Falanghina e Piedirosso tra Napoli e Campi Flegrei


di Luciano Pignataro

Resilienza contadina nel cuore della città più urbanizzata d’Europa. Già, perché se è vero che tra le grandi città italiane Roma può vantare il maggior numero di superficie vitata, Napoli è sicuramente la metropoli con il maggior numero di vigneti dentro il suo perimetro urbano. Il vigneto di Raffaele Moccia, premiato come Produttore dell’anno dalla Guida Mangia&Bevi 2018, è un esempio classico di resistenza contadina che difende la bellezza contro la bruttura delle nuove costruzioni in cemento che hanno invaso il cratere spento di Agnano, lì dove iniziano i Campi Flegrei. Gestendo il vigneto del padre e poi quello adiacente le mura Borboniche, Raffaele ha contribuito a salvare parte del paesaggio antico, quando questi territori erano la dispensa nord di Napoli e producevano frutta, verdure, legumi e uva in abbondanza.

Falanghina

Discorso simile, proprio ai bordi del cratere degli Astroni, è quello di Gerardo Vernazzaro che, dopo aver studiato enologia a Udine, ha di fatto riconvertito la storica azienda Varchetta trasformandone il dna produttivo da vinificatore a viticultore.
Le bandiere enologiche di queste produzioni dentro la città, a cui si aggiunge quella di Rosiello a Posillipo e alla tenuta Amato Lamberti dove si coltiva un terreno confiscato alla camorra, sono il piedirosso e la falanghina, le due uve simbolo della città da cui si producono gli omonimi vini da sempre ritenuti freschi e beverini.

Ma proprio il lavoro dei produttori napoletani e dei Campi Flegrei ha invece dimostrato le grandi potenzialità di queste uve, ritenute secondarie rispetto ad aglianico, greco e fiano, proponendo vini moderni, di spessore e sicuramente molto affascinanti grazie al rapporto con il suolo vulcanico. Ma c’è di più: queste uve da sempre abituate a suoli caldi, anche se carezzati dalla brezza marina, hanno dimostrato di rendere ancora meglio con i mutamenti climatici e di non soffrire come invece è successo ad altri vitigni. La Falanghina ha dimostrato di essere certo un vino beverino ma anche complesso e capace di regalare belle sensazioni con il passare del tempo. Ma la vera sorpresa è costituita dal Piedirosso, da sempre bestia nera di contadini e trasformatori per le difficoltà di gestirlo sia in vigna che in cantina. Le moderne conoscenze e l’attenta applicazione di un’agricoltura di precisione in campagna hanno consentito di bere negli ultimi anni degli splendidi rossi, non eccessivamente alcolici, abbastanza morbidi, sapidi, freschi al palato e capaci di abbinarsi a gran parte della cucina tradizionale e d’autore. Portabandiera di questo cambiamento, oltre le due aziende citate, sicuramente la Sibilla della famiglia Di Meo a Bacoli e Contrada Salandra di Peppino Fortunato a Pozzuoli. Sono loro, i quattro moschettieri, che hanno dato quella spinta necessaria a questi due vitigni ripresi all’inizio degli anni ‘90 dall’azienda Grotta del Sole della famiglia Martusciello.

Piedirosso

Adesso ovviamente non sono più solo loro, ci sono per esempio Salvatore Martusciello, che continua l’attività di famiglia insieme alla moglie Gilda Guida, Carputo a via Viticella, Cantine del Mare. Insomma una vera e propria rinascita vitivinicola dei vini tradizionali di Napoli che è l’unica capace di fermare l’avanzata del cemento.

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