Ristorante 53 Untitled: il tapas concept a due passi da Campo de’ Fiori


di Roberto Giuliani

Può un filosofo livornese avere uno stretto rapporto con il vino e la comunicazione? Oh yes! Vino e filosofia viaggiano con l’umano essere dalla notte dei tempi, lo sanno ben oltre il sistema solare. Sto parlando di un certo Riccardo Gabriele (in Ungheria o in Giappone si chiamerebbe Gabriele Riccardo, ma qui in Italia il nome e il cognome non si invertono, tranne negli elenchi e negli indici), che conosco da quasi vent’anni e stimo fortemente, perché la sua agenzia Pr-Vino funziona alla grande, e quando mi arriva un invito a un pranzo con un’azienda, faccio carte quarantotto per esserci. Cari pisani, fatevene una ragione, del resto stiamo parlando di vino, non di porti…


E così, quando Lisa Tommasini, responsabile rapporti con la stampa ed eventi, mi ha mandato l’invito per un pranzo al ristorante 53 Untitled di Roma con i vini di Cantine Garrone (di cui parlerò in altro contesto), non ho avuto alcuna esitazione, sia perché rivedere Matteo Garrone mi faceva un gran piacere, memore di un bellissimo tour in Val d’Ossola, sia perché non ero ancora stato in questo locale di recente apertura, sito in Via del Monte della Farina 53, alle spalle del Teatro Argentina e a due passi da Campo de’ Fiori.
Una doppia esperienza di cui è davvero valsa la pena, condivisa con un drappello di wine writers, tutte vecchie conoscenze, fra le quali Andrea Petrini, il più “giovane” di quel gruppo fondato da Carlo Macchi che si chiama IGP (I Giovani Promettenti) e di cui faccio parte anch’io.

Cecilia Moro

Devo dire che l’Untitled è stato una piacevole sorpresa, gestito da due giovani donne che si sono incontrate a un evento bolognese e hanno capito che potevano fare qualcosa di grande insieme, Cecilia Moro (chef romana con lontane parentele orientali) e Mariangela Castellana (avvocato e sommelier di origini pugliesi). A onor del vero c’è anche una terza persona, il sous chef brianzolo Andrea Riva, ma venerdì 18 non era presente.

Mariangela Castellana

Il locale è piccolino, massimo 24 posti, in un’atmosfera fine, di buon gusto, con un occhio moderno ma non privo di calore, merito dell’interior designer Adalberto De Paoli. All’arrivo ci ha accolto Mariangela, che è stata fondamentale per spiegarci i piatti proposti in abbinamento con i 4 vini portati da Matteo Garrone, azienda ossolana che amo profondamente, il suo Prünent, come viene chiamato il nebbiolo dalle sue parti, è pura poesia, sia nella versione giovane che in quella denominata “10 Brente”, più complessa e dalle notevoli capacità evolutive.


Cecilia, che da sempre ama le contaminazioni, forte delle sue numerose esperienze fra cui Pascucci al Porticciolo (Fiumicino), Guido di Ugo Alciati (Serralunga d’Alba), Don Alfonso a Sant’Agata dei due Golfi (NA), ha pensato di unire la cucina della tradizione romana con quella piemontese (e non solo), proponendo dei piatti davvero gustosi e di eccellente equilibrio.

Vitello tonnato

Si parte con il “Vitello tonnato e fondo bruno” affiancato da un cucuncio (il frutto del cappero), quindi un piatto di origine squisitamente piemontese, si faceva già nel ‘700, probabilmente nel cuneese, non c’era il tonno, che qui è presente, né la maionese; tenerissimo e ricco di sapore, l’aggiunta del fondo bruno ne aumenta la profondità.

I formaggi

Segue un “tagliere di tre formaggi”: comté, caciocavallo stagionato nelle vinacce di Primitivo Pioggia (fornitore di prodotti pugliesi) e Blu cremoso del Moncenisio; quindi un francese, un pugliese e un piemontese, consistenze e sapori diversi, personalmente ho perso la testa per il Blu cremoso…

Agnolotti del plin

Arriviamo al primo: “Agnolotti del plin al tovagliolo ripieni di sugo all’amatriciana, accompagnati da crema al pecorino romano DOP”; questa volta il Piemonte si fonde con il Lazio, devo dire che il risultato è notevole, soprattutto perché il piatto non risulta per nulla pesante, ed è anche divertente intingere con le mani il raviolo nella crema, appena lo mordi esce il sugo e si fondono i sapori, davvero ottima preparazione.

Dumpling

Un altro piatto che al 53 credo sia un must: “Dumpling coda alla vaccinara su crema di pecorino, fondo bruno e angostura”. Il dumpling, anche se tradotto in italiano è “gnocco”, di fatto è un raviolo cinese, altra contaminazione, ripieno con la romanissima coda alla vaccinara e aromatizzato con l’angostura, un bitter a base di erbe aromatiche amare, molto utilizzato in cucina. La cosa che ho maggiormente apprezzato, non solo in questo piatto, è la capacità che ha Cecilia Moro di trovare un equilibrio perfetto tra ingredienti non così semplici da unire, ottenendo preparazioni allo stesso tempo ricche, originali ma mai pesanti.

Uovo morbido 63°

Chiusura in bellezza con un altro cavallo di battaglia: “Uovo morbido 63° funghi porcini, topinambur e spuma di formaggio bruno”. Qui si tocca l’apice, l’uovo si trova sotto la spuma, con il cucchiaio è bene unire le diverse componenti per sentirne l’effetto, a mio avviso esaltante; altro punto a favore della cucina di Cecilia è riuscire a creare sapori intensi senza che questi diventino eccessivi, stancanti, privi di armonia, non sono scoppiettanti ma avvolgenti; si gode senza sentirsi appesantiti, tanto che l’ottimo pane di Roscioli (che si trova a meno di 100 metri) si è esaurito per ripulire ogni piatto. Meglio di così!

La Vernaccia Nera è la vera regina di Serrapetrona


Serrapetrona, nelle Marche, è un bellissimo borgo della provincia di Macerata dove bellezze naturalistiche, artistiche ed enogastronomia di eccellenza sembrano trovare una coesione che è difficile trovare da altre parti di Italia.


A Serrapetrona, il cui nome, di origine longobarda, indica un abitato fortificato con funzioni di sbarramento a difesa dell’inizio di una valle “Petrona” di pietra, ci si arriva uscendo dalla superstrada Civitanova-Foligno percorrendo una ripida strada di circa 6 km che porta al centro del piccolo borgo medievale, che vanta oggi circa 1000 abitanti, che si staglia fiero e ieratico in un entroterra “Alto Collinare”, dominante il lago di Borgiano, con altitudini medie che vanno dai 500 fino ai 1000 metri s.l.m.


In questo luogo magico, dove la vita scorre lenta ed il senso di comunità è più forte che mai, da tempo immemore la viticoltura ha un posto culturalmente rilevante tanto che già nel 1132 d.C., durante la dominazione longobarda, lo stemma comunale riporta tra l’altro una vite con grappoli. Storicamente il vitigno principale coltivato nel territorio è la Vernaccia Nera, la regina di Serrapetrona, la cui vinificazione risale al XV secolo: secondo lo storico Conti, nella "Storia di Camerino e dintorni", si riferisce che nel Medio Evo, un polacco al soldo di truppe mercenarie, attratto dalla Vernaccia prodotta nella zona esclamasse: "Domine, Domine quare non Borgianasti regiones nostras" (Signore, Signore, perchè non hai fatto le nostre terre come Borgiano? -
Borgiano è una frazione del Comune di Serrapetrona).


Inconfutabile è che nel 1876 l’allora Ministero dell’Agricoltura pubblicò il “Bollettino Ampelografico” che dichiarava la Vernaccia “prima delle uve colorate per fornire eccellenti vini da pasto”. Ancora, nel 1893 l’Annuario Generale per la Viticoltura e l’Enologia descrive le uve da vino rosso e cita la Vernaccia così esprimendosi: “diamo il primo posto a questo vitigno……perché è uno dei vitigni caratteristici della regione marchigiana…….sia per usarne come correttivo di altri mosti e sia per farne base di un tipo di vino da pasto apprezzabile in Italia e all’estero”.

Grappolo di Vernaccia Nera

Di sicuro, inoltre, è che di Vernaccia Nera a Serrapetrona se ne è sempre piantata poca tanto che qualcuno, addirittura, la dava per estinta soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale con il conseguente abbandono delle zone rurali in favore delle città. Nel corso degli anni, fortunatamente, le cose sono decisamente migliorate grazie all’ostinazione di un piccolissimo manipolo di vignaioli che hanno fortemente voluto rilanciare la viticoltura nel territorio tante che, nel 2004, è stata istituita la DOC Serrapetrona e la DOCG Vernaccia di Serrapetrona.

Attualmente, la superficie vitata complessiva si aggira attorno ai 66 ettari dove l’uva viene coltiva da 6\7 aziende in totale per un totale, tra DOC e DOCG, di circa 100.000 bottiglie prodotte.

Esaminando in particolare i vari disciplinari di produzione, si può notare come il vino Serrapetrona DOC, la cui zona di produzione ricomprende il territorio del comune di Serrapetrona e in parte quello dei comuni di Belforte del Chienti e di San Severino Marche, deve essere prodotto per almeno il 75% di Vernaccia Nera ed è immesso al consumo non prima di 10 mesi di affinamento.


Il discorso di fa molto più intrigato ed affascinante parlando di Vernaccia di Serrapetrona DOCG visto che il disciplinare fa riferimento alla produzione solo ed esclusivamente di spumante, nelle tipologie secco e dolce, ottenuto da uve del vitigno Vernaccia Nera per almeno l’85%. Ciò che rende assolutamente unico questo vino è il fatto che lo spumante viene prodotto attraverso tre fermentazioni:

1) le uve raccolte vengono pigiate ed il mosto ottenuto è soggetto alla lisciviazione delle sostanze coloranti e di altri componenti prima della svinatura. Inizia quindi la 1° fermentazione del vino base;

2) parte delle uve, sane e raccolte a coppie, vengono messe ad appassire fino a gennaio, in modo naturale per essere poi pigiate, diraspate ed il mosto ottenuto aggiunto al vino base di cui sopra. Parte la seconda fermentazione alcolica, più lenta, e dopo due mesi essa termina lasciando spazio al processo di maturazione che riduce la presenza di acidi e tannini attraverso la precipitazione tartarica e la fermentazione malolattica;

3) il vino così ottenuto è portato in autoclavi che, con l’aggiunta di zuccheri e lieviti avvia la terza fermentazione con trattenimento della CO2 disciolta nel vino, la cosiddetta “presa di spuma” di cui al metodo “charmat”. Il prodotto vino avrà 5 atmosfere di pressione ed è così divenuto dopo altri 2 mesi lo spumante “Vernaccia di Serrapetrona”.

Il lavoro in autoclave consente l’ottenimento del “dolce” o “secca” in base al contenuto residuo degli zuccheri.

Foto: Lorenzo Vinci

Grazie all’IMT diretto da Alberto Mazzoni, ho potuto visitare il territorio e le sue aziende che mi hanno permesso, attraverso la degustazione dei loro vini, di avere un quadro più chiaro delle due denominazioni di origine per le quali, di seguito, riporto le esperienze gustative migliori.


Alberto Quaquarini – Vernaccia di Serrapetrona DOCG Secco: l’azienda, probabilmente, è la realtà imprenditoriale più importante a Serrapetrona visto che, oltre al vino, si occupa di produrre dolci di grande squisitezza. Con i suoi 35 ettari vitati a Vernaccia Nera, Monica, Luca e Mauro, che hanno preso le redini dell’azienda famigliare fondata da Alberto Quaquerini, rappresentano il maggior produttore di Vernaccia di Serrapetrona DOCG che, durante la degustazione, ho amato in questa versione secca grazie ad un naso non scontato che sa di peonia, succo di lamponi e grafite. Sorso fresco, leggiadro, misurato e pennellato da un tannino cesellato. Finale austero.


Fontezoppa – Serrapetrona DOC “Pepato” 2020
: altra grande realtà marchigiana, Fontezoppa vede divisi i suoi 35 ettari vitati tra Civitanova e Serrapetrona dove gestisce circa 20 ettari di vigneto producendo sia Serrapetrona DOC che Vernaccia di Serrapetrona DOCG. Questo “Pepato”, che ho avuto la fortuna di bere moltissime volte, conferma il fatto che il suo nome non è stato dato a caso visto che questa Vernaccia Nera in purezza esplode al naso con sensazioni speziate, soprattutto di pepe nero, per poi evolvere e sfilare su richiami di erbe aromatiche, china e refoli di frutta rossa matura. Sorso assolutamente piacevole e ben equilibrato da una trama tannica contenuta che esalta la beva rinvigorita da un finale fresco e vibrante.


Podere sul Lago – Serrapetrona DOC “Travenano” 2018
: la piccola azienda, di proprietà di Sandrino Quadraroli, sorge sopra la valle del Chienti, in un piccolo paradiso sospeso tra il lago di Borgiano e le cime che portano ai Sibillini a circa 500 metri di altezza. Questo Serrapetrona DOC, di spirito artigianale come tutta la produzione di Quadraroli, sciorina sentori di fragoline di bosco, rosa rossa selvatica, ciliegie sotto spirito e ciclamino. Bocca gustosa, intrigante, corroborata da sapida mineralità. Durevole la persistenza.


Terre di Serrapetrona (Tenuta Stefano Graidi) – Serrapetrona DOC “Collequanto” 2017
: tra le realtà più importanti e dinamiche della denominazione, Terre di Serrapetrona, appartenente e gestita dalla famiglia Graidi, è stata fondata nel 1999 con la volontà di rendere la Vernaccia Nera, vitigno sconosciuto ai più, un’eccellenza della marca maceratese. Oggi, l’azienda gestisce 20 ettari di vigneto di Vernaccia Nera, diviso in sette parcelle, e dal 2022 è in conversione biologica. Il “Collequanto”, prodotto a partire da uve non appassite, è un rosso che sfida il tempo in maniera eccellente che si rivela di misurata eleganza offrendo richiami di ribes, viola, humus, china e tabacco dolce. Ricco al palato, dona rotondità, tannini ben coesi e fusi nella struttura del vino che chiude succoso e levigato.


Colleluce – Serrapetrona DOC “Brecce Rosse” 2015
: Franca Malavolta è una donna sanguigna e caparbia e ama il suo territorio come pochissimi altri. Assieme al marito Bruno, dal 1998, gestiscono un piccolo appezzamento di terra di 4 ettari dove sudore e speranze, fatica e passione rappresentano un tutt’uno volto a dar vita a frutti che garantiscano il miglior vino possibile in base all’annata di riferimento. Questo “Brecce Rosse” 2015, figlio di un millesimo abbastanza fresco ed equilibrato, è l’unico Serrapetrona DOC che prevede un piccolissimo saldo di merlot (8%) che non va certo ad inficiare i dettami organolettici tipici della Vernaccia Nera che in questo caso viene appassita per due mesi. Il risultato è un naso appariscente che esprime un bel mix di toni di ciliegia nera, frutti di bosco, prugne, ricordi di spezie orientali e resine balsamiche. Possente e gustoso, cattura il palato con sensuale avvolgenza e brillante freschezza.


Serboni – Vernaccia di Serrapetrona DOCG Dolce “Ripanè”
: Massimo Serboni, assieme ai suoi figli, gestisce una piccola azienda famigliare dove da generazioni si coltiva e si “respira” Vernaccia Nera di grande qualità piantata sulle colline a ridosso del lago di Caccamo, dove il particolare microclima, garantisce alle uve un ideale stato di maturazione. Ripanè è un vino spumante delizioso ed accattivante nei suoi delicati profumi di fruttini di bosco e peonia passita la cui dolcezza al sorso è ben calibrata e mai stucchevole tanto da rendere questo vino un c.d. “dolce non dolce” da gustare in assoluta spensieratezza visto che non appesantisce mai il palato.

InvecchiatIGP: Cantina Tollo – Montepulciano d’Abruzzo DOC Riserva “Cagiòlo” 2008


di Andrea Petrini

A parte i fulgidi esempi altoatesini, in Italia le cooperative vitivinicole non brillano certamente per qualità diffusa anche se, devo ammettere, negli ultimi tempi le cose stanno lentamente cambiando e anche grande realtà, come ad esempio Cantina Tollo, hanno nella loro gamma di prodotto dei vini in grado di emozionare anche il degustatore più smaliziato.


Tollo, cui nome fa riferimento ad un piccolo paese in provincia di Chieti, è una cantina fondata negli anni ’60 e, a quel tempo, è diventata un punto di riferimento importante per la zona, sia dal punto di vista economico che sociale, divenendo una fonte di reddito per molti, impedendo così agli abitanti locali – e in particolare ai giovani – di spostarsi altrove per cercare migliori opportunità.


Con il tempo la cooperativa è cresciuta e da questa sono nate tre diverse aziende: Cantina Tollo, l’azienda madre, Feudo Antico, che sei concentra maggiormente sulla DOCG Tullum e l’Ho.Re.Ca, e Auramadre, progetto del 2019 che promuove la viticoltura e il vino biologici con un approccio di offerta multiregionale e multiprodotto. L’attuale Presidente del gruppo è Luciano Gagliardi, imprenditore agricolo del gruppo Tollo che, ad oggi, gestisce una superficie vitata di 2.700 ettari, coltivati da 700 viticoltori associati, che producono in totale 14 milioni di bottiglie.

Foto Andrea Di Fabio

Le vigne si estendono dal mare Adriatico fino alla maestosa montagna della Maiella, superando i 2.790 metri slm. Le principali uve coltivate sono varietà autoctone come Montepulciano d’Abruzzo, Trebbiano d’Abruzzo, Pecorino, Passerina, Cococciola. Non mancano le varietà più conosciute come Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot Grigio.
Tra rossi prodotti dalla cooperativa, sicuramente il più premiato ed ambito è il Cagiòlo, Montepulciano d’Abruzzo DOP Riserva che dal 1992 rappresenta il fiore all’occhiello del gruppo teatino che, proprio per festeggiare il trentennale, ha voluto organizzare a Roma una bellissima verticale storica di questo vino in grado di sfidare il tempo.


Tra le varie annate presenti in degustazione, quella che, a mio giudizio, incarna l’animo di come dovrebbe essere un grande Montepulciano d’Abruzzo è stata la 2008. Considerata un’annata fresca in Abruzzo, ha prodotto sicuramente un Cagiòlo più fine ed elegante rispetto agli altri “fratelli” presenti in degustazione grazie ad un incipit olfattivo in cui l’overture di spezie orientali lascia spazio ad una aristocratica successione di sottobosco, modulata di ciliegia succosa, felce, more di bosco e un’idea balsamica quasi di erbe mediterranee essiccate.


Appena assaggiato avvolge il palato in maniera pacata ma al tempo stesso seducente, nel gusto ritrovo la sintesi ideale di un vino rosso d’annata fresca a cui non manca però la spinta e la profondità gustativa di un grande Montepulciano d’Abruzzo che ama farsi ricordare. La persistenza è lunga, impreziosita da costanti richiami balsamici e speziati.

Renato Fenocchio – Langhe Nebbiolo 2020


Renato Fenocchio e sua moglie Milva, contadini in Neive, hanno il dono e la sensibilità di trasformare il loro nebbiolo “base” in purissima emozione sensoriale. 


Questo 2020 ha una eleganza floreale pazzesca ed un sorso leggiadro e succoso che prende le fattezze della seta più pura che conosciate.

La magia di Andriano declinata nel suo Pinot Nero Riserva “Anrar”


Di Andrea Petrini

Andriano è uno dei comuni più piccoli dell'Alto Adige e grazie al suo clima mediterraneo è meta ambita di escursionisti e ciclisti che, già a partire dalla primavera, vogliono godersi le loro vacanze immersi in una natura caratterizzata da aria purissima, meleti e antichi vigneti. Infatti, questo piccolo borgo, a metà strada tra Bolzano e Merano, è anche una importante e storica terra da vino tanto che i viticoltori locali nel 1893 fondarono qui la cantina sociale più antica del Tirolo meridionale.


Fin dall’inizio questa piccola cooperativa sociale si distinse per la sua straordinaria intraprendenza tanto che, negli anni tra il 1896 e il 1908, la Cantina di Andriano prese parte con successo a numerose mostre e rassegne a livello internazionale fra cui le esposizioni mondiali di Roma e Vienna. In tutte, i vini di Andriano valsero all’Alto Adige premi e riconoscimenti. Questo percorso di qualità, mai abbondonato, ha avuto una ulteriore svolta positiva nel 2008 quando, con una decisione storica, la cooperativa strinse un’alleanza strategica con Cantina Terlano che si è impegnata a garantire a tutti i soci conferitori, ad oggi 60, una maggiore stabilità tecnica ed economica grazie alla quale si coltivano circa 80 ettari con la maggiore qualità produttiva possibile.


Dal punto di vista pedoclimatico è importante sapere che il villaggio di Andriano è situato a 285 metri s.l.m. sul versante occidentale dell’Adige, ai piedi del massiccio del Macaion, che gioca un ruolo fondamentale nel proteggere le viti dal freddo del nord mentre, verso Sud-Est, l’ampia apertura della valle garantisce a tutti gli appezzamenti un’esposizione solare dall’alba fino alle prime ore del pomeriggio quando poi il sole cala dietro alla montagna.


Queste caratteristiche climatiche, unite ai terreni di origine calcarea, rendono il terroir di Andriano molto tipicizzante richiedendo, al tempo stesso, molta attenzione ed esperienza nella scelta dei vitigni e dei cloni più adatti, soprattutto quando si realizzano impianti nuovi, grazie ai quali oggi le tecniche di coltivazione sono sempre più sostenibili e naturali ed in grado di permettere rese sempre più basse (basti pensare che nel totale di tutti i vitigni la resa media è di 49 hl/ha).

“Il principio ispiratore del lavoro continua a essere quello di credere nel territorio di Andriano e nel potenziale delle sue vigne. L’obiettivo condiviso è, quindi, rendere riconoscibile nel calice la provenienza e la peculiarità degli splendidi vini che scaturiscono da questi appezzamenti”.

Rudi Kofler, enologo di Cantina Andriano

I vini di Andriano Vengono suddivisi, a seconda della provenienza, della varietà di uva e dei metodi di lavorazione, in due linee: la linea “Le Selezioni” e la linea “I Classici” con protagonisti sia vitigni bianchi, Chardonnay e Sauvignon, che vitigni rossi come Merlot, Pinot Nero e Lagrein.


Anrar, il Pinot Nero Riserva che ho deciso di raccontarvi oggi, è un punto fermo fra le Selezioni della Cantina di Andriano ed è sicuramente tra i miei vini rossi altoatesini preferiti. Cresce su terreni calcarei in uno degli appezzamenti di Pinot Nero più ambiti dell’Alto Adige, a circa 470 metri di quota a Pinzon, nel comune di Egna. Le uve utilizzate provengono da un unico vigneto con esposizione verso Sud-Sudovest, in quella che in tutto l’Alto Adige si considera la culla nobile del Pinot Nero. Il vigneto è gestito da un socio conferitore storico, sicché il Pinot è vinificato con denominazione di vigna e in quantità limitata (da 4.000 a 5.000 bottiglie). Grazie all’elevata densità d’impianto (8.000 ceppi per ettaro), la resa per ceppo è molto bassa per natura. La vendemmia si esegue esattamente nel momento della maturazione organolettica ottimale, ma senza mai oltrepassare questa soglia, in modo da conservare le caratteristiche più tipiche del Pinot. Un terzo delle uve viene poi lavorato a grappolo intero, diraspando invece gli altri due terzi. L’affinamento si svolge in barrique.


Recentemente ho avuto la fortuna di degustare due millesimi di Anrar, la 2019, ovvero l’ultima in commercio, e la 2016. La prima annata, sulla base dei racconti di Rudi Klofler, enologo della cantina, è stata varia e complessa, con una alternanza di condizioni atmosferiche abbastanza estreme sia in termini di temperatura che di piogge che, soprattutto in estate, hanno creato anche danni ingenti causa grandinate violente. Nonostante tutto la vendemmia, cominciata in ritardo rispetto alle ultime annate, ha avuto tempo ottimale al fine di garantire all’uva comunque una buona maturazione.


Ciò che di questo vino mi incanta, soprattutto in annate non troppo calde come questa, è sicuramente la sua finezza perché Anrar è un pinot nero assolutamente filiforme ed essenziale dove i tratti di essenza di rosa antica, ribes e spezie rosse impreziosiscono il gusto del vino che sa essere leggero e raffinato e di grande precisione armonica. Curiosità: quest’anno Anrar 2019 è stato giudicato da una giuria internazionale, al 24° concorso nazionale del Pinot Nero, Miglior Pinot Nero d’Italia 2022.


Anrar 2016, invece, è figlio di una annata molto complicata in Alto Adige caratterizzata da gelate primaverili, temperature medie abbastanza basse e piogge che si sono protratte, fortunatamente, non oltre la metà di agosto quando è giunta la svolta meteorologica che ha salvato la vendemmia caratterizzata da giornate calde e asciutte. Rispetto all’annata vista in precedenza, questo Pinot Nero Riserva ha una impronta più speziata seguita da frutti di bosco leggermente macerati, pot-pourri, muschio e cenni di grafite. Al sorso è più carnoso della 2019, ma rimane comunque fresco, compatto e di soave leggiadria sviluppando nel finale una eco lunga e di grande charme.

InvecchatIGP: Ar.Pe.Pe - Rossi di Valtellina 2004


di Lorenzo Colombo

Ar.Pe.Pe. è un nome che tutti gli appassionati di vino conoscono, l’azienda, fondata nel lontano 1860 è giunta alla sua quinta generazione attraversando nel corso degli anni anche momenti bui che hanno avuto il culmine nel 1973, quando Arturo Pellizzatti Perego fu costretto a cedere azienda (che allora si chiamava Pellizzatti) e nome. Già dieci anni dopo, nel 1984 Arturo si è però rimesso in gioco, rientrando in possesso di una parte dei vigneti nella sottozona del Grumello e, non potendo più utilizzare il proprio nome, battezzò la sua nuova azienda con il suo acronimo: Ar.Pe.Pe. Altra data fondamentale nella storia aziendale è il 2004, anno che segna la definitiva entrata in campo dei tre figli di Arturo: Isabella, Emanuele e Guido e, curiosamente, anno del vino che ci accingiamo a degustare.


Il Rosso di Valtellina è in genere un vino poco considerato dagli stessi produttori che preferiscono di gran lunga realizzare i Valtellina Superiore (e lo Sforzato). Si tratta in pratica di una denominazione di ricaduta che può essere prodotta nell’intera zona vitata della provincia di Sondrio, da Ardenno a Tirano, includendo anche vigneti situati sul versante delle Orobie, sulla sponda sinistra dell’Adda. Spesso è frutto di uve allevate nelle zone marginali e meno vocate della Docg, le zone più basse e più alte (oltre i 650 metri), oppure è prodotto da vigneti giovani, le uve dei quali non sono ancora ritenute adatte all’utilizzo nei Valtellina Superiore. Il suo affinamento obbligatorio è minimo, sei mesi a partire dal 1° dicembre dell’anno della vendemmia e non è obbligatorio l’uso del legno.


La produzione nel 2021 è stata di 3.275 ettolitri, per un totale di 747.000 bottiglie a fronte di 18.800 ettolitri e 1.576.000 bottiglie di Valtellina Superiore e di 2.440 ettolitri e 330.000 bottiglie di Sforzato.

Il vino

Prodotto per la prima volta nel 2003 come conseguenza di un’annata dall’andamento climatico torrido (quest’anno forse è peggio), tanto che l’azienda non ritenne le uve adatte a produrre i Valtellina Superiore Docg, si è ritagliato nel corso degli anni uno spazio di tutto rispetto all’interno della gamma di prodotti aziendali. Il vino che andiamo ad assaggiare è dunque frutto della seconda annata prodotta, affinato per due anni in vasche d’acciaio è stato poi posto per tre mesi in botte grande. Ne sono state prodotte 14.000 bottiglie.

Il color mattone con unghia aranciata denuncia perfettamente la sua età. All’inizio anche il naso, compresso, anche se integro, non ci entusiasma più di tanto, ma in pochissimo tempo il vino s’apre, su note terziarie ovviamente e vi cogliamo fiori appassiti, frutta secca e note balsamiche. Media la sua struttura, certamente in gioventù non sarà stato un campione di body building, ma il tempo l’ha un poco smagrito. L’eleganza però c’è tutta, il vino è sapido e succoso, ancora fresco, con una bella vena acida e tannini in equilibrio, si percepiscono sentori di radici, notevole l’armonia gustativa, buona la sua persistenza. Un vino senza cedimento alcuno, a quasi vent’anni dalla sua vendemmia.


“Il giusto tempo del nebbiolo”, come riportato in home page del sito aziendale.

Ps: siamo andati alla ricerca di informazioni su questo vino (dell’annata 2004 ovviamente) e abbiamo trovato che la Guida Duemilavini di AIS del 2008 gli assegnò 4 grappoli, una valutazione eccellente per un vino che a quel tempo costava meno di 10 euro.

Ps 2: attualmente il Rosso di Valtellina di Ar.Pe.Pe viene prodotto con uve provenienti da vigneti situati tra i 350 ed i 600 metri d’altitudine che danno una resa di 50 ettolitri/ha. La fermentazione si svolge in tini troncoconici di legno da 50 ettolitri con una macerazione sulle bucce che può arrivare ad oltre due mesi, il suo affinamento avviene in botti da 50 ettolitri dove sosta per cinque mesi, prima d’essere posto in vasche di cemento. Ne vengono prodotte oltre 90.000 bottiglie/anno.

Ps 3: noi ce lo siamo gustato con un coniglio in umido con funghi porcini secchi e dobbiamo dire che si è trattato di un abbinamento azzeccato.

Fabio Perrone - Langhe Favorita “Parroco” 2021


di Lorenzo Colombo

Da un vigneto situato a Santo Stefano Belbo a 350 metri d’altitudine e da un vitigno poco conosciuto, anche se i suoi sinonimi sono Vermentino e Pigato, Fabio Perrone ricava questo vino fresco e sapido, caratterizzato da note di frutta bianca, agrumi. 


Il finale di bocca chiude su sentori d’erbe aromatiche

Domaine Tariquet - Igp Côtes de Gascogne “Côté” 2019


di Lorenzo Colombo

Ercé è un piccolissimo villaggio situato nel Parc naturel régional des Pyrénées Ariégeoises, ai piedi dei Pirenei nel dipartimento di Ariège, nella regione dell'Occitania, tanto piccolo che il numero dei suoi abitati è di poco inferiore all’altitudine del villaggio che è di 574 metri s.l.m. La fama di questo villaggio, tra la fine Ottocento e l’inizio Novecento era legata ad una particolarità dei suoi abitanti, specializzati in qualcosa di piuttosto insolito, ovvero l’addestramento degli orsi. A Ercé si trovava infatti l’unica scuola francese atta a sviluppare questo particolare talento.


Anche la storia del Domaine Tariquet inizia con gli orsi, infatti il fondatore del Domaine, un certo Artaud, era un addestratore di questi plantigradi, mestiere che lo portò in giro per il mondo, sino a che non si stabilì negli Stati Uniti.Rientrato infine in Francia nel 1912 s’innamorò del castello di Tariquet e, richiamato in patria il figlio Jeanne Pierre il quale, rimasto in America, s’era sposato con Pauline, anche lei originaria del dipartimento d’Ariège, acquistano insieme la diroccata dimora di Tariquet ed i sette ettari di vigneto circostante, completamente devastato dalla fillossera.


Senza addentrarci ulteriormente nella storia del Domaine e nelle vicissitudini degli Artaud, cosa che potete leggervi qui, arriviamo direttamente al secondo dopoguerra, quando la proprietà passa di mano e viene acquistata da Pierre Grassa –ex barbiere- e dalla moglie Hélène che ristrutturano la proprietà e, assieme ai quattro figli iniziano la produzione e la commercializzazione di Bas-Armagnac. Arriviamo infine al 1982, quando inizia la produzione di vini bianchi. Attualmente il Domaine Tariquet dispone di 900 ettari, dai quali, i figli ed i nipoti di Pierre traggono le uve per produrre diverse tipologie di Bas-Armagnac oltre a dieci vini bianchi e due rosé, la maggior parte dei vini utilizzano come chiusura lo screwcap, mentre per altri si usano tappi in materiale sintetico.


Numerosi i vitigni coltivati, soprattutto a bacca bianca: Chardonnay, Sauvignon blanc, Colombard, Ugni blanc, Gros e Petit Manseng, Chenin, Semillon, mentre per le uve a bacca rossa, utilizzate per i vini rosé, troviamo: Merlot, Cabernet franc, Syrah, Tannat e Marselan. L’Igp Côtes de Gascogne si sviluppa su circa 13.500 ettari di superficie vitata dalla quale si ricavano, da numerosi vitigni, oltre 1.100.000 ettolitri di vino all’anno, l’85% del quale bianco, l’8% rosé ed il 7% rosso.


Vi si trovano tre distinte tipologie di terroir, il Bas-Armagnac, dove si trovano circa i 2/3 della superficie vitata, qui, i suoli leggeri, chiamati “sables fauves” sono particolarmente adatti alla produzione di vini bianchi, il Ténarèze, con suoli calcarei chiamati “peyrusquettes”, in parte con argilla in profondità “terreforts” sono più adatti ai vini rossi, infine l’Haut-Armagnac con suoli di natura argillo-calcarea dove i vini hanno un carattere simile a quelli del Ténarèze.

Il vino in degustazione

L’Igp Côtes de Gascogne “Côté” 2019 è frutto di un blend in parti uguali di Chardonnay e Sauvignon blanc, due vitigni dalle caratteristiche opposte che si fondono in questo vino. La vinificazione avviene in ambiente protetto, in assenza d’ossigeno, le uve vengono pressate a 0,6 Bar e la fermentazione, condotta a bassa temperatura prosegue per circa un mese, l’imbottigliamento avviene infine a lotti da 50 ettolitri per volta. La sua gradazione alcolica è piuttosto bassa (11,5% vol.) rispetto a quanto si è soliti ritrovare ultimamente nella stragrande maggioranza dei vini bianchi.


Il vino si presenta nel bicchiere con un color giallo paglierino luminoso tendente al dorato. Buona la sua intensità olfattiva, vi si colgono sentori di frutta tropicale, ananas, accenni d’agrumi, pompelmo maturo, leggere note idrocarburiche e affumicate, vi cogliamo anche accenni iodati e ricordi di foglie di sedano e di salvia. 


Fresco al palato, con buona vena acida, decisamente sapido, vi ritroviamo la frutta tropicale, pesca matura ed albicocca, accenni piccanti che rimandano allo zenzero, scorza d’arancio candito e note idrocarburiche più pronunciate rispetto al naso, lunga infine la sua persistenza.

InvecchiatIGP: Castelvecchio - Cabernet Franc Carso doc 2002


di Stefano Tesi 


Il bello di questo mestiere è che – sia essa verità o suggestione – il vino e ciò che gli ruota attorno finisce spesso per essere l’anello mancante di un cerchio da chissà quanto tempo in attesa di chiudersi. 
E tu non finisci mai di sorprenderti di questo suo ancestrale potere. Così ai primi di ottobre vado a Sagrado, in provincia di Gorizia, tra il Carso e l’Isonzo. L’appuntamento è in trattoria per il classico “spuntino veloce di lavoro” prima della degustazione istituzionale in cantina. Ma al tavolo trovo ad attendermi un arzillo ventenne. E dico arzillo perché non parlo dei commensali, ma del vino: un Cabernet Franc del 2002, Carso doc di Tenuta Castelvecchio. Siamo a due passi dal Sacrario di Redipuglia, penso. E il mio subconscio si mette in moto. 


La bottiglia è di sorprendente vitalità. Un bell’impatto speziato, cangiante e asciutto dove l’erbaceo aleggia ormai come un soffio vellutato. Il sorso è soave ma preciso, profondo, ancora sostenuto dall’acidità. Ciò che dona all’insieme quell’eleganza un po’ austroungarica – mi sorprendo di aver pensato mentre stavo col naso nel bicchiere - di certi vecchi signori ancora dritti e severi, cui l’età ha addolcito lo sguardo senza attenuarne l’autorevolezza. 


Tra un calice e l’altro, tra una notizia e l’altra, Luca Tomasic (che è il responsabile commerciale dell’azienda nonché marito di Isabella, una delle tre figlie del fondatore Leopoldo Terraneo), mi racconta la storia della proprietà, del suo recupero cominciato nel lontano 1986, dei trentacinque ettari di vigna biodinamica abbracciati interamente da centoventi ettari di bosco e della grande villa Della Torre di Valsassina-Hofer-Hohenlohe che vi sorge al centro, oggi destinata all’ospitalità. Da qui, nelle giornate più limpide, si intravede Venezia. Mi parla dell’ospedale militare per i feriti “intrasportabili” che l’edificio accolse durante la Grande Guerra, dei gravi danni subiti per i bombardamenti, dei tunnel scavati dai soldati e dei graffiti, quasi dei dolorosi diari murali, lasciati dai degenti sulle pareti e ora riportati alla luce. 


A mia mente continua stranamente a pulsare mentre riassaporo quel Cabernet Franc divenuto etereo ma che non vuol saperne di dissolversi e a ogni rabbocco mi pare capace di tirare fuori qualcosa di nuovo: incenso, mela cotogna, note di bosco. Ecco. “Il bosco, il bosco!” mi suggerisce all’improvviso il subconscio. Qualcosa si accende, ma non riesco ancora a mettere a fuoco. 

Ai primi del ‘900, continua Luca (e intanto la bottiglia finisce), la villa fu venduta al letterato Spartaco Muratti, che nel 1915 dovette abbandonarla per sfuggire ai combattimenti. E il suo posto, non certo come proprietario ma come poeta “residente”, fu preso dal fante Giuseppe Ungaretti, che in queste trincee trascorse un anno e compose alcune celebri liriche. “Nella proprietà abbiamo un parco a lui dedicato”, conclude. 


Deglutisco di colpo l’ultimo sorso di vino e all’improvviso la luce affiora dalle nebbie della memoria. Quinta ginnasio di millant’anni fa, la professoressa di lettere, il tema a commento di una poesia di Ungaretti, “Bosco Cappuccio”. Quello pieno di morti e rovine ma che aveva, o meglio s’immaginava avesse, “un declivio di velluto verde come una dolce poltrona”. 

Realizzo che ho appena finito di bere un Cabernet Franc prodotto a un tiro di schioppo da Bosco Cappuccio. Un vino-veterano come l’allievo ufficiale Ungaretti alla fine della Grande Guerra. Ora lo spirito è quieto e posso passare alla Vitovska, alla Malvasia, al Sauvignon, al Terrano, al Refosco, ai Cabernet di Castelvecchio.

Un’altra bella storia che però, qui e ora, non c’è tempo di raccontare.      

Villa San Carlo - Valpolicella DOC "La" 2020


di Stefano Tesi

Caso più unico che raro di vino assaggiato completamente alla cieca di cui, poi, scopri che la retroetichetta dà una descrizione più o meno identica a quella che hai appena annotato sul taccuino: “vibrante freschezza”. 


Insomma assai godibile ma sfaccettato, suadente, gastronomico e tutt’altro che banale.

Colline Albelle - Vermentino IGT Toscana "Inbianco" 2021


di Stefano Tesi

Questa è la storia di un vino fatto da un’azienda dove la maggioranza è bulgara, ma il capo del governo è francese. Un giovanotto dall’espressione guascona, ancorchè nativo di Carcassonne e con ascendenti spagnoli, che si definisce cittadino del mondo perché il mondo l’ha girato davvero. Come enologo, nonostante la giovane età. Si chiama Julian Reneaud.


Racconta che nel 2016 fa mise gli occhi su Poggioventoso, un’azienda semiabbandonata nei dintorni di Riparbella, quindici chilometri dal Tirreno e tre da Bolgheri, praticamente al confine tra le provincie di Pisa e Livorno. Quaranta ettari, dei quali diciotto di vigneto malmesso. Si fa due conti, vagheggia e progetta un po’, trova due soci (bulgari, appunto: Dilyana Vasileva e il consorte, fondatori dell’e-commerce Seewine.com), se la compra e comincia l’avventura. Fin qui una bella storia, ma non ancora originalissima visto che la Toscana, costiera e non, è piena di belle cantine frutto delle folgorazioni enoiche di stranieri nel Bel Paese.


Abbastanza lineare anche il cursus honorum aziendale, diciamo così, col recupero di alcuni vigneti, l’espianto e la rimessa a dimora di altri (alla fine in campo ci saranno Sangiovese, Ciliegiolo, Merlot, Vermentino, Canaiolo Bianco e Petit Manseng), il classico casale da ristrutturare, qualche intoppo burocratico nella costruzione della cantina, idee chiare, scelte al tempo stesso precise ma trendy: biodinamico, sostenibilità, biodiversità, permacultura. Neppure questo, però, oggi è originalissimo.


I nostri vini principali – spiega ancora Julian – si chiamano Serto, Altenubi e Halis, rispettivamente un Sangiovese, un Ciliegiolo e un Canaiolo Bianco, tutti in purezza e provenienti da tre distinte parcelle. Il primo esce adesso, mentre per gli altri la prima vendemmia sarà la prossima. Abbiamo poi Nebe, un passito di Petit Manseng”. Insomma, di davvero pronti per ora ci sono solo i due vini più giovani e semplici della gamma: Colline Albelle Inrosso e Colline Albelle Inbianco. Il primo è un Merlot, il secondo un Vermentino, “che volevamo fare diverso dal solito”.


Nemmeno questa sarebbe stata una gran sorpresa se, con sornione understatement, prima ancora di servire il vino Julian non si lasciasse sfuggire di aver pensato a produrre il bianco come una sorta di “base spumante” destinato, invece, ad andare direttamente nel bicchiere: “La filosofia di produzione è quella dello Champagne, con un primo vino estremamente aromatico e quasi imbevibile: la sfida era renderlo bevibile e gradevole, ma mantenendone le caratteristiche di fondo. L’uva quindi è stata raccolta il 14 agosto, data che ho scelto in base al solo assaggio degli acini, senza fare analisi: era ricca di aromi freschi e fruttati, quasi acerba, ideale per ottenere una gradazione alcoolica bassissima. Poi pressatura leggerissima (0,86 bar anziché 1,2 ndr), fermentazione in acciaio a 16° con lieviti indigeni, uso di barrique piegate con vapore e quindi povere di tannini, assemblaggio e imbottigliamento senza filtrazioni”.


Alla prova del bicchiere il vino si rivela in effetti originale e interessante. Senza dubbio diverso dal solito e soprattutto dal Vermentino che si produce nella media collina toscana: l’impatto olfattivo qui è pungente, quasi tendenzioso nella sua acuta pietra focaia e in certi richiami, inconfondibili per i boomer, all’olio minerale, ai fulminanti, all’accendino spento. Tutto s’acquieta in bocca, dove l’alcool (10,3° dichiarati) è quasi impercettibile e il palato gioca a nascondino con una freschezza ondivaga e amarognola, che aleggia tra accenni di agrumi, di sfalcio e di fiori di campo. In definitiva un prodotto decisamente moderno e piacevole, di quelli che ti ricordi per un pezzo. Va in enoteca attorno ai 25 euro.

Quanto all’inevitabile la domanda finale sul nome scelto per l’azienda, ecco la risposta di Reneaud: “L’antico nome di Riparbella era Ripa Albella, cioè Ripa bianca o biancheggiante per via dei suoi suoli tufacei e chiari, quindi abbiamo deciso di chiamarci così: Colline Albelle”.

Dalla Toscana franco-bulgara è tutto.