Tenuta I Fauri, tutto il bello delle Colline Teatine!


“Nasciamo contadini e lo siamo ancora, nulla è cambiato rispetto alle nostre origini, soprattutto il nostro vino, da sempre immediato e conviviale perché ci poniamo l’obiettivo di allietare il più possibile le tavole degli italiani”.

Esordisce così, mentre mi aspetta presso Baldovino, il suo agriturismo, Valentina Di Camillo che, assieme a suo fratello Luigi, gestiscono da qualche anno Tenuta I Fauri, l’azienda vitivinicola di famiglia portata avanti da loro padre Domenico, vignaiolo schietto, estroverso e con un amore decisamente importante per la sua terra: le colline teatine.

Luigi e Valentina

Quella che vi racconto oggi è una storia tutta abruzzese che prende vita all’interno di un territorio, quello della provincia di Chieti, racchiuso tra le vette delle Maiella e il mare Adriatico dove la famiglia Di Camillo, in zona chiamati i Baldovino, per tantissimi anni ha portato avanti un modello agricolo basato sulla coltivazione delle uve da destinare esclusivamente al conferimento presso la più vicina cantina sociale. Al massimo, ogni tanto, si tentava la vinificazione per vendere qualche cisterna qua e là.


La crisi del modello cooperativo, lo scandalo del metanolo ed altre vicissitudini personali misero fortemente in crisi Domenico Di Camillo che, vista l’esigenza, iniziò ad imbottigliare il proprio vino anche se, racconta Valentina, al tempo non era molto convinto. Erano i primi anni 2000, bisognava dare una svolta all’azienda vinicola, il mercato stava cambiando, c’era bisogno di qualità e comunicazione, c’era la necessità di prendere al volo certi treni che altrimenti non sarebbe più ripassati. Luigi e Valentina, nonostante papà e mamma avessero per loro altri progetti di vita, capiscono che quello era il momento giusto per fare la loro parte e, dopo gli studi in enologia, cominciano a lavorare con il padre per portare avanti e non interrompere il mestiere di famiglia, quello che hanno sempre ascoltato e visto fare.


Oggi, Tenuta I Fauri, è una vera e propria squadra composta da Luigi, responsabile di cantina, Valentina, anima rock della comunicazione e del commerciale mentre a papà Domenico spetta la supervisione dei vigneti che, attualmente, si estendono per circa 35 ettari suddivisi in 12 parcelle sparse nei Comuni di Ari, Villamagna, Miglianico, Bucchianico, Chieti e Francavilla al Mare.


Le vigne, condotte secondo metodo biologici certificati (2021), hanno una altezza che varia tra i 150 e i 250 metri s.l.m. e sono allevate sia a filare che a tendone. I vitigni coltivati, ovvero trebbiano, pecorino, passerina, montepulciano, sono per lo più autoctoni anche se c’è qualche parcella di chardonnay e pinot nero che vengono usati per produrre le due tipologie di spumante.


Per quanto riguarda la cantina, Tenuta I Fauri può contare su due strutture: ad Ari, c’è la cantina di vinificazione ed affinamento composta sia da moderni tini d’acciaio che da vecchie vasche di cemento recentemente rimodernate. A Chieti, invece, si svolgono le operazioni di imbottigliamento e stoccaggio del vino prodotto. Quando le chiedo del perché non si usano legni in cantina, Valentina mi risponde così:”Una volta non si avevano i soldi per comprare le botti e oggi, che potremmo permettercele, abbiamo deciso di continuare a non utilizzarle perché a noi interessa fare il vino come si faceva in passato ovvero senza troppe sovrastrutture!”.


Ci mettiamo seduti intorno ad un tavolo e Valentina inizia ad aprire le sue bottiglie iniziando, ovviamente, dai vini bianchi che nasconderanno più di qualche sorpresa.

Tenuta I Fauri – Colline Teatine IGT “Passerina” 2020 (100% passerina): la rusticità contadina, quella bella, dei Di Camillo comincia subito ad intravedersi con questa passerina in purezza che olfattivamente si fa apprezzare per i suoi richiami che rimandano alla terra, al fieno, alla camomilla romana fino ad arrivare al melone bianco invernale e agli agrumi. Al palato è di grande bell’equilibrio e freschezza e, con solo 12,5 gradi, è un vino che si lascia bere senza pensieri tanto che la bottiglia finisce in un amen.


Tenuta I Fauri – Abruzzo DOC “Pecorino” 2020
(100% pecorino): altro vitigno simbolo del territorio interpretato magistralmente con un profilo aromatico caratterizzato da percezioni di agrumi, mela smith, erbe aromatiche e idee salmastre. In bocca è scattante, dotato di affilata freschezza. Altro vino gastronomico da aprire a tavola quotidianamente senza sensi di colpa!



Tenuta I Fauri – Abruzzo DOC “Pecorino” 2014 (100% pecorino): se il “manico” del vignaiolo si vede nelle annate difficili come questa, allora posso dire che i Di Camillo sono ampiamente promossi perché tutto mi aspettavo meno che questo pecorino vivo, intrigante nel suo bouquet di frutta a polpa gialla, mimosa, agrumi canditi, rifiniture balsamiche e salmastre. Al sorso è ancora pieno, fresco, non cede di un millimetro soprattutto nel finale elegante e ben sintonizzato al naso.

Il colore del 2014!

Tenuta I Fauri – Abruzzo DOC “Pecorino” 2017 (100% pecorino): L’annata calda e siccitosa, così come accaduto al precedente vino, è stata interpretata al meglio regalando un pecorino in purezza succoso e “pacioccone” grazie ai richiami aromatici che vanno dalla pesca nettarina al bergamotto fino ad arrivare al miele e alle spezie dolci orientali. Palato di grande equilibrio tra sostanza alcolica e sferzante freschezza. Non ha grande persistenza ma ad avercene di bianchi del 2017 ancora così!


Tenuta I Fauri - Trebbiano di Abruzzo DOC “Baldovino” 2020 (100% trebbiano): si fa apprezzare per un profilo aromatico molto personale dove ritrovo sentori di buccia d’uva, felce, mela limoncella, maggiorana corredati da un velo di agrume e cenni di nocciola. Al gusto è ricco, bilanciato, ha chiosa fruttata e succosa che esalta la bevibilità di un vino contadino fino al midollo.


Tenuta I Fauri - Cerasuolo d’Abruzzo DOC “Baldovino” 2019 (100% montepulciano): vino di grande piacevolezza che profuma di fragoline di bosco, ribes, melagrana e tenui soffi floreali e minerali. Al palato si esprime con freschezza, sapidità misurata e relativa facilità di approccio. Una lieve presa tannica dà volume e concretezza ad un finale generosamente fruttato.


Tenuta I Fauri - Montepulciano d’Abruzzo DOC “Baldovino” 2019 (100% montepulciano): arredo olfattivo che regala note di prugne della California, more, talco, pepe nero e lieve liquirizia. Sorso vigoroso, vivace, con trama tannica abbastanza scalpitante e persistenza piacevole e succosa che sfuma in sentori di frutta di bosco.


Tenuta I Fauri – Montepulciano d’Abruzzo DOC “Ottobre Rosso” 2018 (100% montepulciano): interessantissimo al naso dove sprigiona sensazioni di confettura di ciliegie, rabarbaro, ginepro, fiori rossi, chiodi di garofano e grafite. Al gusto è pieno, avvolgente, con ottimo equilibrio tra le parti, offre percezioni stuzzicanti ed una trama tannica gradevole e levigata che favorisce la beva di questo montepulciano in purezza che sa fornire un tocco “easy” ad un vitigno non semplice da domare.



InvecchiatIGP: Torres - DO Catalunya Tempranillo “Coronas” 2000


di Lorenzo Colombo

L’azienda Miguel Torres si trova a Vilafranca del Penedès, in Catalogna, attiva sin dal XVII secolo dispone attualmente di oltre 1.300 ettari di vigneti nelle più importanti denominazioni del paese, ma anche fuori dalla Spagna ha possedimenti e tenute, in Cile dove la Torres si trova sin dal 1979, ed in California nella contea di Sonoma. Coronas è il marchio più antico dell’azienda, registrato sin dal 1907, viene utilizzato per l’unico vino prodotto sotto la DO Catalunya e nel Gran Coronas, quest’ultimo commercializzato sotto la DO Penedès.


Il vitigno

Il Tempranillo è uno tra i più diffusi vitigni al mondo; secondo i dati forniti dall’OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino) e relativi al 2017, la sua superficie vitata ammontava a 231.000 ettari, posizionandolo al terzo posto, dopo Cabernet sauvignon e Merlot, nella classifica dei vitigni (da vino) più coltivati. A dispetto della sua grande estensione vitata e a differenza di Cabernet sauvignon e Merlot, il Tempranillo non è però un vitigno internazionale, limitando la sua presenza in un numero piuttosto ristretto di paesi, 17 sempre secondo l’OIV, mentre troviamo il Cabernet sauvignon in 29 diversi paesi ed il Merlot in ben 37.


Inoltre la maggior parte dei vigneti di Tempranillo si trovano in pochissimi paesi, la stragrande maggioranza del vitigno si trova infatti in Spagna (193.597 ettari), 17.014 ettari sono situati in Portogallo dov’è conosciuto col nome di Tinta Roriz e 6.140 Argentina (dati ricavati da Which Winegrape Varieties are Grown Where? e relativi al 2016.
Si può quindi affermare che il Tempranillo sia un vitigno prettamente spagnolo, o comunque iberico.


Le regioni dov’è maggiormente presente sono Castilla-La Mancha (68.370 ha), Castilla y León (34.700 ha), La Rioja (31.659 ha), Extremadura (20.948 ha), País Vasco (11.500 ha), etc. Anche in Spagna il vitigno assume diversi nomi, dipendentemente dalla regione in cui è coltivato, così nella Ribera del Duero viene chiamato Tinto Fino e in Catalogna Ull de Llebre.

Il vino

Il “Coronas”, come scritto all’inizio, è l’unico vino prodotto sotto la DO Catalunya, è composto da 86% Tempranillo e 14% Cabernet sauvignon, la vinificazione si svolge in vasche d’acciaio, mentre l’affinamento per nove mesi in barriques di rovere americano, questo almeno per il vino da noi assaggiato, per i vini delle annate più recenti vengono utilizzate sia barriques americane che francesi e l’affinamento viene prolungato a dodici mesi.


Vent’anni sono tanti per un vino, soprattutto se non è stato concepito per durare così a lungo, questo si nota già dal suo colore, granato-mattonato, intenso e compatto.
Mediamente intenso al naso, ampio ed elegante, vi si colgono tutti i sentori terziari dovuti al trascorrere del tempo, sottobosco, humus, terreno umido, cuoio, spezie, cannella e chiodi di garofano, ma anche note di cioccolato al latte e nocciolato.


La sua struttura appare un poco esile, il tannino morbido, buona la sua vena acida, un ricordo di prugna secca, armonico ed equilibrato nel suo complesso.
Un vino ancora assai piacevole e che ci ha pienamente soddisfatti, anche se pensiamo che abbia potuto dare il meglio di se qualche anno addietro.

Tenute Rubino - Brindisi Rosso DO Susumaniello “Oltremè” 2018


di Lorenzo Colombo

Questo vino succoso, di medio corpo, dalla piacevolissima beva e con un delizioso ed amaricante fin di bocca veniva sino al 2017 commercializzato come Igt Salento.


Le uve provengono da un vigneto messo a dimora su suolo sabbioso in Contrada Jaddico pochi chilometri a nord di Brindisi, vinificazione ed affinamento si svolgono in vasche d’acciaio.

Les Vignerons de la Moselle - "Grand Premier Cru" Coteaux de Grevenmacher 2019


di Lorenzo Colombo

In realtà, la degustazione di questo vino ci ha permesso di scoprire una zona viticola poco conosciuta e considerata (a torto) minore, il Lussemburgo. Prima quindi d’andare a descrivere il vino ecco qualche informazione su territorio, legislazione, azienda e vitigno.

La viticoltura in Lussemburgo

Poco meno di 1.300 ettari di vigneti che si snodano per una quarantina di chilometri lungo la riva sinistra della Mosella che segna il confine con la Germania, da Shengen sino a Wasserbillig nel territorio del cantoni di Remich e Grevenmacher, metà dei quali gestiti da soci di cooperative.
Sono 15 i vitigni ammessi in Lussemburgo, ma quelli principalmente coltivati sono nove, eccoli, in ordine d’estensione vitata: Rivaner, Pinot grigio, Auxerrois, Pinot bianco, Riesling, Pinot nero, Elbling, Chardonnay e Gewürztraminer.


I vigneti insistono su due differenti tipologie di suolo, nel cantone di Remich troviamo argilla marnosa (Keuper – foto 1) e pendii dolci, mentre in quello di Grevenmacher si trova calcare dato depositi marini, con presenza di conchiglie (Muschelkalk- foto 2) e pendii scoscesi.

Due le denominazioni previste dalla legislazione lussemburghese: AOP Moselle luxembourgeoise e AOP Crémant-de-luxembourg, quest’ultima riservata ai vini spumanti Metodo Classico.

L’Auxerrois

Con 194 ettari vitati (15% della superficie vitata del paese) l’Auxerrois è il terzo vitigno più coltivato in Lussemburgo, preceduto unicamente dal Rivaner, (nome locale del Müller Thurgau) e dal Pinot Gris (quest’ultimo vanta unicamente cinque ettari in più).


L’Auxerrois non è un vitigno molto diffuso, la superficie vitata mondiale nel 2016 era di 2.853 ettari. Il che lo poneva al 149° posto nella classifica dei vitigni (fonte: Which Winegrape Varieties are Grown Where?).

La quasi totalità del vitigno si trova in Francia (2.409 ha), soprattutto in Alsazia (2.348 ha), segue, a grande distanza la Germania con 213 ha (68 ha nel Baden, 68 nel Palatinato, 32 nella Mosella, 26 nel Rheinhessen), a seguire il Lussemburgo dove, nel 2016, se ne contavano 190 ettari, ce ne sono inoltre 38 ha in Canada. Spesso confuso con i Pinot, soprattutto il Pinot blanc -in realtà non ha nessuna parentela con essi- il vitigno predilige climi freddi e suoli calcarei.

Les Vignerons de la Moselle

Prima della Prima Guerra Mondiale la produzione di vino lussemburghese, tramite l’accordo doganale “Zollverein”, era assorbita nella quasi totalità dal mercato tedesco; dopo la fine del conflitto questo importante sbocco commerciale si era improvvisamente chiuso. Nel 1921 era quindi nata a Grevenmacher una prima cooperativa, con lo scopo di aiutare i viticoltori e trovare nuovi acquirenti dopo la conclusione dell’accordo, curandosi sia della produzione che della commercializzazione del vino. Nel corso degli anni erano nate altre cinque cooperative che, nel 1966 cinque di queste si erano unite per formare la Vinmonselle e nel 1989 se ne unì una sesta. Attualmente sotto il nome Les Vignerons de la Moselle si trovano 200 famiglie di viticoltori.


La produzione, riservata unicamente a vini bianchi, è suddivisa su tre diverse linee: la Gamme Aop è composta da sette diversi vini, sei di questi sono frutto di monovitigno mentre il settimo è un blend di Auxerrois, Pinot blanc e Pinot gris. La linea Les Premiers Crus è composta da dieci vini, anch’essi tutti da monovitigno, suddivisi nei due Premiers Crus lussemburghesi: Côtes de Grevenmacher e Côtes de Remich.


Infine la terza linea, quella più prestigiosa, ovvero Les Grands Premiers Crus, a sua volta suddivisa in Grands Premiers Crus e Lieux-Dits. La Grands Premiers Crus è composta da nove vini, anch’essi tutti da monovitigno, suddivisi tra Coteaux de Grevenmacher e Coteaux de Remich, tranne il Gewürztraminer il cui solo Cru è il Coteaux de Remich. Le linea Lieux-Dits è la più numerosa ed è composta da ben 25 vini, tutti monovitigno e tutti provenienti da uno specifico luogo, ovvero un Lieu-Dit.

Le definizioni

A questo punto urgono alcuni chiarimenti in merito alle diverse definizioni menzionate nei vini Premiers Crus e Grands Premiers Crus.

Côtes

La menzione “Côtes de” indentifica vini entry-level di qualità.
La resa in vigna non può superare i 100 ettolitri/ettaro che, nel caso dei vitigni Elbling e Rivaner sono elevati a 115 ettolitri/ha.

Coteaux

I vini “Coteaux de” sono caratterizzati dal vitigno e dalle zone di provenienza. Sono vini di qualità, provenienti da vigneti selezionati dei cantoni di Grevenmachen e di Remich su suoli di natura diversa: rocce calcaree per Grevenmachen e marne (keupériennes) per il cantone di Remich.
Inoltre i vigneti hanno rese più basse e la vendemmia dev’essere effettuata manualmente.

Lieu-Dit

In fine i “Lieux-Dit”, il vertice qualitativo per quanto riguarda i vini lussemburghesi, ovvero vini di terroir. Le uve provengono da singoli vigneti i cui nomi sono riportati in etichetta, sono caratterizzati da bassa resa e da rigorosa selezione, le vendemmie sono unicamente manuali.


Dopo questa lunga e speriamo non noiosa premessa eccoci finalmente al vino che abbiamo degustato, ovvero l’ Auxerrois Grand Premier Cru Coteaux de Grevenmachen del 2019.



I suoli calcarei, ricchi di conchiglie, ci donano un vino che fa della freschezza e della verticalità le sue armi vincenti. 

Il colore è paglierino scarico, limpido e luminoso.

Mediamente intenso al naso dove cogliamo note floreali e di frutta a polpa bianca, mela, il vino è minerale, verticale ed al contempo delicato, si notano inoltre leggeri accenni idrocarburici.


Fresco e verticale anche alla bocca, di struttura leggera, gli accenni d’idrocarburi si mescolano a sentori di frutta a polpa bianca e sfumature piccanti di zenzero, succoso e delicato, sapido ed elegante e dalla buona persistenza.

Brunello di Montalcino: il 2021 è stato da record!

Quasi 11,4 milioni di bottiglie di Brunello di Montalcino immesse sul mercato nel 2021 - il 37% in più rispetto al triennio precedente – con oltre 1 milione di Riserve (+108% sul 2020); prezzo medio dello sfuso a +28% e giacenze in cantina dell’imbottigliato ai minimi storici (-38% su dicembre 2020). Il 2021 è stato un anno entusiasmante per le vendite di Brunello ma anche del Rosso di Montalcino (+10% sul 2020, a 4,6 milioni di bottiglie), secondo l’analisi del Consorzio basata sui dati dell’ente certificatore Valoritalia relativi ai contrassegni di Stato distribuiti per le bottiglie da immettere sul mercato. 


Si chiude un biennio d’oro per il mercato del nostro vino di punta, con incrementi rispettivamente del 12% e del 27% – ha detto il presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino, Fabrizio Bindocci –, ora l’obiettivo è cementare il posizionamento conquistato. A fine febbraio saremo a New York con i nostri produttori per un’edizione statunitense di Benvenuto Brunello, mentre è allo studio un nuovo evento speciale dedicato al Rosso di Montalcino, un prodotto che conferma sempre più una propria identità e un potenziale importante”. 

L’analisi sulle fascette rileva come le ultime due super-annate in commercio (2015 e 2016) abbiano fatto segnare numeri record. Era infatti dal 2010 che non si superava il tetto di 11 milioni di bottiglie sul mercato, grazie anche a una domanda sempre più orientata verso i consumi di qualità. Nel complesso, nell’ultimo biennio sono state consegnate quasi 10,2 milioni di fascette di Stato relative all’annata 2015 e, in attesa della performance della Riserva al debutto quest’anno, oltre 9,4 milioni di contrassegni per la 2016. Un sold out che non ha limitato la richiesta - in occasione del nuovo Benvenuto Brunello di novembre - per la 2017, che conta già 3,1 milioni di bottiglie pronte a esordire sul mercato. Altissima, come al solito, la rappresentatività del Consorzio, i cui associati detengono il 98,4% dell’imbottigliato. Il Consorzio del vino Brunello di Montalcino riunisce 214 soci, per una tutela che si estende su un vigneto di oltre 4.300 ettari nel comprensorio del Comune di Montalcino (2.100 gli ettari a Brunello, contingentati dal 1997), in favore di quattro Dop del territorio.

InvecchiatIGP: Poggiotondo - Collefresco Vinsanto del Chianti DOC 2008


di Stefano Tesi

Da buon senese nutro sentimenti contrastanti verso uno dei prodotti più classici della Toscana, il vinsanto. La lunga frequentazione non aiuta, perché i ricordi familiari e non – sia quelli legati alle strette caratteristiche del vino, perché di vino si tratta, sia quelli legati alla sua utilizzazione, diciamo così, gastronomica – si accavallano. E devono fare i conti con mercati che cambiano, abitudini che mutano, stili che si evolvono.
 

Da un lato mi disturba la deriva un po’ cheap, diciamo pure liquorosa, che il consumo di vinsanto ha preso negli ultimi decenni, orientando così anche i consumatori verso l’orribile abitudine di inzuppare il cantuccio industriale in un prodotto zuccheroso da due soldi. Da un altro mi disturba il trend opposto, quello verso la sauternizzazione, che nel tentativo di conferire una “nobiltà consumabile” più ampia e ruffiana ha tolto assai spesso identità alla tradizione: quella secondo cui, più che da dessert, il vinsanto era una bevanda da aperitivo, da cortesia e da “conforto”, da cordiale quasi, che si beveva prima di uscire o si offriva a chi tornava. Un vinsanto pallido, piuttosto secco, elegante e in qualche modo delicato. Ognuno riconosceva al volo quello di casa propria. 

Nelle fattorie, del resto, la padrona di casa teneva le chiavi di tutto, tranne una: quella della vinsantaia, che invece restava fissa nelle tasche dei calzoni del padrone e guai a chi la toccava. Anche ciò faceva sì che il vinsanto fosse qualcosa di strettamente familiare, sempre ortodosso ma anche sempre diverso da tutti gli altri. La progressiva dolcificazione del vinsanto, fenomeno relativamente più recente, si è incrociata con la perdurante crisi dei vini dolci, con ciò che ne consegue. 


Ho fatto questa lunga premessa per dire che di vinsanti ne assaggio spesso, perfino li colleziono lasciandoli a invecchiare ulteriormente in cantina e mi diverto a fare confronti. Di rado però ne trovo qualcuno che mi rievochi, se non il gusto, almeno i piaceri e le sensazioni del passato. 

Nei giorni delle feste ne ho incrociato uno. 

Si chiama Collefresco, anno 2008. E’ un Vinsanto del Chianti doc e viene dal Casentino, zona di Subbiano. Lo produce l’avvocato Lorenzo Massart nella sua azienda di Poggiotondo, che avevo conosciuto parecchi anni fa e poi perduto di vista. 


Uva di Trebbiano e di Malvasia da vigneti sui 350 metri di quota, fatto in caratelli “di varie grandezze” dove resta cinque anni prima di andare in bottiglia, dice la scheda aziendale. 

Buono e confortante. 

Limpido ma non cristallino, di un colore ambrato scarico, appena velato, che non evoca certe tonalità caramellose oggi tanto diffuse e talvolta un po’ artificiose. E’ soprattutto al naso, però, che colpisce, con una trama granulosa, rarefatta e gentile di datteri schiacciati e di melata, con accenni di miele di acacia e di sulla. Nulla di troppo penetrante né di troppo intenso: è il bouquet che basta per sapere di antico. 


In bocca non è da meno. La piacevole granulosità olfattiva di traduce al palato in una dolcezza quasi cremosa, intensa ma misurata, niente affatto stucchevole, che produce un gusto lungo, lineare, composto. Perfino cangiante. 

Io l’ho gustato con dolci speziati come il panforte o i cavallucci e l’ho finito a piccoli sorsi, durante la successiva la conversazione. La sua pulizia non “incolla” infatti la lingua. Casomai, coi suoi 16°, la scioglie.  Peccato che ne abbiano fatte solo 620 bottiglie da 0,375 cl.

Lunae Bosoni - Spumante Brut Cuvée Lunae 2018


di Stefano Tesi

La tiratura limitata rende ancora più godibile questo spumante nato a Luni, ai piedi delle Apuane, al confine tra Toscana e Liguria. 


Fatto “per celebrare la nostra identità” dice Diego Bosoni. Non a caso le uve sono Vermentino e Albarola. Il risultato è un vino sapido, varietale, elegante, verticale e complesso. In sintesi: bene!

Le Cialde di Montecatini, il sapore della memoria (e del vinsanto)


di Stefano Tesi

Come tante signore della buona società, ogni anno e per mezzo secolo mia nonna paterna ha "passato le acque" a Montecatini, scendendo sempre nel medesimo elegante albergo, seguita dal terrificante carico di valigie destinate a contenere un guardaroba-base di almeno tre cambi d'abito al giorno. Le due settimane trascorse alle terme erano pertanto precedute dalle altrettante necessarie alla preparazione del bagaglio, tra nubi di frusciante carta velina. Di saltare il rituale appuntamento non se ne poteva nemmeno parlare. Primo, perchè tutto un gruppo di amici si muoveva in sincrono da mezza Toscana verso l'amena destinazione, secondo perchè mia nonna non era tipo che su certe cose fosse disposta a transigere. 

Sono certo che mio nonno, uomo buono e ben educato, l'abbia sempre accompagnata per quieto vivere e conoscenza dell'uso di mondo, ma ho la medesima certezza che tra cure idropiniche e salotti circostanti si annoiasse a morte, come dimostrano certe sue leggendarie gaffe compiute mentre, simulando interesse per la conversazione, in realtà pensava agli affari suoi e, più spesso, alle grane d'affari che aveva lasciato a casa. "Lei che ne pensa, cavaliere"?, gli chiese una volta una gran dama. E lui, appena scuotendosi, replicò con cortesia, a voce bassa: "Pere?!?". Sembra che mia nonna non l'abbia presa bene. 

Anche quando il consorte venne a mancare, nei primi ani '60, l'ava non perse l'antica abitudine: ai primi di settembre, cascasse il mondo, qualcuno dei familiari doveva accompagnarla a Montecatini. Necessitava quindi di un'ampia berlina per fare un viaggio comodo nonostante la mole dei bauli e le cappelliere a rimorchio. 


Abituata a una vita signorile ma severa, durante il soggiorno montecatinese mia nonna si dedicava ("come si conviene", diceva compuntamente) ad uno svago salottiero che consisteva in brevi passeggiate, the con le amiche, commenti più o meno perbenisti sul progresso che è regresso e sulla cacofonia della musica moderna, lauti pasti nel gran salone dell'hotel e frequenti puntate in pasticceria, ove con spirito gaudente si concedeva una delle sua grandi passioni: le cialde di Montecatini. 

Passione alla quale iniziò anche me quando, verso i sei anni, mio zio, principale condannato al trasporto della mamma, mi convinse a fargli compagnia nelle lunghe trasferte. 

Le cialde di Montecatini mi apparvero subito buonissime, con quella friabilità delicata, quella croccantezza invitante data dal trito di zucchero e mandorle contenuto tra le due sfoglie e quella dolcezza non stucchevole. Il loro profumo era inconfondibile ed era lo stesso, ovviamente, che aleggiava nel negozio nel quale la nonna immancabilmente le andava a comprare, la Pasticceria Bargilli. Che, ho scoperto poi, non solo le vendeva, ma le aveva inventate nel 1936: più o meno in concomitanza con l'inizio delle frequentazioni montecatinesi della mia congiunta. 

Devo ammettere che, tra me e lei, le divergenze sulle modalità di consumo delle cialde apparvero però da subito ampie e nette. 


Vezzosamente definite "biscotto da dessert" sulle belle scatole di latta che mia nonna teneva in casa e apriva con parsimonia solo per le grandi occasioni, secondo lei andavano spezzate delicatamente con le mani e consumate con lentezza, a bocconcini, meglio se seduti davanti a una cioccolata calda o a una china, nel mio caso al massimo un gelato, magari al Gambrinus, nel corso delle soporiferissime conversazioni che avevano alloppiato mio nonno prima e me poi. Mio zio no, ma solo perchè, conclusa la corvée del trasporto, se ne andava subito a gambe levate, dribblando i convenevoli delle amiche della madre. 

A mio parere, invece, il modo giusto era divorare le cialde, tutte e immantinente, a voraci morsi e fino a sazietà. 

Fino a ieri erano passati trent'anni dall'ultima volta che le avevo assaggiate, ovvero dall'ultima volta in cui avevo accompagnato mia nonna alle terme (in famiglia, si sa, certi ruoli o incombenze si ereditano). 

Poi le avevo un po' perdute di vista, nonostante le tante successive occasioni di visita nella cittadina termale. Chissà, forse non volevo rompere l'incantesimo dei sapori d'infanzia e di gioventù, o forse il ricordo di quelle passeggiate a fianco di lei ingioiellata e in stola di visone da pomeriggio, che mai, nemmeno a otto anni, mi permise mai di accompagnarla indossando i jeans o calzoni corti sportivi perchè, appunto, "non si conviene". Ma poi le cialde me le comprava. 

Non sapevo più nulla neppure della pasticceria Bargilli o di altre che le producevano. Mi chiedevo se esistessero ancora. Finchè quest'anno, a Natale, un amico che mi aveva sentito raccontare certi aneddoti me ne ha portato a sorpresa un pacco intero. Di fronte al mio stupore, mi ha detto che ora si trovano anche al supermercato. 

Non ci potevo credere.  Le ho lasciate lì a sedimentare qualche giorno, indeciso sul da farsi.  Nel frattempo ho frugato in soffitta, tra i cimeli, e dentro un cassone ho trovato quello che avevo in mente: la scatola di alluminio in cui, chissà quando, le cialde venivano vendute. Era impolverata e piena di cianfrusaglie. 


L'ho messa sul tavolo, come un trofeo. Poi sono andato in cantina, ho tirato fuori un vinsanto che tenevo da parte da tanto tempo immemorabile per qualche circostanza speciale, l'ho stappato e con una certa emozione ho aperto la confezione, marca Bargilli si capisce. 


Crunch, crunch: le ho trovate perfino più buone che allora. E irresistibili col vinsanto. Insomma, come direbbe frau Blucher: "Vi suggerisco di mettervi una cravatta. E di provarle".

InvecchiatIGP: Vigneti Massa - Piemonte Vino da Tavola "Timorasso Raro Vitigno" 1992


di Luciano Pignataro

Nella vita ci vuole sempre un po’ di fortuna, ed eccoci qui allora attovagliati da Gennaro Esposito alla Torre del Saracino dove il sommelier Gianni Piezzo conosce ogni spigolatura dei miei vizi nel bicchiere, a cominciare dalla passione per i bianchi invecchiati. Come ogni ristorante, Gianni tiene dei “fuori carta”, ultime bottiglie che non possono essere presentate perché magari ultime o semplicemente perché invecchiate. Questa 1992 di Walter Massa l’aveva beccata riordinando l’immensa cantina di Gennaro che negli anni ’90 ha comprato di tutto e di più testimoniando così la rivoluzione enologica italiana post metanolo, nel bene come nel male.


Walter Massa è personaggio mitico della viticultura italiana. Classe 1955, erede di una famiglia di vignaioli al lavoro dalla fine dell’800, ha l’intuizione di resuscitare un bianco minore del Basso Piemonte di cui quasi si erano perse le tracce. I suoi vini sono divenuti un riferimento assoluto, a cominciare dal Derthona, antico nome di Tortona, e dei cru Costa del Vento e Sterpi. Il software anarcoide di Walter applicato all’hardware della metodica pignoleria piemontese realizzano il miracolo, la nascita di un grande bianco ad opera di un’azienda impegnata con il Barbera in terra di grandi rossi.

Il 1992 è proprio l’anno della svolta, sono passati 30 anni da allora ma quel termine, raro vitigno, ci riporta ancora più indietro, in un’epoca in cui le etichette non erano così burocratizzate al punto di negare talvolta l’ovvio. Un vino che anticipa la vera e propria svolta del 1995, quando Walter subisce l’influenza di Gravner e inizia lavorare anche sulle macerazioni.

Che ne dici di aprire questa? E’ l’ultima”. Gianni Piezzo strizza l’occhio, io li strabuzzo e mi chiedo se, in questa giornata uggiosa riscaldata alla tavola di Gennaro e dalla compagnia di cari amici, sogno o son desto. 

Walter Massa - Foto: Il Piccolo

Tappo perfetto, il bianco color camomilla (esiste?) viene versato nei grandi calici di rosso, ovviamente a temperatura di cantina come si conviene con i bianchi invecchiati. Nonostante l’età, il vino non presenta alcun problema, niente traccia di ossidazioni e neanche di ridotto: è solo una grande esplosione di sentori di pasticceria, crosta di pane, cedro, zafferano, tè, con un naso ricco che crea aspettative dolci al palato, aspettative per nulla corrisposte: al palato il bianco esprime una energia vitalistica insospettabile, straordinaria, assolutamente secco, composto, pulito. Un vino “non disunito” (cit.) ma assolutamente coerente sino al finale lungo ed esaltante che lascia il palato assolutamente appagato e pulito. 

Grappolo di Timorasso

Abbiamo ancora bisogno di scrivere quanto siano sottovalutati i vini bianchi in Italia?  Ad ogni modo questa beva sancisce a immortalità del Timorasso e dunque non c’è limite alcuno alla longevità dei vini di Walter.  La bottiglia? Due bicchieri per unno ed è bella che finita, e neanche un Biondi Santi 1998 ne ha cancellato il ricordo emozionante.

Castellare di Castellina - I Sodi di S. Niccolò 2014


di Luciano Pignataro

Un grande classico italiano, sangiovese e malvasia nera in grado di esprimere eleganza assoluta, precisione e pulizia olfattiva, grande freschezza e frutta croccante al palato, chiusura lunghissima e perfetta che lascia  una struggente voglia di far subito un nuovo sorso. 


I Sodi di S. Niccolò è un rosso che non tradisce le aspettative, buono subito, migliore con il tempo.

Mastroberardino - Greco di Tufo DOCG "Stilèma" 2017


di Luciano Pignataro

Stilema: le parole sono importanti, le parole sono importanti, urla Nanni Moretti in Palombella Rossa dopo aver dato il ceffone alla giornalista che fa domande usando vocaboli mandati a memoria e privi del loro significato vero, profondo. Le parole e la precisione del linguaggio sono sempre più importanti adesso che stiamo entrando nella società dei segni che apre le porte al potere di una nuova generazione di scribi nascosti dietro una finta democratizzazione del sapere semplificato. 


Stilèma indica un elemento di stile che caratterizza uno scrittore, o anche una scuola o un’epoca letteraria ci ricorda la Treccani. In enologia, possiamo dire che ogni cantina dovrebbe avere il proprio stilèma, a prescindere dal mantra del territorio, del vitigno, dei protocolli usati. O meglio, uno stilèma che nasce dal giusto equilibrio ricavato dall’insieme di questi elementi. Lo Stilèma della Mastroberardino prende forma quando l’azienda era l’unica grande cantina in Irpinia, tra le poche in Campania. I vini nascevano dalla selezione delle migliori uve e la bravura dell’enologo era anche il frutto della capacità degli intermediatori di scovare le migliori partite di uve al miglior prezzo possibile. Un lavoro che è sempre stato fatto con scrupolo, come dimostrano non solo le grandi verticali di Taurasi fatte negli ultimi anni, ma anche da quelle antiche bottiglie di bianco, Fiano e Greco soprattutto, degli anni ’70 e ’80 scovate in questa e quella cantina, anche private. Il risultato è sempre stato eccelso. Nasce in quegli anni lo Stilèma Mastroberardino per i bianchi, un po’ prima per il Taurasi, ossia di vini ben caratterizzati ma discreti, capaci di attendere nel bicchiere la curiosità del naso del degustatore invece di imporsi.

Antonio Mastroberardino - Foto: Ildenaro.it

Il progetto è chiaramente dedicato ad Antonio Mastroberardino, l’uomo che ha imposto il benchmark aziendale a tutto il comprensorio: «Il progetto Stilèma nasce a testimonianza dell’amore di Antonio Mastroberardino per la sua terra, i suoi vitigni e i suoi vini, per i loro caratteri originari – scrive il figlio Piero - Un progetto avviato a cavallo del Duemila, con una serie di traiettorie sperimentali che partono da cloni selezionati in vigneti prefillossera e giunge sino a una ricognizione dei protocolli di lavoro, in vigna e in cantina, relativi ai momenti in cui i vini irpini maggiormente si sono affermati come punta dell’iceberg di un processo di rinascimento e di rilancio della viticoltura del nostro Paese". 

Quel programma si è negli ultimi anni aperto a ventaglio, ponendo su un’unica mappa una serie di iniziative volte a rinsaldare il legame dei nostri vitigni e vini con le loro origini territoriali. Si è così declinato in un più ampio spettro di iniziative, tutte ricadenti sotto la denominazione Stilèma. Il riferimento di partenza è il Taurasi degli anni ’50-70 mentre per i due bianchi siamo negli anni 70-89.  Cambiano gli anni, oggi l’azienda possiede oltre 250 ettari, ma la voglia di trovare un gancio con il passato ha prodotto questo progetto che non è altro che una accurata selezione di uve, stavolta di proprietà, lasciate riposare più a lungo rispetto all’epoca in cui i bianchi di annata doveva essere pronti per la Vigilia di Natale nella regione dove il consumo di pesce è il più alto in Italia.


Il risultato di questa selezione, coniugata ovviamente allo sviluppo delle tecniche che hanno contribuito ad affinare i protocolli è alla base del progetto Stilema legato alle diverse docg partito nel 2015 con il Fiano di Avellino, immediatamente salutato con gioia dalla critica specializzata. Stilèma torna al vecchio concetto da cui si era partiti, ossia mettere insieme le migliori uve dei diversi areali con metodi che puntano alla essenzialità del gusto senza concentrazioni e surmaturazioni, ossia senza effetti speciali. Lavorare su diversi areali dello stesso territorio presenta vantaggi immensi sia sulla qualità finale del prodotto sia sulla sua affidabilità: l’Irpinia, come tutte le zone vitivinicole di collina, è un insieme di microclimi molto diversi fra loro per la natura del terreno, l’esposizione dei vigneti, l’effetto dei venti del Terminio e del Partenio e per l’altezza che varia dai 300 ai 650 metri circa. Quando va bene ad una vigna può andare male in un’altra ed ecco qui che il fattore umano, ossia il ruolo dell’enologo che appronta il blend finale, diventa centrale. 

Piero Mastroberardino

Il Greco di Tufo 2017, provato a febbraio scorso e riprovato a novembre durate una cena di Gennaro Esposito realizzata nella tenuta aziendale Morabianca a Mirabella Eclano. L’esecuzione della DOCG più piccola, ristretta solo a otto comuni, è apparentemente la più facile perché l’uva è molto ben caratterizzata da tratti sulfurei anche sin dai primi mesi, ma anche in questo caso l’enologo Massimo Di Rienzo ha imposto lo Stilèma Mastroberardino: a distanza di quattro anni dalla vendemmia il vino appare in perfetto equilibrio, l’acidità agrumata la fa ancora da padrona anche al naso, ma in un contesto appena accennato di note fumé e di frutta gialla, pesca soprattutto. Al palato il Greco rivela tutto il suo carattere ostinato, un rosso travestito, che ne fa un grande bianco gastronomico in grado di accompagnare i piatti più complessi. Strutturati senza problemi.


I vigneti sono a Montefusco, Petruro e ovviamente a Tufo con una resa di 70-80 quintali per ettaro. Dopo la fermentazione il vino sosta per un anno e mezzo sulle fecce in acciaio. Il blend finale prevede il 7 per cento circa di Greco maturato in barrique di secondo passaggio. Poi un anno di bottiglia. Insomma un processo lungo che regala una delle migliori interpretazioni di sempre di questo vitigno.

Bevetene ma conservatene anche, per un bella verticale da qui a dieci anni. Dieci? Facciamo venti!

E' morto Lino Maga, il Siur Barbacarlo, e con lui se ne va anche un pezzo di storia di lotta contadina italiana

Sono passato a trovarlo anni fa. I suoi silenzi carichi di significato e la sua immancabile sigaretta ancora me li ricordo come fosse ieri. Sono stato con lui mezza giornata, non aveva grande voglia di parlare quel giorno, è come se fosse stato stufo di raccontare per l'ennesima volta le sue battaglie per la tutela del nome Barbacarlo e per una viticoltura che non si rispecchiava più, da anni, nel suo modo di vedere le cose.

"Una volta in campagna si cantava, oggi hanno tolto il sorriso ai viticoltori, gli han piazzato lì un sacco di burocrazia e preferiscono conferire a dei soggetti che continuano a tenere bassi i prezzi delle nostre uve e dei nostri vini. Le nostre terre non valgono più niente....".

Il suo messaggio in questo bellissimo video è il suo manifesto politico che, probabilmente, morirà con lui. Addio Maestro.



InvecchiatIGP: Giovanni Dri - Il Roncat 1990


di Carlo Macchi

Per il primo giorno dell’anno una bella storia che affonda le sue radici nel tempo e un vino incredibile che nasce da questa storia. Siamo a Ramandolo, nella zona più a nord dei Colli Orientali, oggi famosa soprattutto per il vino che porta il nome del paese.


Giovanni Dri era un giovane produttore, particolarmente affezionato alla vecchia vigna che aveva dietro casa dove, accanto al refosco (secondo Giovanni non dal peduncolo rosso), c’erano tante uve che potremmo definire “particolari”, come il refoscone, il franconia che piaceva tanto a suo padre, il corvino (parente della corvina veronese) e addirittura qualche vite di lambrusco maestri.


Da questa vigna a partire dai primi anni ’80 veniva prodotto e imbottigliato il Roncat Rosso. Per Giovanni l’annata 1985 fu eccezionale, tanto che vinse anche dei premi, ma anche la 1990 non fu certo da meno.

Giovanni e Stefania Dri

In effetti il vino veniva prodotto solo nelle annate migliori, anche perché il clima in quegli anni era molto diverso da oggi, più fresco e probabilmente anche più piovoso. Anche la vendemmia era diversa: si raccoglieva dopo la metà di ottobre tutte le uve assieme, perché allora il concetto di maturità fenolica era sconosciuto: quindi magari il refosco era maturo ma le altre potevano essere anche indietro (o troppo avanti) con la maturazione. Si raccoglieva tutto assieme ma poi in cantina veniva fatta una selezione fortissima e tanti grappoli venivano scartati. Giovanni per il Roncat rosso comprò le prime barrique della sua vita e quindi il Roncat 1990 è un vino figlio del passato in vigna e del futuro in cantina.


Il passato è talmente passato che quella vigna oggi non esiste più, essendo stata spiantata alla metà degli anni ’90 e ripiantata con uve per produrre il Ramandolo. Il Roncat oggi viene fatto da altre vigne, sempre con il refosco (ma dal peduncolo rosso) e con un po’ di schioppettino, cabernet sauvignon e merlot. Tutta questa bella storia me l’ha raccontata Giovanni Dri dopo che dagli abissi della mia cantina era uscita una bottiglia di Roncat 1990. L’ho aperta con non molte aspettative viste le condizioni dell’etichetta ma appena versato il primo goccio nel bicchiere mi sono dovuto ricredere, eccome!


Il colore era sempre rubino brillante, con un lievissimo riflesso aranciato. Appena versato subito sono letteralmente schizzate fuori delle intense ma godibili note vegetali molto giovanili, per essere soppiantate in poco tempo da cassis, china, ribes e lampone. Tanta frutta così in un vino di oltre trent’anni è quasi un miracolo. Poi i profumi hanno virato verso note balsamiche e anche leggermente fumè, per non parlare di importanti sentori di menta e terra bagnata.
Un naso incredibile: non solo giovane ma integro e complesso, indubbiamente inaspettato per ampiezza e gamme aromatiche.


Ma non è finita qui. Sin dal primo sorso il vino ha mostrato un’acidità importante ma perfettamente fusa con il corpo (i climi freddi o freschi di quegli anni hanno lasciato il segno) , dove dei tannini ora vellutati si allargano con dolcezza , ti rendono il palato come velluto e poi accompagnano verso un lunghissimo finale, che porta con sé anche una notevole sapidità. Un vino assolutamente sorprendente, che parla di una viticoltura antica e diversa che però, “vino alla mano”, lo ha portato fino ad oggi in perfette condizioni.


Il mio augurio per il nuovo anno è semplice . Spero che troviate nella vostra riserva di bottiglie un vino buono come questo Roncat 1990 e ve lo godiate, come ho fatto io.

A proposito, lo sapete che Roncat vuol dire “terreno molto ripido e quindi difficile da lavorare”? Sicuramente sarà stato (e sarà) difficile da lavorare ma sarà altrettanto difficile che io possa scordarmi questo incredibile vino.