pesca, arancia, acacia, erbe balsamiche e tanto altro in un sorso che ti coinvolge, salino, intenso, lunghissimo. 


Un vero spettacolo!

La Bellanotte, Friuli Pinot Nero "Spartaco" 2019 : il sogno realizzato di Paolo Benassi


di Roberto Giuliani

Ci sono voluti quasi vent’anni per realizzare un pinot nero come Paolo Benassi lo aveva immaginato nel 2001. Sì perché in Italia sapete bene che il vitigno d’oltralpe è tutt’altro che semplice da realizzare, ha bisogno di condizioni a lui congeniali, altrimenti si rischia di fare un prodotto del tutto diverso, privo di quell’eleganza che lo ha reso noto in tutto il mondo. Ci hanno provato in tanti, dal Piemonte alla Sicilia, ma di esempi che hanno lasciato il segno e che siano in grado di offrire un esempio calzante delle straordinarie doti del pinot nero, ce ne sono pochini.


Ora, io non so cosa paolo volesse ottenere, se non ciò che lui stesso mi ha confidato: “Spartaco nasce da un’idea/sogno del 2001, quando nel cassetto avevo già questo amore per un Pinot Nero che non dovesse avere somiglianze con altri territori, tanto meno con la Borgogna, ma una propria personalità, il timbro di La Bellanotte. Tutto ha inizio in quell’anno, quando decidiamo di piantare un clone da rosso e destiniamo le uve fino al 2017 alla produzione di vino spumante. Da quell’anno iniziamo le prime prove in rosso fermo ma senza ottenere i risultati sperati. Finalmente con l’annata 2019 raggiungiamo il nostro obiettivo. Così decidiamo di imbottigliare le prime 1400 bottiglie nel 2023 e uscire sul mercato con il Vinitaly 2024”.


La fermentazione a contatto con le bucce e i suoi lieviti è durata 28 giorni, poi pressatura e svinatura, passaggio in barrique dove sosta 18 mesi, infine almeno un anno di bottiglia. In etichetta una simpatica civetta che sembra dire “ce l’ho fatta!”. Chi conosce i vini de La Bellanotte, in quel di Farra d’Isonzo, sa che la gamma che propone è davvero ampia e trova non pochi punti d’eccellenza fra cui il merlot Roja de Isonzo, il Conte Lucio Ramato, il Luna de Ronchi bianco, per citarne alcuni.


Spartaco era la ciliegina sulla torta che mancava, il rosso a cui Paolo puntava da anni, un pinot nero che raccontasse il territorio isontino con un carattere ben delineato e stimolante. A mio avviso ci è riuscito molto bene, perché nel calice mostra una notevole finezza sia nei profumi che al gusto, una struttura che si avvicina a certe riserve altoatesine, un timbro fresco dove il frutto (mirtillo, prugna, ciliegia matura e una vena agrumata) spiana la strada a viola e magnolia e ad una speziatura finissima, sfumature di tabacco e liquirizia, una delicata vena balsamica.


Generoso al palato, intenso e maturo al punto giusto, con un tannino totalmente integrato e un ritorno speziato dove affiorano curcuma, cardamomo e un velato richiamo al rabarbaro e allo zenzero.Un Pinot Nero dalle longeve prospettive, che già con questa prima annata annuncia il suo posizionamento ai vertici della linea Bellanotte. Bravo Paolo!