A Volterra, alla scoperta dei vini di Monterosola!


di Stefano Tesi

Chi fa questo mestiere non deve mai fermarsi alle apparenze, anche se a volte queste sembrano messe lì per non farti guardare oltre. Non è certamente il caso di Monterosola, l’azienda volterrana che sono riuscito a visitare qualche settimana fa dopo infiniti tira e molla pandemici.


Sebbene anche qui, a fianco del vino, di cose da osservare ce ne siano molte: da un’architettura imponente che non tutti apprezzano (ma costruita interamente con una pietra rara, il panchino di Pignano, un materiale antico a km zero) a una cantina gravitazionale, operativa dalla vendemmia 2018 e realizzata per intero all’interno di un’intercapedine d’aria con pompe di calore che servono l’intera struttura, da almeno un paio di scorci cartolineschi (siamo a 440 metri s.l.m. e nei giorni fortunati si vedono i monti della Corsica innevati) alle famose installazioni di Mauro Staccioli da toccare praticamente con mano.


Gli occhi del cronista invece, prima di dedicarsi agli assaggi, sono caduti su due dettagli senza dubbio meno glamour, ma assai importanti: l’interessante esperimento, condotto con le università di Pisa e di Bologna, della semina sotto i filari del trifoglio sotterraneo permanente per l’inerbimento (tutti i 125 ettari dell’azienda, dei quali 23 a vigneto, sono certificati biologici fino all’imbottigliamento, ma in etichetta il bollino non è ancora rivendicato) e 4 ettari di oliveto che, oltre alle classiche varietà Frantoio, Leccino e Pendolino, comprende anche il Lazzero della Guadalupe, una rara cultivar locale salvata dall’estinzione.


Da quando, nel 2013, Monterosola è stata acquisita dalla famiglia Thomaeus (industriali svedesi di origine scozzese, ndr) – dice il general manager Michele Senesi, che mette nel racconto anche il coinvolgimento di chi è nato e vive a pochi km da qui – sono cambiate molte cose rispetto alle origini. Dal 2015, in particolare, quando fu decisa la costruzione della nuova cantina e un progressivo cambio stilistico dei vini che, sotto la guida di Alberto Antonini, nostro enologo fin dal 2008, ha visto ovviamente una decisa svolta tre anni fa, con l’entrata in funzione della nuova cantina”.


Cambio che è molto evidente nei bianchi, aggiungiamo noi, ed è ancora in divenire nei rossi, alcuni dei quali risentono della passata impostazione e della vecchia cantina. 
Ecco perché, ad esempio, ci ha convinto il Per Terras 2018, un Toscana IGT, 100% Cabernet Franc da vigne nuove fatto in botte grande: nella sua evidente gioventù ha un tratto varietale molto marcato, esuberante sì ma niente affatto invasivo ed anche in bocca ha una levità quasi croccante che, tutt’altro che banale, lo rende viceversa sciolto e sapido.


Bene anche l’Indomito 2016, Toscana IGT al 75% di Syrah e al 25% di Cabernet Sauvignon, vino molto centrato e compatto, elegante e piacevole al naso, con una bocca opulenta, goduriosa, importante ma non – fondamentale! - noiosa nè prevedibile.


Ci sono piaciuti un po’ meno, per la mera questione stilistica legata all’uso massiccio del legno, il Corpo Notte 2016, Toscana IGT al 70% di Sangiovese e al 30% di Cabernet Sauvignon, e il Canto della Civetta, Toscana IGT Merlot al 100%.


Merita invece di essere atteso il Crescendo 2016, Toscana IGT al 100% Sangiovese che, sebbene per impostazione e struttura ricalchi e forse perfino superi i due precedenti, ha le qualità per ingentilirsi e mettere a freno certi eccessi.

Decisamente più agili i bianchi.

Il Cassero 2019, IGT Toscana al 100% di Vermentino, ha un bel naso pulito e varietale, a tratti quasi pungente, mentre in bocca è salato, molto netto, solido e piacevole.


Più evoluto e complesso il Per Mare 2018, Toscana IGT al 100% Viognier: un oro limpidissimo e brillante per un naso delicato, appena metallico, accenni di pietra focaia e olio minerale, mentre in bocca ha un lungo finale amarognolo.


Sullo stesso livello si colloca il Primo Passo 2018, Toscana IGT al 40% Grechetto, al 40% Incrocio Manzoni e al 20% Viognier, con un naso elegante e asciutto ma discretamente fruttato, mentre al sorso rivela grande lunghezza, bella acidità e una sapidità che sconfina nell’amarognolo.


Chi passa da Volterra ci faccia un pensierino: si può fermarsi, degustare, visitare ed acquistare direttamente.

InvecchiatIGP: Tenuta San Francesco - Costa d'Amalfi Bianco DOC "Per Eva" 2011


di Luciano Pignataro

Questo bianco nasce a Tramonti, l'unico comune della Costa d'Amalfi che non ha sbocco al mare ma che costituisce il retroterra agricolo ricco di biodiversità di questo meraviglioso territorio. Non è famoso come il Fiorduva di Marisa Cuomo ma tra gli appassionati è ben conosciuto per la sua finezza e la sua eleganza. 


Dobbiamo dire che le caratteristiche 
di questo areale, anzi, le condizioni pedoclimatiche, complessivamente parlando, sono molto favorevoli alle uve bianche. In primo luogo lo strato più superficiale è stato "irrorato" dalle eruzioni del Vesuvio, alcune delle quali hanno anche seppellito le antiche ville dei Romani in questo lembo di costa. Una condizione che ha salvato centinaia di ceppi a piede franco. In secondo luogo è una viticultura del freddo e di alta quota, parliamo di circa 500 metri di altezza, anche 600 in questo caso, perchè la Vigna dei Preti
dove si allevano la falanghina, la pepella e la ginestra che compongono il vino è uno dei punti più alti della Costiera, un tratto battuto dai venti di mare e di terra che mantengono puliti i grappoli. Fatte queste premesse, aggiungiamo che si tratta di una vinificazione semplice, in acciaio, con breve sosta sulle fecce, da una selezione dei migliori grappoli. 


Ed è così che il Per Eva rivela una grande energia da giovane, ma con il tempo, in questo caso dieci anni, si rappresenta con
una maturità profonda al naso e al palato ed una grande complessità in grado di competere con qualsiasi altro vino bianco di questa età.


Frutta, note fumè e di idrocarburi all'olfatto, grande spinta fresca, ricca di energia, al palato. Il sorso è lungo, piacevole, è un vino che potrebbe entrare come pirata in qualsiasi batteria facendo bella figura. La 2011, ricorderete, è stata annata molto calda a partire da Ferragosto, quando l'estate sinora fresca è divenuta torrida per altri 30 giorni. questo caldo ha fatto benissimo alla maturazione di zone fredde come la frazione Ponte dove si trova Vigna dei Preti. 


In conclusione: invitiamo severamente gli appassionati a conservare le bottiglie di "Per Eva" e a iniziarle a stappare non prima dei sei, sette anni di vita come testimoniano ripetute esperienze sul campo.

Lungarotti - Torgiano Rosso DOC "Rubesco" 2010


di Luciano Pignataro

Una vecchia magnum sepolta da altre ha bussato nella porta della mia memoria per farsi bere. 


Sangiovese e un po' di Colorino, fermentazione
in acciaio, poi un anno di legno e uno di bottiglia. Così il vino bandiera di Lungarotti ha riscaldato un bel pranzo di famiglia: fresco ed efficace sul cibo.

La Masserie - Sensus Pallagrello 2008


di Luciano Pignataro

Quanto vive il Pallagrello Nero? Beh, almeno quanto l’Aglianico, sebbene abbiamo uno storico che non va oltre il 1998, primo anno di vinificazione dell’azienda Vestini Campagnano, quando Manuela Piancastelli, il marito Peppe Mancini e l’avvocato Amedeo Barletta iniziarono questa avventura con il supporto di Luigi Moio. 
Certo dopo i dieci anni è ancora bello pimpante, come abbiamo avuto di accertare con questa magnum del 2008 di una piccola azienda, La Masserie, adesso condotta da Sara Carusone. 


Siamo conservatori nelle bottiglie, e questa magnum era sepolta in cantina dopo una visita all’azienda di Bellona, in provincia di Caserta, fatta nel lontano 2012. Nonostante il vino avesse già quattro anni, decisi di aspettare.
Le cantine, si sa, sono un po’ come le biblioteche, soprattutto quelle di campagna dove bottiglie vanno su bottiglie non sempre con un ordine preciso. Proprio durante un repulisti generale ho pensato che fosse arrivato il momento di aprire il Sensus 2008 de La Masserie in magnum per abbinarlo ad un bel ruoto di pasta alla siciliana al forno. Il tema dell’invecchiamento è quello che più mi affascina nel mondo del vino: quando aprire una bottiglia? E’ giusto averle subito pronte o, piuttosto, il bello è capire quando l’evoluzione è allo zenith per stapparla. Solo l’esperienza ce lo può dire con chiarezza, ma nel caso del Pallagrello, appunto, non abbiamo un grande storico e si procede a tentativi. Siamo abbastanza sicuri della sua longevità per la vena acida prepotente, i tannini, l’alcol che lo hanno fatto confondere con l’aglianico per lungo tempo nonostante il grappolo piuttosto spargolo.


Rispetto all'"Aglianico", il "Pallagrello nero" presenta tutte le fasi fenologiche anticipate di circa 7 giorni. Infatti, il germogliamento avviene tra la prima e la seconda decade di aprile; la fioritura è a cavallo tra maggio e giugno; l'invaiatura cade tra l'inizio e il 20 di agosto, mentre la vendemmia va programmata per la prima decade di ottobre.


Gli studi condotti da Antonella Monaco evidenziano che il Pallagrello mostra una produttività maggiore rispetto all’Aglianico, vitigno utilizzato nella sperimentazione come varietà di riferimento. Infatti, la produzione unitaria e il peso medio del grappolo sono stati sensibilmente più elevati per il Pallagrello nero rispetto all'Aglianico (6.14 kg/pianta contro 3.34 kg/pianta per la produzione; 251,2 g. e 171 g per il peso del grappolo). Maggiore è anche il vigore vegetativo, come risulta dalla valutazione della quantità di legno di potatura invernale (1.37 kg/pianta contro 1.02 kg/pianta per il legno). Di questa uva ci sono al momento poche tracce storiche, e aspettiamo con ansia il prossimo libro di Manuela Piancastelli sul tema, sappiamo che Ferdinando d Borbone lo aveva inserito, insieme al Pallagrello Bianco, nella famosa Vigna del Ventaglio voluta dalla casa reale, sempre attenta alla viticultura e all’agricoltura, con le varietà più diffuse, ciascuna delle quali costituiva un filare. Oggi è diffusa soprattutto in provincia di Caserta, principalmente nei comuni di Alife, Alvignano, Caiazzo e Castel Campagnano dove era chiamata Coda di Volpe nera a causa della forma del grappolo.


Come speso capita in campagna, il successo è imitato e dopo quello della Vestini Campagnano, soprattutto dopo i successi di Terre del Principe fondata da Manuela Piancastelli con Peppe Mancini sempre sostenuti da Luigi Moio, molti hanno cominciato ad imbottigliarlo in purezza con buoni risultati. Si è trattato di una vera e propria piccola rivoluzione in questo territorio incontaminato che ha segnato un ulteriore passo in avanti della Campania verso la scelta di usare solo vitigni autoctoni, strategia culturale e commerciale che si è rivelata vincente a questa regione perché ha potuto surfare l’onda italiana nonostante le sue piccole dimensioni produttive.
I ritardi di organizzazione e di cooperazione fra le aziende non hanno favorito l’espandersi della fama di questa uva che resta però una chicca interessante per tutti gli appassionati proprio per le caratteristiche del vino che ne fanno un rosso rustico, di corpo, gastronomico, piacevole.


Proprio come questa vecchia magnum, in cui i tannini sono stati levigati dal tempo presentando un naso ricco di frutta ancora fresca in un cornice leggermente fumè, al palato una freschezza in buon equilibrio anche grazie al rapporto fra frutto e legno molto ben giocato.

InvecchiatIGP: Dorigati - Teroldego Rotaliano Diedri 2003


di Carlo Macchi

Il Teroldego Rotaliano è uno dei miei vini del cuore e questo di Dorigati è sempre stato tra i preferiti perché riesce a miscelare potenza con rotondità e perfetto uso del legno. Non è facile fare un Teroldego Rotaliano (scusate se insisto sul termine “Rotaliano” ma quelli fatti in altre zone, anche vicine, sono diversi) perché devi modellare e mixare la belluina presenza di antociani con l’atavica scarsità di tannini, riuscendo a portare a maturazione un vino che, anche a causa di pH quasi “arrendevoli” (3.70- 3.80) rischia di nascere piatto oppure con tannini verdi.


Le strade che ha cercato il Teroldego per farsi conoscere e riconoscere (anche se spesso non lo riconosciamo visto che purtroppo entra come taglio in tanti vini blasonati…) sono state diverse e non tutte per me hanno portato a migliorare il vino e a farne capire le reali possibilità.

Paolo Dorigati

Paolo Dorigati, anima del gruppo di giovani produttori “Teroldego Revolution” (ve ne parlerò in un prossimo articolo) mi ha stappato questo 2003, lasciandomi a naso e bocca aperta. A parte il colore che sembra non degradare mai il naso è un insieme potentissimo che in prima battuta ricorda i grandi Bordeaux del Medoc grazie a note di cassis, di paglia, di liquirizia e a raffinate note floreali e vegetali, il tutto perfettamente armonizzato dal legno. La bocca è concreta ma docile: i tannini sono perfettamente fusi, setosi ma delineati. Lunghissimo e equilibrato chiude con misurata dolcezza tannica, lasciandosi ancora del tempo per stupire.

Dr.Bürklin-Wolf - Riesling Trocken Wachenheimer Altemburg 2017


di Carlo Macchi

Il Palatinato non è certo la prima zona che viene in mente parlando di Riesling tedeschi e questa cantina, pur essendo famosissima non è certo tra le più conosciute. 


Però questo loro cru ha le carte in regola (acidità, ampiezza olfattiva, profondità gustativa) per dare soddisfazione ora e nei prossimi 20-30 anni.

Il Giardino delle Esperidi e Alla Borsa: quando la ristorazione di qualità vale il viaggio!


di Carlo Macchi

Qualche giorno fa, girando per degustazioni tra Soave, Bardolino e Custoza ho confessato a me stesso, nonostante l’età sia quella che è, di amare perdutamente due signore. Prima che parta un’irrefrenabile voglia di gossip, preciso che il mio non è solo un amore platonico ma, addirittura, gastronomico-platonico, una delle forme più tranquille e soddisfacenti per persone della mia età. Le due signore da me amate rispondono al nome di Susanna e Nadia e voglio subito chiarire che di loro amo non solo quello che propongono nei loro rispettivi locali ma, che le amo più adesso, dopo praticamente due anni di lockdown, di prima. Sapete perché? Perché nonostante la ristorazione di qualità sia stata mazzolata brutalmente le ho trovate ancor più motivate e nei loro piatti ho ammirato non solo la qualità di prima ma addirittura un qualcosa in più, un valore aggiunto che mi porta ora a dichiarare, urbi et orbi, il mio amore.

Susanna Tezzon a dx

Dai nomi passiamo ai cognomi e ai locali. Susanna è Susanna Tezzon ed è l’anima de Il Giardino delle Esperidi a Bardolino. Tra pizzerie e locali da turisti il suo ristorante è l’unico porto sicuro all’interno di questo bellissimo borgo. 
In tempi di lockdown Susanna e le sue amiche colleghe hanno deciso di utilizzare il bellissimo terrazzo sopra al locale per farne un piccolo (ma neanche tanto) orto. Dire orto è restrittivo perché oltre a molte verdure (coltivate dentro a piccole piscine di gomma colme di terra fertile) in questo piccolo eden troviamo frutti, spezie, erbe officinali e piante di fiori. È un luogo dove puoi entrare solo se Susanna vuole e per fortuna ha voluto farci il dono di servirci due piatti contornati dalle sue piante. 


Il piatto di cui voglio parlare è di una semplicità assoluta: potrei pomposamente chiamarlo “assieme vegetale di multicolori aromi e gusti miscelati con briosa maestria” ma forse è meglio se lo chiama semplicemente “insalata”. Un insieme di erbe di stagione, insalatine, fiori e frutti, che mi ha letteralmente messo ko dal piacere. Infatti, ogni piccolo boccone era un insieme di sapori e gusti diversi che cambiavano e si moltiplicavano mentre si muovevano nel palato. Era come avere in bocca un caleidoscopio del gusto di cui non potevi sapere la “prossima mossa”. Vi garantisco, una delle cose più complesse e saporite mai mangiata in vita mia ed era “solo” un’insalatina. 
La cena poi ha avuto molti altri piatti e molti vini, perché da Susanna, oltre che mangiare bene si bevono grandi vini italiani ma soprattutto esteri (Champagne in primis) proposti a prezzi irrisori, ma il resto dovrete scoprirlo da soli.


Da Bardolino a Valeggio: Valeggio vuol dire tortellino e
Alla Borsa, praticamente da sempre, si mangiano i migliori tortellini di Valeggio e probabilmente del mondo. Una specie di ombelico del mondo del tortellino che il post-covid ha reso ancor più piacevole da visitare. Alla Borsa si amano i toni soffusi sia nelle bianche ed eleganti sale interne che nella colorata “terrazza a piano terra”, d’estate preferita da molti. Nadia Pasquali, figlia d’arte (i genitori sono sempre presenti ma è lei il fulcro di tutto) propone una serie di piatti che un essere umano non può non provare, ma naturalmente il meglio del meglio è il tris di tortellini e cioè il classico di carne, il tortello di zucca e i tortelli verdi di ricotta e spinaci.

Nadia Pasquali

La prima cosa che colpisce in questo godurioso trittico è lo spessore della pasta: quasi inesistente ma concreto, saporito e giustamente cedevole al palato, esalta i gusti del ripieno e i condimenti (di solito burro, ma potete osare con il leggero ragù che vi proporranno). Anche i ripieni delle tre specialità sono gustosi giochi d’equilibrio, dove il dolce della zucca è bilanciato perfettamente, l’impasto del tortellino è soffuso ma intenso e ricotta e spinaci si rincorrono e si fondono. Qui, come dalla Susanna, si arriva ad una goduria e soddisfazione praticamente infinita. Voi direte che a far tortellini son buoni tutti e prima che Dio scenda in terra per punirvi di per punirvi di questa bestemmia vi salvo io, affermando che la base di tutto il lavoro di Nadia (lo dice lei, quindi sono sicuro) è una grande e raffinata artigianalità, che porta a produrre, giorno dopo giorno, una qualità alta e costante. 


Potrei parlare di molti altri ottimi piatti, della carta dei vini semplice ma completa, della bravura “dell’artigiana Nadia” nell’essere ovunque, presente e attenta ai desideri dei clienti, ma voglio fermarmi per non violare la “la par condicio di questo articolo” parlando di più di uno dei mie amori platonico-gastronomici, entrambi con un carattere di ferro e una voglia di continuare a stupire gli altri e loro stesse.


Due locali diversi, più a tinte forti il Giardino delle Esperidi, più puntato su tonalità pastello la Borsa. Due cucine diverse, la prima rivolta a piatti anche innovativi e particolari, l’altra figlia di una tradizione di altissimo profilo. Due donne diverse ma dotate di una forza e di una bravura da standing ovation.

Avanti, prenotate, che aspettate? Non sono geloso!

Lo Champagne Sovietico ovvero genesi e caratteristiche del Sovetskoe šampanskoye

Negli anni '30, una catastrofica carestia attraversò l'Unione Sovietica. Il caos derivante alla collettivizzazione delle terre, combinato ai cattivi raccolti dell’epoca e alle brutali politiche socio-economiche introdotte da Stalin, devastò le regioni di coltivazione del grano del Paese. 
Milioni di persone morirono di fame e i cadaveri si accumularono lungo i binari e le strade, riempiendo l'aria con l'odore aspro della decomposizione. Orde di contadini affamati vagavano per la campagne alla disperata ricerca di lavoro e di qualsiasi cosa lontanamente commestibile: pannocchie, ghiande, erba, gatti, cani e, orribilmente, anche l'un l'altro.

Credit: noi comunisti

Solo tre anni dopo, mentre le necessità di base erano ancora scarse, il Cremlino rivolse la sua attenzione ad un'altra "carenza": la mancanza di Champagne. Nel 1936, il governo sovietico, per ovviare a questo "problema", approvò una risoluzione per aumentare drasticamente la produzione di spumante locale, stabilendo un ambizioso obiettivo di produrre milioni di bottiglie negli anni seguenti. L'idea di creare un'industria di bollicine comunista - un'impresa estremamente singolare, dato il contesto - venne in mente a Joseph Stalin, nato nella Repubblica di Georgia, sede della più antica cultura vinicola del mondo. Stalin, al tempo, proclamò che lo champagne sovietico era "un importante segno di benessere, della bella vita" che il socialismo avrebbe messo a disposizione di tutti, molto lontano dalla semplice promessa di Lenin di "pane e pace".


La spinta a stappare un mare di champagne arrivò solo un anno, nel 1935, a seguito dell’abolizione delle tessere di razionamento. Nel disperato tentativo di dimostrare che l'Unione Sovietica avesse più da offrire della privazione e della persecuzione, il governo lanciò uno sforzo importante per produrre in serie e democratizzare champagne ed altri prodotti di fascia alta. "L'idea era di rendere disponibili cose come champagne, cioccolato e caviale a un prezzo piuttosto basso in modo da poter dire che il nuovo lavoratore sovietico viveva come gli aristocratici nel vecchio mondo", spiega Jukka Gronow, autrice di Caviar with Champagne: Il lusso comune e gli ideali della buona vita nella Russia di Stalin.


Ma prima che il proletariato potesse stappare queste prestigiose bottiglie, i viticoltori avevano la necessità di coltivare l’uva e produrre il vino base a basso costo. 
Come risolvere il problema? La risposta arrivò dall'enologo Anton Frolov-Bagreyev, che ovviò al più lungo e complesso metodo champenoise attraverso l’introduzione di serbatoi pressurizzati (metodo charmat) che avevano la funzione di condensare il processo di maturazione di tre anni in un mese permettendo di produrre lotti da 5.000 a 10.000 litri alla volta.

Anton Frolov-Bagreyev

Inoltre, per trasformare in realtà la scintillante retorica di Stalin, il governo sovietico, attraverso una serie di leggi, ordinò immediatamente la costruzione di nuovi vigneti, fabbriche e magazzini, nonché il reclutamento e la formazione di migliaia di nuovi lavoratori. Obiettivo ufficiale? Arrivare alle produzione di 12 milioni di bottiglie entro il 1942


Le cose, purtroppo, non andarono come Stalin sperava. Lo stato dei vigneti dell’epoca, abbandonati o distrutti a favore di altre colture, resero impossibile raggiungere gli obiettivi di produzione. "Le proiezioni non sono mai state realistiche, ma se le fabbriche non le rispettavano, le persone che ci lavoravano o le gestivano potevano essere etichettate come nemiche del popolo e cancellate", spiega Darra Goldstein, studiosa del cibo e autrice del prossimo libro di cucina Oltre il vento del nord: la Russia in ricette e tradizioni. 
Quando la cantina Abrau-Durso, sulla costa russa del Mar Nero, non fu all'altezza delle aspettative, il quotidiano sovietico Izobilie mise in dubbio la lealtà del direttore e suggerì che la cantina "fosse liberata dai nemici di classe".


La produzione di champagne sovietico, comunque, andò avanti dando evidentemente la priorità alla quantità rispetto alla qualità. I pochi vignaioli dell’epoca eliminarono dai loro vigneti acri di uve autoctone sostituendole con varietà durevoli e ad alto rendimento come aligoté e chardonnay. Grandi fabbriche centralizzate trasformavano l'uva da tutta la regione e inviavano la miscela di vino sfuso a enormi impianti di produzione che sfornavano migliaia di bottiglie all'ora usando il metodo chiamato “Frolov-Bagreyev”. Era nato lo Sovetskoye Shampanskoye, uno spumante dolce e sciropposo perché si usavano grandi quantità di zucchero per mascherare l’acidità del vino base e la sua scarsa qualità. Alla fine del decennio, lo Sovetskoye Shampanskoye era ampiamente disponibile a Mosca e in altre grandi città, offerto alla spina nei negozi. Più tardi, negli anni '50, fu venduto anche al bicchiere allo stadio Lenin. "Nonostante il gusto e il fatto che rimase troppo costoso per il consumo quotidiano, divenne un simbolo di tutte le celebrazioni sovietiche", continua Gronow. "Era la “Coca-Cola dell’Unione”, lo bevevi ed era come fare la bella vita".


Oggi, grazie anche ritorno della nostalgia sovietica nella Russia moderna, la domanda di Sovetskoye Shampanskoye è di nuovo in aumento ed ora il vino è prodotto da società private e spesso lo si può trovare all’interno dei tanti ristoranti che evocano le vecchie mense comuniste. Se passate per Mosca, e se lo trovare, fatemi sapere com’è. Io, probabilmente, una idea me la sono già fatta...

InvecchiatIGP: Antolini - Valpolicella Classico 2007


di Roberto Giuliani

Non è un Amarone, non è un Valpolicella Classico Superiore Ripasso, non è neanche un Valpolicella Classico Superiore. Quello nel calice è un “semplice” Valpolicella Classico 2007 (Classico perché le uve provengono dagli appezzamenti di Marano e Negrar), chiuso con tappo sintetico e destinato solitamente al consumo entro 2-3 anni. Probabilmente Pier Paolo e Stefano Antolini non sanno fino a che punto possa tenere un vino del genere, a meno che non abbiano avuto il pensiero di conservarne in cantina un certo numero di bottiglie per pura curiosità. Io l’ho fatto e ora posso dire che ci fa una gran bella figura, con i suoi 12,5 gradi alcolici e un uvaggio classicissimo di corvina, corvinone e rondinella, dimostrando che quando si raccolgono buone uve e non si fanno errori in cantina, le sorprese possono essere decisamente piacevoli.


Ora è ovvio che non mi trovo davanti un vino dove la freschezza di frutto può essere quella di quando è stato messo in vendita, ma a 14 anni dalla vendemmia non possiamo pretendere miracoli; eppure non solo non è morto ma quel frutto ha mantenuto integrità, non c’è ossidazione bensì una naturale maturità, evidenziata nella confettura di ciliegie e amarene, nelle sfumature di tabacco e fiori appassiti, nel timbro terroso e di sottobosco.


Al gusto conserva ancora una buona vena acida, la frutta composita è accompagnata da piacevoli espressioni speziate di pepe e cardamomo, è diventato un Valpolicella adulto, più profondo e complesso, con una dolcezza di frutto davvero piacevole. Una inattesa sorpresa.

Francesco Guccione - Vino Bianco "T"


di Roberto Giuliani

Legno grande e acciaio, 100% Trebbiano (presente in Contrada Cerasa a Monreale dal 1400) ha il potere di farsi bere tutto senza alcuna conseguenza. 


Tiglio, gelsomino, ginestra, pesca, susina, albicocca, buonissimo ma anche digeribilissimo, tanto da non essermi accorto di averlo terminato a fine pasto.

A Cervara di Roma con il Montepulciano d'Abruzzo DOC Riserva "28 Quintali" di Lampato che...pesa troppo!


di Roberto Giuliani

Ormai è sempre più frequente dovere fare i conti con estati torride, punte di caldo estreme che ti tolgono le forze e ti spingerebbero a stare chiuso in casa con l’aria condizionata a palla. Io dal lontano 2003, quando non ne posso più di sudare e squagliarmi sul pavimento, scelgo una meta “alta” non lontanissima per riprendermi da cotanto calore. Proprio pochi giorni fa, quando la temperatura indicava 37 gradi alle 11 del mattino, ho deciso con mia moglie di intraprendere quel viaggio; la meta scelta, già conosciuta ma da tempo non più visitata, era Cervara di Roma, che a dispetto della distanza è in provincia di… Roma. E già, sono ben 71,5 km partendo dalla Stazione Termini, ma da casa mia a Fiano Romano sono ancora di più, 86,3 km! Ma pur di trovare sollievo da ‘sta calura non ci abbiamo pensato due volte, Cervara è a quota 1.053 metri, è il più alto comune della provincia e il secondo del Lazio dopo Filettino, un pochino meglio si starà…

Cervara di Roma - Foto: Siviaggia.it

E in effetti, mentre alle 12,15 passeggiavamo per le stradine di questo bellissimo borgo, la temperatura era al di sotto dei 30 gradi, speravamo ancora meno, ma il venticello e un’aria decisamente più pulita hanno contribuito a non farcela percepire in peggio. Ovviamente Cervara non è solo fresco, ma è anche un bellissimo borgo collocato all’ingresso del Parco Naturale Regionale dei Monti Simbruini, la più grande area protetta della regione; così bello da essere stato ritratto da numerosi artisti nel corso dei secoli, compreso quel Samuel Morse che inventò il famoso codice.

Parco Regionale Monti Simbruini

Passeggiando tra le stradine del paese ci si trova spesso di fronte a dipinti, oltre ad ampie vedute panoramiche, certo bisogna avere una buona muscolatura perché dall’area di parcheggio ci sono da fare numerose rampe di scale e anche tra un vicolo e l’altro è frequente trovare altri gradini da fare. Poco prima di arrivare in cima dove risiede la Rocca, c’è la chiesa principale, Maria Santissima della Visitazione, dove gran parte dei 450 paesani va in preghiera.


Per pranzare si può andare al ristorante Ferrari, proprio nel centro del paese, oppure a circa 4 chilometri c’è la Locanda di Fonte Martino, che è quella che abbiamo scelto noi, anche perché volevamo stare in un ambiente immerso nel bosco. 
La scelta è stata ottima, il posto è veramente un’oasi di tranquillità, con una bella terrazza con tavoli ben distanziati e intorno tutto bosco. Fra l’altro non mi aspettavo una più che buona carta dei vini, tenendo conto che l’ambiente è quello tipico di una trattoria. 


Il proprietario ci tiene alla qualità, le materie prime sono ottime e cucinate molto bene, tra antipasti, primi e secondi ho trovato un’ottima misura, mai un piatto pesante, oleoso, ogni portata si è rivelata equilibrata e digeribile. La tagliata di manzo è uno spettacolo, alta e tenerissima, vale la pena andarci solo per questo, anche perché qui si fa tutto con la brace vera, lo dimostrano i peperoni buonissimi che abbiamo preso per contorno.


Nella scelta dei vini non potevo che orientarmi verso quelli più vicini al territorio, perché anche se siamo in provincia di Roma qui si respira aria d’Abruzzo; così, da una buona sequenza di Montepulciano ho scelto la Riserva 28 Quintali 2013 di Lampato, in edizione limitata. In breve, l’azienda nasce nel 2009 nel comune di Castellana di Pianella (PE) dalla coppia nella vita Morena Lamonaca e Tommaso Patricelli (dai loro cognomi il nome Lampato), ambedue già proprietari di una propria azienda agricola, le cui uve venivano conferite alla Cantina Tollo.


A dirla tutta Tommaso prima delle uve trattava le prugne, era uno dei principali produttori del centro Italia e serviva la grande distribuzione. Poi le cose sono cambiate, fuori e dentro, Tommaso si è trovato di fronte a un bivio e ha scelto di abbandonare il mercato ortofrutticolo e puntare alla produzione d’uva. Nel 2009, con Morena, ha finalmente fatto il salto definitivo con un’azienda nuova in grado di seguire l’intera filiera produttiva, non solo, l’impostazione è andata subito in direzione del biologico e dell’autonomia energetica, coprendo il tetto aziendale con pannelli fotovoltaici.


Il 28 Quintali è un Montepulciano d’Abruzzo Riserva, classe 2013, diciotto mesi in barrique e oltre un anno di affinamento in bottiglia. Alla Locanda l’ho pagato 35 euro (il ricarico mi sembra più che corretto), ma sul sito aziendale viene proposto a 18 euro, davvero un prezzo eccellente. Ha profumi intensi di marasca, prugna, mora di rovo, ciliegia in confettura, cacao, tabacco, liquirizia, mosto, leggera vaniglia.


Bocca con giusta freschezza e un’alcolicità importante ma ben coperta da una struttura energica, ancora qualche venatura boisé ma non disturba, c’è tanto materiale espressivo che bilancia bene anche nel lungo finale. Un ottimo vino insomma, ma con una pecca, veramente sempre meno giustificabile: la bottiglia pesa troppo! 1208 grammi sono davvero fuori misura, perché usare una bottiglia del genere? Da un’azienda che lavora in biologico e ha un occhio per l’ambiente una scelta del genere non me l’aspetto proprio! 
Cari Tommaso e Morena, non è più tempo di bottiglie pesanti per simboleggiare la grandezza di un vino, quello che conta è cosa c’è dentro e, tutt’al più si può giocare con la scelta del formato e con un’etichetta accattivante, il resto è davvero di troppo.

InvecchiatIGP: La Scolca, Gavi dei Gavi Etichetta Nera 2013


di Andrea Petrini

Mio cugino Vittorio Soldati fa, nientemeno, il Gavi della Scolca, forse il migliore di tutti i Cortese... Sorprendente e unico, ormai, il suo vino.. sebbene diffuso nei locali di lusso, non cede al confronto coi più collaudati bianchi di Francia... L’importante è il vino e finora non se ne può dire che bene. Mario Soldati, Vino al vino, 1969

Questa citazione, legata ad uno dei più grandi scrittori e registi italiani, un innamorato delle colline del Gavi, che descriveva come di un verde rilassante e composte da un mosaico complesso di suoli, talvolta bianchi, talvolta rossi, segna in maniera indelebile il rapporto storico tra la famiglia Soldati e questo fazzoletto di territorio, ricompreso in 11 comuni della provincia di Alessandria, visto che la tenuta è stata acquistata nel 1919 dal bisnonno di Giorgio Soldati, padre di Chiara Soldati, con l’intento di valorizzare un territorio dalle grandi potenzialità tanto che all’azienda venne dato un nome simbolico: La Scolca. Il nome dell’appezzamento, infatti, deriva dall’antico toponimo “Sfurca” ovvero “Guardare lontano” ed in questo caso il riferimento è sia esplicito, ovvero diretto alla cascina che vi sorgeva, in passato usata come postazione di vedetta, sia implicito e legato fortemente al carattere deciso dei proprietari che, convinti nelle potenzialità del vitigno cortese, hanno piantato ai primi del ‘900, in un areale fortemente segnato dalla coltivazione di vigneti a bacca rossa, un’uva a bacca bianca che oggi, dopo cento anni, è diventata simbolo di un territorio e, soprattutto, di un’azienda conosciuta in tutto il mondo.


Per avvalorare quanto scritto sopra oggi, per la rubrica InvecchiatIGP, voglio parlare dei vini più iconico e rappresentativo de La Scolca ovvero del loro Gavi dei Gavi, un cortese in purezza che l’azienda produce ben prima del riconoscimento della DOC (1974) e che rappresenta un vero e proprio marchio registrato in Europa dal 1969 e negli Stati Uniti dal 1971, meglio conosciuto come “Black Label”.
Questo Gavi dei Gavi Etichetta Nera 2013, millesimo considerato tra i più tardivi degli ultimi decenni causa inverno prolungato fino ad aprile, già dal colore, come potete vedere in foto, ha nuances cromatiche giallo paglierino tanto che alla cieca, come accaduto al sottoscritto, avrei scommesso casa che fosse l’ultima o la penultima annata messa in commercio. 


E’ al naso che il vino stupisce ed esalta il territorio e la denominazione con quella espressività mista a complessità tanto cara a Mario Soldati. Aromaticamente, infatti, ritrovo un austero rigore minerale (selce e pietra focaia) accanto a stratificazioni di anice, agrume candito, cera, mirabella, fiori gialli declinanti. 


Al sorso stupisce ulteriormente perché, accanto ad una apparente sottigliezza strutturale, è determinato, freschissimo e dura lungo nel ricordo di esaltante sapidità che riporta al vicino mare ligure.

Conti degli Azzoni – Marche IGT Rosso “Passatempo” 2015


di Andrea Petrini

Il solo pensiero del Montepulciano in purezza marchigiano affinato in barrique per almeno 18 fa presagire lo stereotipo del vino anni ‘90 buono per qualche americano in vena di barbecue. 


Col Passatempo 2015 siamo invece lontani da quei ricordi, è un pugno di ferro ma in guanti di velluto e a noi questa cosa fa impazzire dalla gioia!

Alla scoperta del Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore con sei grandi vini del territorio!


di Andrea Petrini

Con Marche Tasting, ovvero la serie di incontri on-line sui vini marchigiani organizzati dall’Istituto Marchigiano di Tutela Vini, abbiamo bissato l’incontro con il Verdicchio dei Castelli di Jesi attraverso la degustazione, stavolta, della tipologia Classico Superiore. Prima di entrare nel merito dei vini degustati, bisogna fare un passo indietro per spiegare bene quando un Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC può essere definito nella tipologia Classico Superiore.
Se leggiamo con attenzione il disciplinare di produzione, questo indica che un Verdicchio dei Castelli di Jesi può fregiarsi della menzione “Classico” se è prodotto nella zona originaria più antica di produzione che potete verificare nella cartina che segue.


La menzione "Superiore", invece, che potrebbe essere mal interpretata dai neofiti. Infatti, non sta ad indicare un vino qualitativamente migliore, ovvero superiore rispetto agli altri ma, come vale per ogni denominazione di origine italiana, rappresenta solo un riferimento ad un maggiore contenuto in alcol (in questo caso il disciplinare prevede un 11,50% di alcol min.) rispetto a quanto richiesto dal disciplinare del vino “base” che in questo caso è il Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC (10,50% alcol min.).

Sei, come al solito, i vini degustati in diretta zoom con i produttori presenti tra cui, questa volta, anche Ampelio Bucci che ci ha onorato della sua presenza.

Moncaro - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Verde Ca’ Ruptae” 2020 (100% verdicchio): da tre storici vigneti nell’area classica di produzione del Verdicchio nei comuni di Montecarotto, Serra de’ Conti e Castelplanio nasce questo vino dal profilo sensoriale ancora giovanissimo. Olfattivamente sa di mela verde, clorofilla, sbuffi vegetali e mandorla. Al gusto è coerente anche se la gioventù lo rende ancora leggermente fuori fuoco. Da aspettare.


Villa Bucci - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore 2019
(100% verdicchio): dopo aver ascoltato per qualche minuto la lectio magistralis di Ampelio Bucci sul suo Verdicchio, credetemi, è stato abbastanza difficile ritornare su questo Classico Superiore in modo da valutarlo oggettivamente e non col cuore. Questo vino, ancora con i suoi riflessi verdolini, fa emergere sensazioni di pesca, prugna gialla, biancospino, sambuco e, ormai, l’onnipresente mandorla tipica del vitigno. La vivace freschezza è assolutamente in sintonia con le morbidezze del vino che si concede anche una stuzzicante sapidità che accompagna i gradevoli ritorni di erbe aromatiche nel lungo finale.


Lucchetti - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Vigna Vittoria” 2018
(100% verdicchio): prodotto dai vecchi vigneti di proprietà (età media 30 anni) è un vino che rispecchia assolutamente la vivacità e l’estro di Paolo Lucchetti che cerca nei suoi vini autenticità e beva senza compromessi. Questo Verdicchio sa di gelsomino, camomilla, rosa gialla, mandarino e pesca con riferimenti minerali quasi salmastri. Bocca dinamica, tesa, segnata da un gioco di equilibri ben riuscito.


Socci - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Bianca” 2018
(100% verdicchio): questa piccola azienda, situata nel cuore delle Marche, a Castelplanio, ha come unico vitigno di riferimento il verdicchio e come unico vino prodotto il Verdicchio dei Castelli di Jesi che in questa versione è stato prodotto attraverso la tecnologia VINOOXJGEN, un sistema di vinificazione che impedisce il contatto del vino con l’ossigeno perché privato di ogni tipo di travaso. Il mosto, infatti, diventa vino e compie l’intera vinificazione all’interno di uno specifico recipiente fino ad andare in bottiglia. A prescindere dalla sua metodologia di produzione il vino risulta aromaticamente compatto nel suo guscio di frutta dove ritrovo il kiwi, la pesca bianca, il lampone acerbo e la mela a cui, col tempo e l’ossigenazione, si accompagnano richiami floreali di sambuco e melissa. Al palato è piacevolmente agrumato e con garbato finale di mandorla verde.


Marotti Campi - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Volo D’Autunno” 2019
(100% verdicchio): questo vino, prodotto da questa storica cantina di Morro d’Alba, è una interpretazione originale del Verdicchio dei Castelli di Jesi in quanto questo vino, dopo la vinificazione, affina per circa 6 mesi a contatto sulle sue bucce. Il risultato, ovviamente, è un Verdicchio di grande struttura e portata dimensionale, dove il cedro, l’albicocca matura, il melone, gli sbuffi salmastri e le erbe mediterranee sono assolutamente amalgamati lasciando spazio alle caratteristiche varietali del vitigno senza che queste siano offuscate dal processo di vinificazione. Al sorso è denso, di struttura ma al tempo stesso piacevolissimo e affatto pesante. Termina lunghissimo su ritorni di frutta matura e salgemma.


Stefano Antonucci - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Stefano Antonucci” 2018 (100% verdicchio): Stefano Antonucci, self –made man del vino, da sempre produce vini che, in qualche modo, riflettono il suo carattere eclettico e carismatico e questo Verdicchio, che porta tra l’altro il suo nome, non può essere da meno. Col suo affinamento di 12 mesi in barrique è un vino carezzevole, morbido e setoso nelle sue sensazioni olfattive di ginestra, erba limoncella, mandorla fresca, a cui seguono sensazioni di cedro, arancia amara e spezie gialle orientali. Il sorso è levigato, equilibrato e sorretto da spinta sapida. Chiude con esemplare tipicità gustativa di mandorla tostata.