InvecchiatIGP: Vigneti Massa - Piemonte Vino da Tavola "Timorasso Raro Vitigno" 1992


di Luciano Pignataro

Nella vita ci vuole sempre un po’ di fortuna, ed eccoci qui allora attovagliati da Gennaro Esposito alla Torre del Saracino dove il sommelier Gianni Piezzo conosce ogni spigolatura dei miei vizi nel bicchiere, a cominciare dalla passione per i bianchi invecchiati. Come ogni ristorante, Gianni tiene dei “fuori carta”, ultime bottiglie che non possono essere presentate perché magari ultime o semplicemente perché invecchiate. Questa 1992 di Walter Massa l’aveva beccata riordinando l’immensa cantina di Gennaro che negli anni ’90 ha comprato di tutto e di più testimoniando così la rivoluzione enologica italiana post metanolo, nel bene come nel male.


Walter Massa è personaggio mitico della viticultura italiana. Classe 1955, erede di una famiglia di vignaioli al lavoro dalla fine dell’800, ha l’intuizione di resuscitare un bianco minore del Basso Piemonte di cui quasi si erano perse le tracce. I suoi vini sono divenuti un riferimento assoluto, a cominciare dal Derthona, antico nome di Tortona, e dei cru Costa del Vento e Sterpi. Il software anarcoide di Walter applicato all’hardware della metodica pignoleria piemontese realizzano il miracolo, la nascita di un grande bianco ad opera di un’azienda impegnata con il Barbera in terra di grandi rossi.

Il 1992 è proprio l’anno della svolta, sono passati 30 anni da allora ma quel termine, raro vitigno, ci riporta ancora più indietro, in un’epoca in cui le etichette non erano così burocratizzate al punto di negare talvolta l’ovvio. Un vino che anticipa la vera e propria svolta del 1995, quando Walter subisce l’influenza di Gravner e inizia lavorare anche sulle macerazioni.

Che ne dici di aprire questa? E’ l’ultima”. Gianni Piezzo strizza l’occhio, io li strabuzzo e mi chiedo se, in questa giornata uggiosa riscaldata alla tavola di Gennaro e dalla compagnia di cari amici, sogno o son desto. 

Walter Massa - Foto: Il Piccolo

Tappo perfetto, il bianco color camomilla (esiste?) viene versato nei grandi calici di rosso, ovviamente a temperatura di cantina come si conviene con i bianchi invecchiati. Nonostante l’età, il vino non presenta alcun problema, niente traccia di ossidazioni e neanche di ridotto: è solo una grande esplosione di sentori di pasticceria, crosta di pane, cedro, zafferano, tè, con un naso ricco che crea aspettative dolci al palato, aspettative per nulla corrisposte: al palato il bianco esprime una energia vitalistica insospettabile, straordinaria, assolutamente secco, composto, pulito. Un vino “non disunito” (cit.) ma assolutamente coerente sino al finale lungo ed esaltante che lascia il palato assolutamente appagato e pulito. 

Grappolo di Timorasso

Abbiamo ancora bisogno di scrivere quanto siano sottovalutati i vini bianchi in Italia?  Ad ogni modo questa beva sancisce a immortalità del Timorasso e dunque non c’è limite alcuno alla longevità dei vini di Walter.  La bottiglia? Due bicchieri per unno ed è bella che finita, e neanche un Biondi Santi 1998 ne ha cancellato il ricordo emozionante.

Castellare di Castellina - I Sodi di S. Niccolò 2014


di Luciano Pignataro

Un grande classico italiano, sangiovese e malvasia nera in grado di esprimere eleganza assoluta, precisione e pulizia olfattiva, grande freschezza e frutta croccante al palato, chiusura lunghissima e perfetta che lascia  una struggente voglia di far subito un nuovo sorso. 


I Sodi di S. Niccolò è un rosso che non tradisce le aspettative, buono subito, migliore con il tempo.

Mastroberardino - Greco di Tufo DOCG "Stilèma" 2017


di Luciano Pignataro

Stilema: le parole sono importanti, le parole sono importanti, urla Nanni Moretti in Palombella Rossa dopo aver dato il ceffone alla giornalista che fa domande usando vocaboli mandati a memoria e privi del loro significato vero, profondo. Le parole e la precisione del linguaggio sono sempre più importanti adesso che stiamo entrando nella società dei segni che apre le porte al potere di una nuova generazione di scribi nascosti dietro una finta democratizzazione del sapere semplificato. 


Stilèma indica un elemento di stile che caratterizza uno scrittore, o anche una scuola o un’epoca letteraria ci ricorda la Treccani. In enologia, possiamo dire che ogni cantina dovrebbe avere il proprio stilèma, a prescindere dal mantra del territorio, del vitigno, dei protocolli usati. O meglio, uno stilèma che nasce dal giusto equilibrio ricavato dall’insieme di questi elementi. Lo Stilèma della Mastroberardino prende forma quando l’azienda era l’unica grande cantina in Irpinia, tra le poche in Campania. I vini nascevano dalla selezione delle migliori uve e la bravura dell’enologo era anche il frutto della capacità degli intermediatori di scovare le migliori partite di uve al miglior prezzo possibile. Un lavoro che è sempre stato fatto con scrupolo, come dimostrano non solo le grandi verticali di Taurasi fatte negli ultimi anni, ma anche da quelle antiche bottiglie di bianco, Fiano e Greco soprattutto, degli anni ’70 e ’80 scovate in questa e quella cantina, anche private. Il risultato è sempre stato eccelso. Nasce in quegli anni lo Stilèma Mastroberardino per i bianchi, un po’ prima per il Taurasi, ossia di vini ben caratterizzati ma discreti, capaci di attendere nel bicchiere la curiosità del naso del degustatore invece di imporsi.

Antonio Mastroberardino - Foto: Ildenaro.it

Il progetto è chiaramente dedicato ad Antonio Mastroberardino, l’uomo che ha imposto il benchmark aziendale a tutto il comprensorio: «Il progetto Stilèma nasce a testimonianza dell’amore di Antonio Mastroberardino per la sua terra, i suoi vitigni e i suoi vini, per i loro caratteri originari – scrive il figlio Piero - Un progetto avviato a cavallo del Duemila, con una serie di traiettorie sperimentali che partono da cloni selezionati in vigneti prefillossera e giunge sino a una ricognizione dei protocolli di lavoro, in vigna e in cantina, relativi ai momenti in cui i vini irpini maggiormente si sono affermati come punta dell’iceberg di un processo di rinascimento e di rilancio della viticoltura del nostro Paese". 

Quel programma si è negli ultimi anni aperto a ventaglio, ponendo su un’unica mappa una serie di iniziative volte a rinsaldare il legame dei nostri vitigni e vini con le loro origini territoriali. Si è così declinato in un più ampio spettro di iniziative, tutte ricadenti sotto la denominazione Stilèma. Il riferimento di partenza è il Taurasi degli anni ’50-70 mentre per i due bianchi siamo negli anni 70-89.  Cambiano gli anni, oggi l’azienda possiede oltre 250 ettari, ma la voglia di trovare un gancio con il passato ha prodotto questo progetto che non è altro che una accurata selezione di uve, stavolta di proprietà, lasciate riposare più a lungo rispetto all’epoca in cui i bianchi di annata doveva essere pronti per la Vigilia di Natale nella regione dove il consumo di pesce è il più alto in Italia.


Il risultato di questa selezione, coniugata ovviamente allo sviluppo delle tecniche che hanno contribuito ad affinare i protocolli è alla base del progetto Stilema legato alle diverse docg partito nel 2015 con il Fiano di Avellino, immediatamente salutato con gioia dalla critica specializzata. Stilèma torna al vecchio concetto da cui si era partiti, ossia mettere insieme le migliori uve dei diversi areali con metodi che puntano alla essenzialità del gusto senza concentrazioni e surmaturazioni, ossia senza effetti speciali. Lavorare su diversi areali dello stesso territorio presenta vantaggi immensi sia sulla qualità finale del prodotto sia sulla sua affidabilità: l’Irpinia, come tutte le zone vitivinicole di collina, è un insieme di microclimi molto diversi fra loro per la natura del terreno, l’esposizione dei vigneti, l’effetto dei venti del Terminio e del Partenio e per l’altezza che varia dai 300 ai 650 metri circa. Quando va bene ad una vigna può andare male in un’altra ed ecco qui che il fattore umano, ossia il ruolo dell’enologo che appronta il blend finale, diventa centrale. 

Piero Mastroberardino

Il Greco di Tufo 2017, provato a febbraio scorso e riprovato a novembre durate una cena di Gennaro Esposito realizzata nella tenuta aziendale Morabianca a Mirabella Eclano. L’esecuzione della DOCG più piccola, ristretta solo a otto comuni, è apparentemente la più facile perché l’uva è molto ben caratterizzata da tratti sulfurei anche sin dai primi mesi, ma anche in questo caso l’enologo Massimo Di Rienzo ha imposto lo Stilèma Mastroberardino: a distanza di quattro anni dalla vendemmia il vino appare in perfetto equilibrio, l’acidità agrumata la fa ancora da padrona anche al naso, ma in un contesto appena accennato di note fumé e di frutta gialla, pesca soprattutto. Al palato il Greco rivela tutto il suo carattere ostinato, un rosso travestito, che ne fa un grande bianco gastronomico in grado di accompagnare i piatti più complessi. Strutturati senza problemi.


I vigneti sono a Montefusco, Petruro e ovviamente a Tufo con una resa di 70-80 quintali per ettaro. Dopo la fermentazione il vino sosta per un anno e mezzo sulle fecce in acciaio. Il blend finale prevede il 7 per cento circa di Greco maturato in barrique di secondo passaggio. Poi un anno di bottiglia. Insomma un processo lungo che regala una delle migliori interpretazioni di sempre di questo vitigno.

Bevetene ma conservatene anche, per un bella verticale da qui a dieci anni. Dieci? Facciamo venti!

E' morto Lino Maga, il Siur Barbacarlo, e con lui se ne va anche un pezzo di storia di lotta contadina italiana

Sono passato a trovarlo anni fa. I suoi silenzi carichi di significato e la sua immancabile sigaretta ancora me li ricordo come fosse ieri. Sono stato con lui mezza giornata, non aveva grande voglia di parlare quel giorno, è come se fosse stato stufo di raccontare per l'ennesima volta le sue battaglie per la tutela del nome Barbacarlo e per una viticoltura che non si rispecchiava più, da anni, nel suo modo di vedere le cose.

"Una volta in campagna si cantava, oggi hanno tolto il sorriso ai viticoltori, gli han piazzato lì un sacco di burocrazia e preferiscono conferire a dei soggetti che continuano a tenere bassi i prezzi delle nostre uve e dei nostri vini. Le nostre terre non valgono più niente....".

Il suo messaggio in questo bellissimo video è il suo manifesto politico che, probabilmente, morirà con lui. Addio Maestro.



InvecchiatIGP: Giovanni Dri - Il Roncat 1990


di Carlo Macchi

Per il primo giorno dell’anno una bella storia che affonda le sue radici nel tempo e un vino incredibile che nasce da questa storia. Siamo a Ramandolo, nella zona più a nord dei Colli Orientali, oggi famosa soprattutto per il vino che porta il nome del paese.


Giovanni Dri era un giovane produttore, particolarmente affezionato alla vecchia vigna che aveva dietro casa dove, accanto al refosco (secondo Giovanni non dal peduncolo rosso), c’erano tante uve che potremmo definire “particolari”, come il refoscone, il franconia che piaceva tanto a suo padre, il corvino (parente della corvina veronese) e addirittura qualche vite di lambrusco maestri.


Da questa vigna a partire dai primi anni ’80 veniva prodotto e imbottigliato il Roncat Rosso. Per Giovanni l’annata 1985 fu eccezionale, tanto che vinse anche dei premi, ma anche la 1990 non fu certo da meno.

Giovanni e Stefania Dri

In effetti il vino veniva prodotto solo nelle annate migliori, anche perché il clima in quegli anni era molto diverso da oggi, più fresco e probabilmente anche più piovoso. Anche la vendemmia era diversa: si raccoglieva dopo la metà di ottobre tutte le uve assieme, perché allora il concetto di maturità fenolica era sconosciuto: quindi magari il refosco era maturo ma le altre potevano essere anche indietro (o troppo avanti) con la maturazione. Si raccoglieva tutto assieme ma poi in cantina veniva fatta una selezione fortissima e tanti grappoli venivano scartati. Giovanni per il Roncat rosso comprò le prime barrique della sua vita e quindi il Roncat 1990 è un vino figlio del passato in vigna e del futuro in cantina.


Il passato è talmente passato che quella vigna oggi non esiste più, essendo stata spiantata alla metà degli anni ’90 e ripiantata con uve per produrre il Ramandolo. Il Roncat oggi viene fatto da altre vigne, sempre con il refosco (ma dal peduncolo rosso) e con un po’ di schioppettino, cabernet sauvignon e merlot. Tutta questa bella storia me l’ha raccontata Giovanni Dri dopo che dagli abissi della mia cantina era uscita una bottiglia di Roncat 1990. L’ho aperta con non molte aspettative viste le condizioni dell’etichetta ma appena versato il primo goccio nel bicchiere mi sono dovuto ricredere, eccome!


Il colore era sempre rubino brillante, con un lievissimo riflesso aranciato. Appena versato subito sono letteralmente schizzate fuori delle intense ma godibili note vegetali molto giovanili, per essere soppiantate in poco tempo da cassis, china, ribes e lampone. Tanta frutta così in un vino di oltre trent’anni è quasi un miracolo. Poi i profumi hanno virato verso note balsamiche e anche leggermente fumè, per non parlare di importanti sentori di menta e terra bagnata.
Un naso incredibile: non solo giovane ma integro e complesso, indubbiamente inaspettato per ampiezza e gamme aromatiche.


Ma non è finita qui. Sin dal primo sorso il vino ha mostrato un’acidità importante ma perfettamente fusa con il corpo (i climi freddi o freschi di quegli anni hanno lasciato il segno) , dove dei tannini ora vellutati si allargano con dolcezza , ti rendono il palato come velluto e poi accompagnano verso un lunghissimo finale, che porta con sé anche una notevole sapidità. Un vino assolutamente sorprendente, che parla di una viticoltura antica e diversa che però, “vino alla mano”, lo ha portato fino ad oggi in perfette condizioni.


Il mio augurio per il nuovo anno è semplice . Spero che troviate nella vostra riserva di bottiglie un vino buono come questo Roncat 1990 e ve lo godiate, come ho fatto io.

A proposito, lo sapete che Roncat vuol dire “terreno molto ripido e quindi difficile da lavorare”? Sicuramente sarà stato (e sarà) difficile da lavorare ma sarà altrettanto difficile che io possa scordarmi questo incredibile vino.

Bulichella - Costa Toscana Vermentino IGT 2020 "Tuscanio"


di Carlo Macchi 

Siamo in Val di Cornia, terra di rossi, ma questo Vermentino fa capire quanto possa e potrà dare questo vitigno. Aromi intensi e fini, sapidità, corpo, freschezza e ottime possibilità di maturare almeno 6-8 anni. 


Inoltre non capita spesso un’etichetta cos
i toccante e particolare, proprio come il vino che presenta.

I tanti volti dell'Assyrtiko, il vitigno più interessante della Grecia


di Carlo Macchi

Chi di voi ha assaggiato in una giornata almeno 16 Assyrtiko provenienti da varie zone della Grecia alzi la mano!

Non credo che molti alzeranno la manina ma tra questi ci saranno sicuramente un bel numero di redattori di Winesurf, tra cui il sottoscritto, che come “regalo di Natale” si sono concessi una degustazione che definire sorprendente è dir poco. Tutto merito del nostro “uomo ad Atene” Haris Papandreou, che da tempo scalpitava per raccoglierci attorno ad un tavolo e farci scoprire questi vini.


Devo ammettere che (come credo molti altri italiani amanti del vino) soffrivo di un spocchioso superiority complex nei riguardi dei vini greci, considerati nella migliore delle ipotesi come figli di una viticoltura che sta risorgendo e/o sta cercando una sua strada. Nella mia testa giravano immagini di Retsina bevute sotto un implacabile sole estivo, di vini grossi, rustici, forse anche approssimativi.


Lo so, sbagliavo! Una prima parte di questo complesso di superiorità l’ho dismessa il 25 settembre scorso con il primo Wine Greek Day e la parte residua il 13 dicembre, quando Haris ci ha organizzato questa degustazione che ha lasciato me e tanta redazione di Winesurf a bocca aperta.

In pista 16 Assyrtiko, soprattutto del 2018, con alcuni campioni del 2019 e 2020.


La degustazione, guidata in maniera perfetta da Haris, era divisa in quattro parti, ognuna con quattro vini. La prima riguardava gli Assyrtiko prodotti fuori Santorini, la seconda quelli nati sull’isola, la terza si incentrava sul rapporto con il legno di questo vitigno e la quarta proponeva quelli che in Grecia vengono considerati gli Assyrtiko più buoni e più famosi.

L’uva è il relativo vino nascono a Santorini ma oramai vengono coltivate in varie zone della Grecia, specie nel nord del paese. I primi quattro vini, due del 2019 e due del 2018 sono stati per me un ‘assoluta sorpresa. Intanto non mi aspettavo quattro vinificazioni impeccabili, ma non ero preparato anche a quattro bianchi dai bei nasi floreali, che nei 2018 virava verso fini note di pietra focaia, ma soprattutto non mi immaginavo l’estrema e succosa sapidità di questi vini che si sposa ad un corpo per niente semplice, arrivando a lunghezze gustative notevoli.


La stessa cosa è avvenuta con tre dei quattro Assyrtiko di Santorini (uno purtroppo era un “naturale” fermentato in anfora, di colore arancio scarico e con un naso ossidato e improponibile, proprio come diversa roba nostrana) ma con un particolare in più: la ben riconoscibile aromaticità dei vini, che avevano note di pietra focaia e lievissimi sentori di idrocarburo, il tutto con una sapidità che sposava una gustosa rotondità e una importante e calda pienezza.


Il terzo gruppo era quello volutamente più a rischio, ma anche qui tre vini su quattro hanno mostrato che si può (se proprio si vuole…) usare il legno senza coprire le caratteristiche del vitigno. La domanda è perché usare legno per un vino che sinceramente non ne ha bisogno, ma così siamo riusciti a capire che anche nell’uso di questo strumento di cantina i produttori greci hanno ben poco da imparare. Ce lo hanno confermato con i quattro “vini top” indubbiamente ottimi ma forse più impegnati a mostrare la bravura del produttore che non tutte le caratteristiche del vitigno.

Ma a quale vitigno bianco italiano assomiglia l’assyrtiko? Ce lo siamo chiesti per tutta la degustazione e sono venute fuori alcune “scuole di pensiero”. Tralasciando lo scontato ma assolutamente non proponibile paragone con il Riesling , la prima lo vede simile al Vermentino, più di Luni che sardo, altri lo avvicinano al Fiano di Avellino, altri ancora al Tocai e ai Verdicchio più fini della zona di Matelica. Di certo stiamo parlando di un vino/vitigno che è ottimo da giovanissimo e può invecchiare senza problemi per ameno 6/7 anni.


Troverebbe facilmente spazio nel mercato italiano, anche se i prezzi che ci ha comunicato Haris non sono certamente bassi: si parte da una decina di euro e per diversi vini arriviamo tranquillamente vicino ai quaranta. In realtà solo una delle 14 cantine è importata in Italia ma credo che sarebbe l’ora che qualche occhiuto selezionatore e rivenditore si mobilitasse.


Forse ora vorreste sapere quali sono i vini che mi sono piaciuti di più; ve ne dico uno per gruppo, ma vi garantisco che 14 su 16 erano veramente di ottimo livello.

Alepotrypa 2018, Hatzimichalis

Santorini 2019, Akra Chryssos

Nykteri 2018, Venetsanos

Pyritis Vigne di 120 anni 2018, Artemis Karamolegos

Buon 2022 a tutti, magari brindando con un vino greco!

InvecchiatIGP: Umani Ronchi - Pelago 1995


di Roberto Giuliani

Se “marchigiano” fosse traducibile in inglese come “toscano”, potremmo chiamare il Pelago “Supermarchigian”, ma evidentemente questa regione non ha la stessa notorietà o, semplicemente, non è mai stato trovato un termine adeguato che riunisca in una sola parola quello reale di “from the Marche region”. 


Pazienza, quello che conta è che di fatto questo vino nato nel 1994 è in qualche modo figlio dei “Supertuscans”, quei vini nati al di fuori dei disciplinari affinché i loro creatori fossero liberi di produrli nella massima libertà possibile, intesa come uve e legni utilizzati, come metodi di coltivazione e vinificazione ecc. 

Sin dall’inizio, infatti, i tecnici della Umani Ronchi hanno voluto unire un’uva autoctona come il montepulciano alle internazionali più note al mondo: cabernet sauvignon e merlot.  Non solo, ma in un’epoca che ormai aveva sdoganato i piccoli legni francesi, ecco che il vino viene fatto maturare in barrique nuove per 14 mesi. 
E grazie alla spinta data dal premio ottenuto all’International Wine Challenge di Londra nel 1997, il Pelago era divenuto uno dei vini più ambiti e quotati in quel periodo. Oggi è ancora nella gamma aziendale, sempre 14 mesi in barrique, sempre un assemblaggio di quelle tre uve, segno che la formula era decisamente azzeccata e non ha perso smalto. 


Ma, domandina che esce spesso nei social fra appassionati: i Supertuscans (e similari) sono capaci di durare nel tempo? E se sì, quanto? O sono solo vini per le guide, piacioni subito e spenti dopo pochi anni? 

Bene, stappiamo questo 1995 (26 anni dalla vendemmia), seconda annata uscita, rigorosamente conservato in cantina condizionata a 12 gradi – a dirla tutta avevo aperto il 1996, sulla carta decisamente migliore, ma purtroppo l’odioso TCA lo ha rovinato - e vediamo come si presenta. 

Intanto il tappo è in condizioni perfette, meglio di qualsiasi previsione possibile. Il colore è un granata intenso con unghia ancora piuttosto compatta, appena tendente all’aranciato-mattonato. Bene. 

Veniamo al profumo. Intanto devo dire con stupore che appena aperto non ha dato segni evidenti di riduzione, come sarebbe stato lecito aspettarsi. Ottimo. 


Entriamo nel vivo: una nota vegetale aleggia nella fase iniziale, poi si schiude a note di humus, cuoio, prugna secca, ematite, tabacco, grafite, terra umida. Col passare dei minuti si “rinfresca”, sembra ringiovanire sempre di più, la componente terziaria e matura regredisce a favore del frutto e di spezie dolci, ma nel complesso il vino sta più che bene, non si spegne, continua a muoversi. 

L’assaggio è rincuorante, l’acidità c’è ancora ed evita prevedibili derive surmature, il profilo è equilibratissimo, sapido, avvolgente, non cede, se devo fare un’osservazione è nell’eleganza, che non è il suo punto di forza, ma caspita, è buonissimo e alla cieca non gli daresti più di 6-8 anni! 

Bene, in questo caso, abbiamo sfatato alcuni luoghi comuni… 

Lo Sparviere: Franciacorta Brut Satèn 2017


di Roberto Giuliani

Dal gruppo Beretta, proprietario dell’azienda di Monticelli Brusati, arriva questo chardonnay in purezza affinato sui lieviti per 2 anni, dai profumi floreali, di agrumi, frutta esotica e pasticceria, fresco e gradevole al palato, cremoso, con un finale che ricorda il frutto della passione. Prezzo invitante!


Blasi - IGT Umbria Passito "Mammamia" 2008


di Roberto Giuliani

Nonostante in Umbria ci siano zone ben più gettonate per la produzione di vino, a Umbertide c’è un’azienda che merita assoluta attenzione: quella della famiglia Blasi. Questo comune in provincia di Perugia rientra nella DOC Colli Altotiberini, una delle meno note della regione, ma questo non è rilevante, Didi e Mauro Blasi hanno scelto di impiantare vigneti nel 2009 (oggi sono oltre 30 ettari) e di costruire una cantina di vinificazione moderna, affiancandola a quella situata nei sotterranei del Palazzo dei Conti Bertanzi risalente al 1742, dove i vini vengono posti a maturare in legno. 


Oggi è Michele, quarta generazione, che cura tutta la produzione vitivinicola, ma qui non si fa solo vino! Ci sono altre attività che non sono meno degne di essere conosciute, infatti in famiglia ognuno ha il suo ruolo, poiché l’ospitalità e l’accoglienza sono fondamentali e imprescindibili. Infatti chiunque abbia la fortunata occasione di passare da loro, oltre ad assaggiare ottimi vini, potrà soffermarsi ad apprezzare i prodotti della loro norcineria, in particolare Didi Blasi (nonno di Michele) è un maestro nella produzione della porchetta (ottenuta dai propri maiali), vi assicuro che è una delle più buone che abbia mangiato! 


Ma veniamo a questo sorprendente Passito dal nome inequivocabile “Mammamia”, ottenuto da un blend di malvasia al 50%, sémillon 30% e chenin blanc 20%, appassite sui graticci da metà settembre ai primi di marzo. Fino a prima del 2009 era l’unico vino prodotto, ottenuto da poche vecchie piante esistenti nella tenuta.  La fermentazione si svolge in acciaio a temperatura controllata e dura circa 20-25 giorni, successivamente il vino viene trasferito in caratelli dove rimarrà per ben 10 anni. Seguirà un affinamento in bottiglia per circa un anno. 

Il nome dato al vino da Michele è un chiaro omaggio alla mamma Anna, ma è anche l’esclamazione che molti appassionati fanno quando lo assaggiano. 

Ovviamente viene prodotto in poche bottiglie, del resto la scelta dei grappoli è meticolosa e la produzione ottenuta dopo l’appassimento è davvero esigua, ragione in più per andare a visitare l’azienda. L’annata di cui vi racconto è la 2008, che ha avuto un percorso di maturazione e affinamento più lungo (esce dopo la 2009): ha colore ambra-oro antico, profuma di miele di castagno, fichi canditi, nocciola e mandorla tostate, albicocca disidratata, fumo di tabacco da pipa, scorza d’arancia candita, caramello. 


L’assaggio è molto coerente, una forte vena sapida e una giusta spinta acida arricchiscono un gioco di frutta secca e miele, con ventate di spezie dolci e leggermente piccanti, ottima persistenza. 

Non sono un amante dei vini passiti ma devo riconoscere che questo è fatto molto bene, non è per nulla stucchevole, ha un ottimo equilibrio; è un abbraccio caldo che ben si adatta a queste serate fredde, magari in compagnia di qualche formaggio semi stagionato o di biscotteria secca, ideali i tozzetti con gocce di cioccolato fondente e nocciole.

Assovini Sicilia: “Dalla vendemmia 2021 ci aspettiamo vini di grande qualità, intensità e profili aromatici unici”


La vendemmia 2021 sarà ricordata come un’annata con vini di grande intensità, qualità e dai profili aromatici unici. 

È il primo bilancio di Assovini Sicilia a chiusura dei 100 giorni della vendemmia siciliana, iniziata i primi di agosto nella parte occidentale dell’Isola, con un anticipo di circa dieci giorni, per concludersi a novembre nei vigneti dell’Etna. 


Una vendemmia caratterizzata da alcuni picchi di caldo in luglio e agosto, dalle piogge di settembre in alcuni territori, fino alla cenere vulcanica in alcune aree dell’Etna. I picchi estivi delle temperature hanno richiesto un maggiore impegno nella gestione del terreno, nella produzione, nell’eventuale irrigazione ma allo stesso tempo hanno permesso di limitare al minimo i trattamenti fitosanitari. 

Per questo, si parla di una vendemmia 2021 caratterizzata da uve estremamente sane. 

Negli areali con escursioni termiche rilevanti, in assenza di stress idrico per le piante, c’è stato un maggiore arricchimento di composti fenolici, importanti soprattutto per la maturazione delle uve rosse e un incremento dell’espressione aromatica delle uve a bacca bianca. 

Anche la vendemmia riflette la diversità e la varietà della viticoltura siciliana e dei suoi vignerons: le uve bianche internazionali hanno avuto una forte accelerazione nella maturazione, a differenza di quelle autoctone, più resistenti. 

Interessanti le previsioni enologiche. Dalla vendemmia 2021, bisogna aspettarsi vini bianchi aromatici, con acidità alte e freschezza, e rossi strutturati dai colori intensi, vini dolci con bouquet aromatici caratterizzati da grande intensità e persistenza gustativa. 

Si registrano variazioni produttive molto diverse non solo tra zona e zona ma anche all'interno di una stessa zona e una leggera flessione nella resa uva-vino. 

Rispetto alle medie degli ultimi anni, la vendemmia 2021 in Sicilia si assesta a circa un -20%, ma comunque in leggero rialzo rispetto all’annata 2020, ricordata come una delle meno produttive degli ultimi 160 anni. 

“La Sicilia sembra avere una buona elasticità anche rispetto ai sempre più evidenti cambiamenti climatici, commenta il presidente di Assovini Sicilia, Laurent de la Gatinais. Nelle ultime due vendemmie, la vitivinicoltura siciliana conferma la sua vocazione alla sostenibilità e alla qualità media delle uve sempre alta. Gli obiettivi futuri - continua il presidente di Assovini Sicilia - vanno quindi nella direzione di sviluppare le coltivazioni bio e sostenibili ed acquisire conoscenze sempre più specifiche per saper affrontare questi cambiamenti climatici.  

Per questo - conclude de la Gatinais - è importante la sinergia e la collaborazione con la Fondazione SOStain Sicilia, promossa dal Consorzio di Tutela Vini Doc Sicilia e da Assovini Sicilia, che ha come missione il coordinamento della ricerca ed il continuo sviluppo del programma di sostenibilità SOStain per la gestione sostenibile delle aziende vitivinicole siciliane”. 

Ad oggi, sono venticinque le cantine siciliane che hanno scelto di associarsi alla Fondazione SOStain Sicilia, circa 5000 ettari di superficie vitata con oltre 20 milioni di bottiglie prodotte; sei aziende sono già certificate e tre in corso di certificazione, mentre tutte le altre sono attivamente impegnate in un percorso di miglioramento continuo che le condurrà a raggiungere i rigorosi standard di sostenibilità richiesti dalla Fondazione e dunque alla certificazione da parte di un ente terzo indipendente. 

“Sono molto entusiasta dei risultati finora raggiunti – dice Alberto Tasca, presidente della Fondazione SOStain Sicilia – SOStain nasce per promuovere nel territorio siciliano una visione pratica e contemporaneamente olistica della sostenibilità, che conduca verso un modello di sviluppo generativo e non solo accumulativo. 

La Sicilia ha caratteristiche climatiche e geopedologiche uniche, come confermato dall’andamento della vendemmia 2021, ed è essenziale che le buone pratiche di sostenibilità vengano contestualizzate al territorio. Solo così è possibile determinare un cambiamento in direzione della sostenibilità che sia coerente con il contesto, valorizzando al contempo le potenzialità e i punti di forza dei nostri micro-territori”.

InvecchiatIGP: Sassotondo - Maremma Toscana Ciliegiolo DOC “San Lorenzo” 2011


Pensando al Ciliegiolo, dopo tanti assaggi ripetuti negli anni, la prima cosa che mi viene in mente è che probabilmente il suo peggior nemico è il Sangiovese la cui fama, nel tempo, è diventata sempre più importante tanto da rendere abbastanza nulli i tentativi di valorizzare gli altri vitigni autoctoni toscani che, per ora, ancora soffrono la sindrome dei “figli di un dio minore”.


Eppure, il Ciliegiolo, antica varietà toscana già citata da Soderini (1590) sotto il nome di “Ciregiuolo” e coltivata oggi in numerose Regioni di Italia (Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata) nei confronti del Sangiovese non dovrebbe avere alcun tipo di sudditanza psicologica visto che recenti studi, attraverso l’analisi dei profili del DNA di oltre 2000 vitigni da tutto il mondo, hanno provato che il Sangiovese discende direttamente da un incrocio naturale tra il Ciliegiolo ed una varietà denominata ‘Calabrese di Montenuovo’, la cui identità ampelografica rimane tuttavia ancora sconosciuta (Vouillamoz et al. 2007).


L’altra certezza è che di questa uva si sono innamorati Carla Benini, agronoma, e suo marito Edoardo Ventimiglia, documentarista, tanto da acquistare agli inizi degli anni ’90 un fazzoletto di terra, tra i Comuni di Sorano e Pitigliano, una casa scassata, settantadue ettari di terra abbandonata e un ettaro di vigneto. 
Gradualmente, col tempo, le cose si sono evolute e Sassotondo, questo il nome dell’azienda agricola fondata da Carla ed Edoardo, è diventata una realtà vitivinicola solida dove i vigneti, condotti biologicamente dal 1994, occupano oggi una superficie complessiva di circa 12 ettari: 9 a bacca rossa (ciliegiolo, sangiovese, teroldego e merlot) e 3 a bacca bianca (trebbiano, greco, sauvignon).


Tornando al Ciliegiolo, in azienda questa varietà ha trovato nel vecchio vigneto San Lorenzo (70 anni), piantato su terreni tufacei situati di fronte all’antica città di Pitigliano, il suo terroir d’elezione tanto che da queste uve, vinificate in purezza, nasce il “San Lorenzo”, vero e proprio Cru aziendale dal quale nasce il vino più rappresentativo di Sassotondo.

Edoardo e Carla

Proprio qualche giorno fa mi è capitato di bere l’annata 2011 di questo vino e non mi sono fatto sfuggire l’occasione di prendere qualche appunto per l’InvecchiatIGP di oggi anche perché se è vero che bere il San Lorenzo appena messo in commercio può essere abbastanza ostico, è altrettanto vero che dopo una decian di anni questo Ciliegiolo si distende acquisendo complessità e profondità abbastanza inaspettate.


Il San Lorenzo 2011 si presenta al naso abbastanza austero ed integro nei profumi che si sviluppano in sfumature olfattive che ricordano la marasca, la carruba, la macchia mediterranea, il ferro e sul finire un acuto di rabarbaro e ginepro. Sorso scuro, che si concede salino e minerale, quasi ematico, che evidenza un tannino perfettamente fuso e una perfetta armonia di insieme. Finale lungo, iodato, con chiari rimandi al territorio di appartenenza. Un Ciliegiolo grandissimo, un grande vino della Maremma che nulla ha da invidiare ad altre denominazioni blasonate.


Nota tecnica: la raccolta e la selezione delle uve sono manuali, la fermentazione avviene senza aggiunta di lieviti, e la macerazione dura da 15 a 20 giorni. Il vino matura per 18/30 mesi in botti di rovere di slavonia da 10 hl. Il San Lorenzo è posto in commercio dopo 12 mesi di affinamento in bottiglia nelle cantine sotterranee dell’azienda.

Roggero – Freisa d’Asti DOC Superiore 2019


Ci sono vini in Italia che andrebbero sicuramente rivalutati. Tra questi un posto d’onore merita la Freisa che questo piccolo produttore di Albugnano, nel Monferrato, vinifica con una grazia di rara bellezza. 


E’ un vino che profuma di fiori rossi di campo e gelatina di lampone e al sorso sublima il nostro edonismo mostrandosi armonioso e di eleganza sopraffina per la sua tipologia.

Selvanova, la fattoria sociale dove l’etica fa nascere grandi vini!


Selvanova, situata nel Comune di Castel Campagnano (CE), è una di quelle aziende agricole che tutti gli appassionati, almeno una volta nella vita, dovrebbero visitare anche solo per ammirare lo splendido paesaggio in cui è incastonata: il Monte Matese, ad est, il Monte Taburno, ad ovest, ed il fiume Volturno che scorre ai suoi piedi solcando una vallata ricca di pascoli, boschi, uliveti e, ovviamente, vigneti.


Il progetto vitivinicolo, iniziato nel 1997 dal Dr. Antonio Buono, napoletano di nascita e grande appassionato di agricoltura sostenibile, è stato ripreso e portato avanti nel 1998 da GESCO, un gruppo di imprese della Campania che operano nel settore sociale (recupero tossicodipendenza, portatori di handicap, giovani disagiati, abbandono scolastico, immigrazione) per il reinserimento di questo soggetti a rischio nel mondo del lavoro.


La sensibilità etica impiegata nella salvaguardia di queste categorie sensibili è riversata completamente anche nella gestione di Selvanova attraverso i seguenti punti:

- conduzione agronomica totalmente mirata al rispetto della natura e delle caratteristiche dei vitigni coltivati;
- nei prodotti finiti. Tutti i vini Selvanova sono biologici certificati dal 2000 e continueranno ad esserlo;
- complementarietà delle attività agricole visto che Selvanova è una fattoria complessa che si compone di mille sfaccettature: ulivi ed olio, allevamento di animali da cortile, produzione di miele ed apicoltura e, ovviamente, la viticoltura che rappresenta l’anima centrale dell’attività.


In tale ambito il parco vigne di Selvanova si compone di 10 ettari suddivisi in cinque appezzamenti differenti sia per esposizione che per altitudine. Vigneti, piantati tra il 1999 e il 2002, dove hanno preso dimora Pallagrello Bianco e Pallagrello Nero (i due vitigni più strettamente tipici di questo pezzo di Campania) e Aglianico e Fiano (vitigni principi della viticoltura Campana).

Selvanova, attualmente, produce quattro vini:

Terre del Volturno IGT Frizzante – Londro Bianco
Terre del Volturno IGT Frizzante – Londro Rosato
Terre del Volturno IGT – La Corda di Luino Bianco
Terre del Volturno IGT – La Corda di Luino Rosso

Terre del Volturno IGT Frizzante – Londro Bianco

Il primo, il Londro Bianco, è un vino frizzante prodotto con uve 100% Fiano provenienti da vigne situate nel comune di Castel Campagnano (CE). Le uve una volta in cantina vengono sottoposte ad una pressatura soffice a grappolo intero per ottenere il mosto fiore. Il mosto viene poi diviso in due parti: una procede con la fermentazione per dare il vino base, l'altra viene utilizzata come liqueur de tirage per la presa di spuma che avviene in bottiglia. A differenza del metodo classico tradizionale, questo spumante non va incontro a sboccatura ma viene proposto integro sui propri lieviti naturali.


Questo frizzante naturale è come te lo aspetti ovvero verace, vivace e spensierato al tempo stesso senza però, lo sottolineo, mancare di quella importante complessità che spesso fa da linea di demarcazione tra un vino con o senza anima. Il Londro Bianco, invece, sa di pera matura, nespola, litchi, melone invernale, fieno tagliato ed echi speziati. Al palato svela “polpa”, dinamicità, freschezza quasi citrina e viva componente sapida che, tutte assieme, richiamano continuamente la beva grazie anche ad un tenore alcolico limitato.

Terre del Volturno IGT Frizzante – Londro Rosato

L’altro vino frizzante, il fratello maggiore del precedente, è rappresentato da un rosato frizzante ottenuto da uve 80% Pallagrello Nero e 20% Aglianico, elaborate secondo il metodo ancestrale. Le uve una volta in cantina vengono sottoposte a diraspatura per poi passare qualche ora a contatto con le proprie bucce. Il mosto viene poi diviso in due parti: una procede con la fermentazione per dare il vino base, l'altra viene utilizzata come liqueur de tirage per la presa di spuma che avviene in bottiglia.


Se il Londro Bianco rappresenta l’anima Pop di Selvanova, con questo rosato ci catapultiamo nell’anima rock dell’azienda grazie ad un vino grintoso e anarchico allo stesso tempo. Il tratto olfattivo sa di peonia, melagrano, ribes e ciliegie nere ma è in bocca che il Londro Rosato scatena tutta la sua energia grazie ad una leggera presenza tannica e ad una misurata ruvidezza donate dal saldo di Aglianico che immette nel vino la giusta dose di territorialità e determinazione. La chiusura è fresca, fruttata, delicatamente sapida e, come nel caso del Bianco, la bottiglia finisce subito soprattutto se a fargli compagnia c’è una bellissima pizza marinara o margherita. Provare per credere!

Terre del Volturno IGT – La Corda di Luino Bianco 2020

Il primo vino fermo prodotto da Selvanova è un bianco prodotto con uve 70% Pallagrello Bianco e 30% Fiano provenienti da vigne situate nel comune di Castel Campagnano (CE). La raccolta delle uve avviene manualmente e trasportate immediatamente nella vicina cantina dove sono sottoposte ad una pressatura soffice a grappolo intero per ottenere il mosto fiore. La vinificazione e l’affinamento, sulle fecce fini per 6 mesi, avviene interamente in acciaio.


Dal carattere schiettamente contadino, La Corda di Luino, il cui nome spiegheremo successivamente, ha tutto per essere un eccellente vino quotidiano perché è accogliente nei suoi richiami di frutta ed erbe aromatiche e decisamente goloso al sorso, delicatamente rustico, sorretto egregiamente da una bellissima estensione acido-sapida. Provatelo in abbinamento con “Pasta patate e provola” per momenti di puro godimento….

Terre del Volturno IGT – La Corda di Luino Rosso 2020

Vino rosso prodotto con uve 80% Pallagrello Nero, 10% Aglianico e 10% Cabernet Sauvignon provenienti da vigne situate nel comune di Castel Campagnano (CE). La raccolta delle uve avviene manualmente e trasportate immediatamente nella vicina cantina. Vengono sottoposte a pigia-diraspatura per poi macerare, mediamente, per 15 giorni. La vinificazione viene svolta con le uve ancora separate, una volta svinate viene fatto il blend prima di continuare l’affinamento per 6 mesi in tini di acciaio.


La Corda di Luino, anche nella versione rosso, conferma che Selvanova ha come obiettivo quello di produrre vini di ottima qualità e di pronta beva. Conferma ne è questo blend di palagrello, aglianico e cabernet sauvignon che punta tutto sulla succosità del vino, sull’immediatezza dei profumi che ricordano i frutti neri maturi, il dragoncello e le erbe spontanee. Sorso equilibrato, affatto austero, scorrevolissimo grazie a morbidi tannini e con una decisa marcia sapida a dettare il ritmo dell’assaggio. Vino assolutamente appagante e tutto proiettato alla bevibilità più spensierata possibile. Abbinamento consigliato: “Candele spezzate al ragù pippiato”. Ho già l’acquolina in bocca!

Piccola curiosità circa i nomi dei vini: la Frazione Squille del comune di Castel Campagnano, dove sorge Selvanova, si trova sulla riva del fiume Volturno, dove ha navigato, fino agli anni settanta, una scafa, ovvero una zattera, che fungeva da ponte e sulla quale venivano ospitati uomini e animali che venivano trascinati da una sponda all’altra con una corda tesa tra le due sponde. Al fianco di essa veniva anche trascinata una zattera più piccola, una sorta di scialuppa di salvataggio, che prendeva il nome di Londro (nome dei vini frizzanti sia bianco che rosato attualmente prodotti) utile, in caso di necessità, a salvare la vita a qualche mal capitato che cadeva in acqua. Questa attività di attraversamento era gestita dalla famiglia Luino (nome dei vini fermi, sia rosso che bianco attualmente prodotti).

InvecchiatIGP: Crivelli - Ruchè di Castagnole Monferrato 1992


di Lorenzo Colombo

Il Ruchè è un vitigno del quale ancora non si conosce bene la provenienza, ma ci sono solamente alcune ipotesi -tutte ovviamente da prendere con le molle- relative al suo nome.
La prima sostiene che esso derivi da “Rocche”, ovvero che il vitigno si adatti bene alla coltivazione su queste conformazioni sabbiose, calcareo argillose (presenti soprattutto nelle Langhe e nel Roero) dovute all’erosione. La seconda recita che il nome derivi da “San Rocco” santo assai venerato in zona, mentre la terza cita un “Convento delle Rocche” i cui frati pare abbiano salvaguardato il vitigno.

Coltivato esclusivamente nei dintorni di Castagnole Monferrato, nel 2000 si contavano meno d’una cinquantina d’ettari di questo vitigno, mentre i dati forniti dalla Vignaioli Piemontesi e relativi all’anno 2019 ne quantificano, solamente per la Docg Ruchè di Castagnole Monferrato, 158 ettari (1.130.000 le bottiglie prodotte), ai quali vanno poi aggiunti -non molti per la verità- gli ettari che si trovano fuori dalla zona a denominazione. Analisi effettuate sul DNA del vitigno hanno dimostrato che non esiste nessuna somiglianza con altri vitigni presenti sul territorio pertanto Il Ruchè rimane un vitigno unico ed un poco misterioso.

Il Ruchè di Castagnole Monferrato DOCG

Per il Ruchè di Castagnole Monferrato la Doc è arrivata nel 1987 mentre nel 2010 ha ottenuto la Docg, il suo areale di produzione è limitato a sette comuni in provincia d’Asti: Castagnole Monferrato, Montemagno, Grana, Portacomaro, Refrancore, Scurzolengo e Viarigi. Solitamente se ne ricavano vini dal color rubino brillante, con una buona intensità olfattiva, i suoi profumi sono leggermente aromatici e speziati, la sua bassa acidità e la non elevata tannicità ne fanno vini da bersi entro pochi anni.

L’Azienda Agricola Crivelli

Un trisavolo di Marco Maria Crivelli, proveniente dalla Frazione Crivelli, del comune di Castiglione d’Asti, si stabilì a Castagnole Monferrato attorno alla metà dell’Ottocento, acquistando vigneti e iniziando da subito la produzione di vino sia da vigneti propri che da altri, condotti in mezzadria.
Dopo la seconda guerra mondiale il padre di Marco Maria conferisce le uve alla, da poco nata Cantina Sociale, siamo nel 1979 quando Marco Maria decide di produrre direttamente il vino con propria etichetta e dopo una decina d’anni riesce a commercializzarlo anche all’estero. Nel 2000 è stata costruita la nuova cantina e attualmente l’azienda -che viene condotta unitamente al figlio Jonathan- può contare su otto ettari a vigneto.

Il vino

Solitamente si consiglia di bere il Ruchè entro i primi anni di vita, anche se il produttore di questo vino sostiene che può resistere tranquillamente sino ad oltre dieci anni dalla vendemmia, noi ci siamo spinti più in là e la nostra bottiglia è rimasta quasi trent’anni in cantina. Questo lungo tempo ha contribuito a scolorire molto il vino, che ora si presenta con un color tra il granato e l’aranciato scarico e con unghia aranciata. In compenso il suo spettro olfattivo s’è ampliato a dismisura, seppur perdendo molto in intensità, i sentori sono ovviamente di natura terziaria anche se un leggero ricordo aromatico rimane, l’evoluzione del vino è netta senza però sfociare in note ossidative, si va dal cuoio alle note autunnali che richiamano le foglie bagnate, i funghi, la terra umida, le radici, i fiori appassiti, il bastoncino di liquirizia, ma anche spezie (pepe e vaniglia) e frutta secca, però non si tratta unicamente d’ampiezza di profumi, ma anche di notevole eleganza.


Tale ampiezza e complessità di sentori non ritroviamo però alla bocca dove il vino appare un poco smagrito, con una struttura leggera, il vino è asciutto ed i tannini paiono ancora graffianti, vi ritroviamo accennate le note speziate ed uno sbuffo di frutta cotta, leggeri accenni piccanti si colgono in chiusura dove troviamo ancora una buona persistenza.
In complesso un vino più da naso che non da bocca che però ha svolto egregiamente il suo compito durante il pranzo, accompagnando degnamente un gallo ruspante in padella. Ultima annotazione riguarda la bellissima etichetta.

Ps: ad articolo già scritto veniamo a conoscenza della morte di Lidia Bianco, per 25 anni sindaco di Castagnole Monferrato, fu sotto la sua spinta e quella di Giacomo Cauda, parroco del comune, che si rivalutò il vitigno Ruchè, sino ad ottenere nel 1987 la denominazione d’origine Ruchè di Castagnole Monferrato.