Butussi, qualcosa di buono dai Colli Orientali del Friuli!

Durante i difficili giorni del lockdown ho avuto l’opportunità di assaggiare con calma parecchi campioni dei vini più disparati. Difficile, in effetti, trovare circostanze più favorevoli per una degustazione: forzata tranquillità ed isolamento, pochi telefoni e campanelli che suonano, minime distrazioni e incombenze.
La pace forzata indotta dal virus mi ha consentito insomma di mettere a frutto e a fuoco, con la massima concentrazione, molte cose.

Eppure mancava spesso qualcosa.

Ci ho pensato su a lungo e alla fine ho presto scoperto che cosa: mancava la gioia di individuare belle bottiglie e, conclusa la parte tecnica della seduta, di potersele godere in compagnia, di bersele tutte, in definitiva di far fare al vino la parte del vino.
Allora, in attesa di tempi migliori, ho esso da parte le bocce che, assaggiate con cura solitaria, mi sarebbe piaciuto però riassaggiare in compagnia, in un contesto cioè a metà strada tra il confronto coi colleghi e la bevuta tra amici.
Detto fatto: appunti buttati e note riprese da capo col metodo “simposiale”.


Cominciamo la rassegna con due gran belle etichette di un produttore storico dei Colli Orientali del Friuli, l’ultracentenaria Valentino Butussi, oggi guidata dal figlio Angelo e dai nipoti Filippo, Tobia, Matia e la sorella Erika. Eccole.

La Famiglia Butissi - credit: Cronache di Gusto

Valentino Butussi, Sauvignon Blanc “Genesis” 2018, Colli Orientali del Friuli DOC

Appena 1.275 bottiglie da una particella-cru di soli seimila metri con una vigna (biologica, come tutta l’azienda) di trent’anni sopra. Frutto di uno dei tanti esperimenti condotti negli anni e imbottigliato secondo il calendario lunare è un vino che di liscio ha solo il colore, d’un elegante paglierino. Al naso è invece esplosivo e intenso, che rilascia a ondate, in sequenza, ma senza sbavature né imprecisioni, note di pesca e di frutta a polpa bianca, biancospino, un accenno finale di buccia interna di agrumi. Al palato è sapido e lunghissimo, pulito, con una coda piacevolmente amarognola che invita alla ribeva. Elegante ma godibile. Amici contenti.


Valentino Butussi, Pinot Grigio Ramato 2018, Colli Orientali del Friuli DOC

Quella del ramato sarebbe una storia tutta da raccontare, anche per far capire meglio il “senso” di questo vitigno che nasce né bianco e né rosso e quindi si presta a molteplici interpretazioni. La meno diffusa, commercialmente meno redditizia ma senza dubbio più affascinante è quella adottata per produrre questo vino: il 25% dell’uva viene vinificata in bianco, mentre il 40% viene messo a macerare 36 ore, per estrarre la componente rosata; il restante 35% viene pigiato, raffreddata e lasciato anch’esso a macerare. Il macerato viene torchiato in modo soffice e il mosto messo a fermentare in botti tradizionali. Un mese prima dell’imbottigliamento le tre diverse vinificazioni vengono riunite.
Ne risulta un vino dal colore singolare, che definirei rosa antichissimo. Al naso è netto, diretto, con richiami alla polpa della frutta appena affettata e variegate note floreali in appassimento. In bocca è secco e deciso, verticale, con una prolungata nouance amara e bella persistenza. Col polpo grigliato è finito subito.

Colli di Lapio - Fiano di Avellino DOCG 2010

Ha riposato davvero a lungo in cantina, dieci anni. E avrebbe potuto restarci per almeno altri dieci tanto è uscita viva, profumata, energica, questa magnum stappata per una occasione speciale.


Frutta piena, toni fumé, chiusura piacevolmente amarognola, beva tonica e fresca. La conferma, ormai non più necessaria, della straordinaria longevità di questa uva bianca.

Terre del Principe - Le Serole Pallagrello Bianco 2015


La stragrande maggioranza dei bianchi è pensata per essere stappata nell'arco di un anno, massimo due. Nonostante questo, la maggioranza dei vini bianchi italiani presenta straordinarie evoluzioni nel tempo a cui pochi, pochissimi produttori si sono dedicati con cura e con passione, soprattutto nell'areale del Verdicchio e del Fiano di Avellino.
Gli esempi sono innumerevoli, potremmo citare un incredibile Priè Blanc 2008 bevuto di recente, o un Efeso di Librandi da uve mantonico, o un grecanico di Cantina Marilina 2006 provato in Sicilia, e ancora tanti, tanti vini in tutte le regioni. Un altro esempio, calzante, è sicuramente questo Pallagrello Bianco pensato da Luigi Moio per Terre del Principe, l'azienda fondata nel 2003 da Manuela Piancastelli e Peppe Mancini. 

credit: ima festival

Giornalista lei, avvocato lui, si incrociano nell'Alto Casertano nella vecchia azienda familiare di lui e iniziano un'avventura straordinaria, raccontata mille volte ma sempre bella da ripetere: con Moio avviano il rilancio di tre uve sino a quel momento praticamente sconosciute ovvero casavecchia, pallagrello nero e pallagrello bianco, spesso confuse dai contadini e dagli stessi produttori di zona rispettivamente con l'aglianico e la coda di volpe, altro bianco campano diffuso lungo la dorsale appenninica.


Nasce una avventura straordinaria che porta alla fondazione di questa azienda, ben presto seguita da altre, che punta alla valorizzazione di un territorio puro e libero nel nord della Campania, ricco di biodiversità e di personaggi che lo hanno fatto grande.
Le Serole è uno dei due bianchi aziendali, quello affinato in barrique. L'altro, lavorato in acciaio, è il Fontanavigna. Nel corso degli anni il protocollo de Le Serole cambia sino alla decisione di farlo uscire con un anno di ritardo rispetto alla vendemmia e riducendo l'influenza del legno che, comunque, a nostro giudizio, ha regalato grandi bianchi da meditazione nel primo decennio di questo vino.

Cantina di affinamento

Le Serole resta la migliore espressione mai raggiunta da questa uve figlia di un Bacco minore come si diceva qualche anno fa per i vini ottenuti da uve poco conosciute. Una assoluta verità del territorio di cui è figlio, con vini che riescono ad evolvere in maniera molto interessante conservando intatta la freschezza. 


Come questo millesimo 2015, aperto, pensate un po', dopo il Taurasi Campoceraso 2001 di Struzziero. Il bianco esprime subito al naso sentori di albicocca e zafferano, piacevoli note balsamiche e un lieve accenno fumé tipico dei vini da terre vulcaniche (qui l'influenza del vulcano spento di Roccamonfina si fa sentire molto precisamente). 
Al palato colpisce per la sua verve, la sua vivacità quasi giovanile, con rimandi ai sentori olfattivi impreziositi dalle note speziate, frutto e legno in ottimo e convincente equilibrio. Finale lungo, interessante. leggermente amaro. Il palato resta pulito e la voglia di ripete la beva è comune a tutti. Un bianco di alto lignaggio, elegante, affidabile, incapace di tradire le aspettative perchè si va a colpo sicuro.
Un piccolo grande miracolo di una viticultura italiana ancora troppo legata esclusivamente alle performance dei rossi e che invece nei bianchi e nei loro tempi di maturazione ha potenzialità assolutamente infinite e tute da scoprire ancora. Credo che sia questa la nuova frontiera di un movimento iniziato dopo la crisi del metanolo e che adesso ha bisogno di nuovi stimoli, che non sia solo la spumantizzazione.

La Vigna di San Martino ad Argiano - Vin Santo del Chianti Classico DOC 2012


Giampaolo Chiettini, enologo toscano, da qualche anno ha creato La Vigna di San Martino ad Argiano, da dove viene questo Vinsanto da salto sulla sedia. 


Trebbiano e malvasia, classicissimo, con quasi 300 gr. di zuccheri residui mostra un’armonia e una freschezza impressionanti. Non buonissimo, di più!

Lo Scoglietto a Rosignano: un posto del cuore adatto anche ai nonni come Carlo Macchi!


di Carlo Macchi

Fare il nonno è una cosa meravigliosa, farlo allo Scoglietto a Rosignano, in una calda (ma non troppo) giornata d’estate ti porta direttamente nel Nirvana gastronomico del nonno.
Non penso di dire niente di nuovo se affermo che Claudio Corrieri abbia creato non un locale ma uno dei posti più goduriosi della costa toscana. Siamo circondati da una località di mare anni ‘60 del secolo scorso ma Lo Scoglietto sembra (forse lo è) un’astronave che guarda verso il mare e si lascia alle spalle ogni cosa.


Credo che il locale, aperto solo nei mesi primaverili e estivi, abbia avuto milioni di recensioni, ma nessuna dal punto di vista del nonno fornito di nipotina di 21 mesi e qui cercherò di rimediare.
Per prima cosa l’ingresso con il passeggino è comodo e agevole, c’è tanto spazio, sia nella sala “classica” quella coperta dalle stuoie che è sempre benedetta da un vento fresco, che in quella a sinistra, leggermente più “in muratura” ma con grandi finestroni che permettono all’aria di mare di fare il suo lavoro. Tavoli, larghi, ben spaziati e ben apparecchiati ti aspettano, ma riesci appena ad arrivarci perché la nipotina, che ha adocchiato il mare, vuole provarlo.
Nessun problema: lasci tutto al tavolo, prendi la belvetta scatenata e vai in spiaggia, che è tutt’uno col ristorante (non per niente si chiama Lo Scoglietto). Ci sono tanti begli ombrelloni e potresti anche sederti all’ombra ma la nipote punta dritta verso l’acqua e tu devi, nell’arco di un millesimo di secondo toglierle  scarpine, maglietta, pantaloncini e pannolino per poi farle incontrare la prima onda. Nel frattempo c’è chi lavora per te: Claudio ti porta un calice di bianco, la nonna e la figlia ordinano il pranzo e tutto si svolge con una calma che ti apre il cuore (in realtà anche lo stomaco visti i buoni odori che girano).

La Spiaggia

Espletato il “ciaf-ciaf in mare” il tavolo, immerso in una brezza piacevolissima, ti attende. La cucina è puntata sul pesce, con cotture semplici e saporite. Visto che la bambina mangia tutto quello che mangiano mamma e nonni ci buttiamo su piatti classici: spaghetti alle vongole (ma è in questi piatti che si vede la maestria dello chef), calamarata, sauté di cozze e vongole, e per secondo frittura mista. Il servizio è “veloce nella lentezza” nel senso che ha atteso il ritorno dalla spiaggia per far arrivare i primi piatti in tavola. La nipotina agguanta gli spaghetti e, modello idrovora, li succhia che è un piacere, mentre io mi tolgo il cibo di bocca (siete autorizzati a piangere) per dare tutte le vongole del mio sauté alla nipote, che gradisce.

Interno

Il piacevole rumore del mare e delle persone in spiaggia (che giunge attutito) permette a Clara di esternare il suo gradimento con una serie di paroda (fusione artigianale tra “parole e grida”) che in qualche locale più attento alla forma sarebbero stati stigmatizzati da occhiate taglienti. Ma qui tutto scorre sui giusti binari, grazie anche ai consigli enoici (non per la nipote, almeno per adesso) che Claudio ti mette in tavola. In effetti allo Scoglietto non solo si beve bene ma si riesce sempre a degustare qualche novità o, ancor meglio, qualche chicca a prezzi veramente convenienti. Del resto quando Lo Scoglietto è chiuso il compito principale di Claudio è girare per cantine, in particolare estere, alla ricerca di vini da proporre.
Nel frattempo il pranzo è andato avanti, infatti la nipotina ci ricorda che a quest’ora lei fa il riposino e quindi, munito di passeggino esco per addormentarla: sarà l’aria di mare, saranno le vongole o le buonissime alici fritte che non ha per niente disprezzato ma l’operazione si svolge nell’arco di un amen e quindi rientriamo al tavolo in pochi minuti, con la bella addormentata che ci lascia concludere in santa pace, grazie a una cassatina e a un buon gelato.


Ormai si sono fatte le 15 e, visto che la dormiente insiste nel dormire, noi ci lasciamo cullare dal venticello e dall’ultimo calice di vino.
Il bello dello Scoglietto è proprio questo! L’ospite può stare a tavola quanto vuole, rilassarsi in spiaggia o in tutti e due i luoghi, senza alcun problema. L’uovo di Colombo dell’ospitalità. Il conto sarà tranquillo, anzi tranquillissimo: diciamo sui 35/40 euro per due piatti e naturalmente il vino. Da andarci, con o senza nipote!

Lo scoglietto
Via Lungomare Monte Alla Rena 13-15 - 57013 Rosignano Solvay - Rosignano Marittimo (LI)
Tel. 0586 767962 - Cell. 333 7502256 / 335 6653080
info@loscogliettorosignano.it

Podere Conca - Bolgheri Rosso Agapanto 2018


Ha fatto bene Silvia Ricci, medico di professione, a insediarsi a Bolgheri e lavorare in biologico vigne e vini con totale dedizione. 


I risultati sono eccellenti, questo rosso da cabernet e ciliegiolo ha profumi ammalianti di prugna, ciliegia, liquirizia e cacao e una bocca intensa ma scorrevolissima, succosa, di puro godimento.

Giovanni Scarfone: 10 anni d'amore tra Bonavita e Faro DOC


di Roberto Giuliani

Ho conosciuto Giovanni Scarfone nel 2008, allora la doc Faro era salita alla ribalta grazie a Salvatore Geraci, che ha indubbiamente contribuito a evitare che venisse cancellata per assenza di aziende vinicole attive. Quando ho assaggiato il Faro 2006 di Bonavita sono rimasto folgorato, amore al primo naso, tanto che decisi di andare a trovare la famiglia Scarfone insieme al mio amico e collega Alessandro Franceschini. Fu un’esperienza bellissima che porterò sempre nel cuore, Carmelo ed Emanuela, genitori di Giovanni e Francesco (che è un bravissimo pittore), furono deliziosi, un’accoglienza garbata e allo stesso tempo calorosa, diretta; il paesaggio intorno era bellissimo, si poteva vedere lo stretto di Messina, Faro Superiore si trova sulla punta a nord-est dell’isola, a un’altitudine sufficiente per poter ammirare il paesaggio marino circostante. Ricordo le fantastiche marmellate di Emanuela, fatte con la loro frutta, qualcosa di sublime che non può che darti una piacevolissima dipendenza!

Papà Carmelo e Giovanni. 

Purtroppo papà Carmelo è recentemente scomparso, ho un grande rimorso di non essere più tornato negli anni successivi, mi sarebbe piaciuto conoscerlo più a fondo.
Giovanni mi dette alcune bottiglie di quel 2006, ogni tanto ne ho aperta una, questa è l’ultima e devo dire che una parte di me vorrebbe custodirla come una reliquia, ma il vino va bevuto, la vita è troppo breve perché abbia senso accumulare bottiglie in cantina e rischiare di andarsene prima di averle bevute.
Così ho preso una decisione, se devo aprirla voglio almeno confrontarla con la 2016, può essere interessante, visto che si tratta di due annate con caratteristiche diverse sia per l’andamento stagionale, sia per l’età delle viti, sia per l’esperienza maturata in vigna e cantina. Un’esperienza che ha portato Giovanni a non utilizzare concimi chimici, erbicidi e insetticidi, e nutrire il terreno con il classico sovescio di leguminose e graminacee. Solo rame e zolfo quando strettamente necessario e in dosi molto moderate, puntando principalmente su una potatura verde molto attenta.


Faro 2006 (nerello mascalese, nerello cappuccio, nocera) – 12,5%: come riporta il sito aziendale l’anno è iniziato con un inverno piuttosto freddo e molto piovoso nei primi mesi, di conseguenza il germogliamento è partito a fine marzo per il nerello mascalese e nella prima decade di aprile per nerello cappuccio e nocera. Primavera fresca con precipitazioni regolari, estate asciutta ma senza eccessi di temperatura. A settembre si è avuto un periodo piovoso che ha rallentato la maturazione delle uve, portando la raccolta al 13 di ottobre, che ha garantito uve sane con una buona acidità (5,80 g/l) e una gradazione zuccherina non elevata, che si è tradotta in 12,5 gradi di alcol nel vino.


Nei vari assaggi effettuati con il passare degli anni ho visto questo vino continuare a crescere, mantenendo quelle promesse che avevo previsto nel 2008, questa volta sembra voler ingannare l’olfatto, poco dopo averlo versato nel calice spara con decisione un terziario marcato di funghi, polvere da sparo, cuoio conciato, caffè, sottobosco, fumo di pipa. Passano i minuti e l’ossigenazione lo risveglia sempre più, tornando a raccontare di frutti, maturi certo ma non ossidati, c’è anche il cacao, l’arancia rossa, il fico, il cardamomo, la menta e la liquirizia, segno che il vino è ancora molto vivo, sebbene abbia ormai superato la vetta, ma il manto odoroso è ancora magnifico e complesso.
All’assaggio conferma quell’impressione, c’è ancora tanta poesia e fascino, una profondità non comune, ma viaggia su toni più scuri e austeri, meno articolati, unico segnale di iniziale discesa di un grande vino, che credo fosse integralmente lavorato da papà Carmelo. Tanto di cappello…


Faro 2016 (nerello mascalese, nerello cappuccio, nocera) – 12,5%: in questo caso l’inverno è stato più mite, sebbene decisamente generoso nella piovosità; anche in primavera è piovuto ma in modo più regolare e non dannoso, mentre l’estate è stata fresca fino ai primi di settembre, quando ha ripreso a piovere in maniera insistente, mettendo in difficoltà la scelta vendemmiale. Alla fine si è raccolto prima il nerello cappuccio, intorno alla fine del mese, mentre il mascalese e il nocera sono stati vendemmiati nella prima decade di ottobre. Anche in questo caso l’alcol svolto ha portato la gradazione a livelli pressoché identici di quella del 2006.
Il colore del vino appare ovviamente più giovane ma con maggiore trasparenza, al naso i profumi ci portano verso la frutta rossa fresca e leggermente in caramella, ciliegia e lampone in primis, a cui fa seguito la susina rossa, piacevoli sfumature di rosa accompagnano un bouquet di bella finezza e pulizia, con uno sguardo verso l’agrume, l’alloro e altre erbe aromatiche.
Al palato c’è energia, freschezza e una materia misurata a tutto vantaggio di un’eleganza d’insieme tutt’altro che trascurabile. Il tannino sta integrandosi già molto bene, il sorso è piacevolissimo e l’alcolicità moderata lo rende davvero godibile. Non so se avrà la longevità del 2006, ma forse in eleganza gli è superiore, c’è una più raffinata precisione, segno di quell’esperienza maturata di vendemmia in vendemmia a cui accennavo prima.

Bravo Giovanni!

Tenuta di Artimino – Vin Ruspo “Barco Reale di Carmignano” Rosato 2019


Un perfetto blend di sangiovese, cabernet sauvignon e merlot dà origine a questo rosato dal DNA toscano ma che strizza l’occhio alla Provenza per eleganza e leggerezza. 


Vino diretto, non da competizione, che finisce in un amen a tavola. Provatelo sul crudo di gamberi. Slurp!!

Santus, un sogno di Franciacorta diventato realtà!!

Non mi nascondo dietro un dito, per chi come me cerca di comunicare il vino in maniera libera ed appassionata è decisamente stimolante scrivere di piccole realtà che spesso non trovano la giusta valorizzazione in un mondo, come quello dell’enogastronomia, dove per mille motivi magari ti ritrovi a parlare sempre delle stesse cantine
Oggi, perciò, vi vorrei parlare di Santus, una piccola azienda il cui progetto è stato elaborato, pensate un po’, tra i banchi universitari della facoltà di Agraria di Piacenza dove si sono conosciuti Maria Luisa Santus e Gianfranco Pagano, oggi marito e moglie e genitori di tre bambini, che duranti i loro studi universitari avevano maturato un sogno di vita ovvero dedicarsi alla viticoltura rispettando, nel contempo, la natura e i ritmi della terra in cui viene praticata. 


Il progetto è tutt’altro che utopistico ed inizia a prendere forma agli inizi degli anni 2000 quando vengono piantate circa 60.000 barbatelle, sia chardonnay che pinot nero, su 10 ettari di terreno, localizzati a Paderno Franciacorta, suddivisi su tre appezzamenti:

Tre Cortili - 1,5 ettari coltivati a chardonnay. La forma di allevamento è il cordone speronato;

Colombaia - 3,5 ettari coltivati a Chardonnay. La forma di allevamento è il guyot;

Albarello – 5 ettari totali di cui 3 coltivati a Chardonnay e 2 a Pinot Nero. La forma di allevamento è il cordone speronato.

Fatto questo, è tempo di pensare a come dar vita al loro primo vino! Maria Luisa e Gianfranco vogliono che il loro Franciacorta manifesti la sua espressività fin dalla prima uscita, pertanto l’uva dei primi quattro anni di produzione non viene vinificata. Finalmente, nel 2005, decidono che è arrivato il momento di dar luce alla loro prima annata producendo quasi in via sperimentale un Franciacorta Brut, tiratura 4.300 bottiglie, che vedrà la luce solo tre anni dopo.


Siccome alla base della filosofia Santus c’è la convinzione che il compito dei piccoli viticoltori sia quello di essere una avanguardia a difesa delle biodiversità, Maria Luisa e Gianfranco nel 2016 fanno ancora un passo avanti, decisivo, ed iniziano il percorso di certificazione biologica delle uve in modo che, a partire dalla fine del 2021, tutti i Franciacorta Santus siano certificati biologici e vinificati nella nuova cantina che dovrebbe essere pronta per la fine di quest’anno.

Santus oggi produce mediamente 50.000 bottiglie così suddivise:
Franciacorta Brut – 25.000 bottiglie
Franciacorta Satèn Brut Millesimato – 10.000 bottiglie
Franciacorta Rosè Zero Millesimato – 8.000 bottiglie
Franciacorta Dosaggiozero Millesimato – 5.000 bottiglie
Franciacorta “Essenza” Millesimato – 2.000 bottiglie (prodotto solo in alcune annate).

Io, ovviamente, me li sono degustati tutti e vi porto la mia esperienza!


Santus – Franciacorta Brut (80% chardonnay, 20% pinot nero): paglierino luminoso e dal perlage fine. Ricco nel bagaglio aromatico di fiori bianchi, crosta di pane, agrumi e lieve mineralità. Strutturato, composto, piacevole al sorso che chiude con ritorni agrumati.
Maturazione: 6 mesi in acciaio inox e piccola parte in barriques di rovere francese. Affinamento in bottiglia sui lieviti: minimo 21 mesi.


Santus - Franciacorta Satèn Brut 2015 (100% chardonnay): paglierino luminoso e dal perlage fine. Impatto olfattivo molto diretto e senza fronzoli dove si percepisce la pesca bianca, il pompelmo rosa, l’erba cedrina a cui fa da sfondo una inconfondibile nota di gesso. Ottima coerenza al palato, invitante e sapido, che chiude su una scia agrumata davvero ragguardevole.
Maturazione: 6 mesi in barriques in rovere francese. Affinamento in bottiglia sui lieviti: minimo 30 mesi


Santus – Franciacorta Rosè Zero 2015 (100% pinot nero): è la novità di questo anno in quanto questa tipologia ha preso il posto dell’extra brut prodotto fino allo scorso anno. Colore rosa antico, brillante e dal perlage fine e persistente. Si esprime deciso su sensazioni di lampone acerbo, rosa, freisa, arancia sanguinella, pompelmo rosa. Il sorso è decisamente secco, austero e coinvolgente per avvolgenza, equilibrio e lunghissima persistenza che in questo caso, rispetto agli altri Franciacorta bevuti in precedenza, ha una progressione minerale di grandissimo impatto.
Maturazione: 6 mesi in acciaio inox. Affinamento in bottiglia sui lieviti: minimo 40 mesi


Santus – Dosaggiozero 2015 (70% chardonnay, 30% pinot nero): giallo paglierino arricchito da un perlage numeroso, elegante e persistente. Approccio olfattivo austero dove affiorano immediati i sentori freschi di mela verde, uva spina, biancospino, scorsa di pompelmo che col tempo virano decisi su una nota profondamente minerale, quasi di allume. Al gusto è tutto classe, consistenza, slancio e sapidità. Da bere a secchi!
Maturazione: 6 mesi in barriques in rovere francese. Affinamento in bottiglia sui lieviti: minimo 30 mesi.


Santus - Franciacorta “Essenza” 2012: ottenuto da uve Chardonnay 100% del vigneto aziendale Tre Cortili, raccolte a maturazione molto avanzata ed attaccate da Botrytis Cynerea. Il risultato? Un Franciacorta fuori dagli schemi, destabilizzante e di grande impatto, soprattutto olfattivo, che si esprime su un bouquet composto da effluvi di frutta secca, bergamotto, pesca sciroppata, nocciola e marzapane. Assaggio ricco, goloso e coerente con i ritorni aromatici di pasticceria e frutta matura. Tra i cinque, per lo stile, è quello che mi ha convinto di meno ma se amate l’avvolgenza e la morbidezza di uno vino questo non potrà non essere il vostro Franciacorta di riferimento.
Maturazione: 6 mesi in barriques in rovere francese. Affinamento in bottiglia sui lieviti: 60 mesi

La Scolca - Soldati La Scolca Brut Millesimato 2003


di Lorenzo Colombo

Tra i tanti luoghi comuni che ruotano attorno al mondo del vino uno sostiene che dopo la sboccatura gli spumanti abbiano vita breve. 


Ebbene questo Metodo Classico da uve Cortese della vendemmia 2003, sboccato nel 2011 (quindi nove anni fa) è la prova vivente di quanto sia falsa questa credenza. Ve lo possiamo garantire!!

Cantina Pizzolato - Malanotte del Piave DOCG “Il Barbarossa” 2015

di Lorenzo Colombo

Iniziamo dal curioso nome, che in realtà non è altro che quello del Borgo Malanotte, borgo medievale la cui esistenza è attestata sin dal 1400, situato a Tezze di Piave, frazione del comune di Vazzola, in provincia di Treviso (TV), cuore della produzione del vino. Il riconoscimento della Docg al vino Piave Malanotte è del dicembre 2010, la zona di produzione è molto ampia e situata lungo il fiume Piave, comprende numerosi comuni della provincia di Treviso ed alcuni in quella di Venezia. Le uve utilizzabili sono il Raboso Piave (min.70%) ed il Raboso veronese (max.30%), parte di queste uve (min.15% e max.30%) debbono obbligatoriamente essere sottoposte ad appassimento. La messa in commercio non può essere effettuata prima dei trentasei mesi dalla vendemmia.

La Cantina

Il Raboso Piave era un vitigno molto diffuso nel passato (oltre 7.000 ettari secondo il censimento agricolo del 1970) che però nel corso degli anni ha visto sempre più contrarsi la sua superficie vitata, tanto che, quarant’anni dopo (censimento del 2010) ne rimanevano poco più di 700 ettari, confinati in alcune province del Veneto orientale ed in provincia di Pordenone, in Friuli. Oltre che per la produzione del Piave Malanotte il vitigno entra a far parte di un altro vino a Docg (Bagnoli Fiularo), di sette vini a Doc e di otto ad Igt.


Anche il Raboso Veronese (comunque non utilizzato nel vino frutto della nostra degustazione) ha subito un’analoga –se non peggiore- sorte, i poco meno di 6.000 ettari del 1970, s’erano ridotti nel 2010 (ultimo censimento agricolo) a meno di 300 ettari e questo nonostante la sua teorica area di produzione sia nettamente più vasta, potendo essere coltivato anche in altre regioni (Lombardia ed Emilia-Romagna).

Il Raboso e l’appassimento delle uve

L’appassimento delle uve Raboso non è una trovata dei nostri tempi, ma una pratica già in uso sin dal ‘700, con lo scopo di smussare la tannicità e l’acidità dei vini derivati da questo vitigno, caratteristiche che comunque ne facevano un vino longevo. Una simpatica descrizione di un vino prodotto con uve Raboso – in questo caso si tratta del Friularo di Bagnoli, ci viene data da Ludovico Pastò -medico e poeta dialettale veneziano- nel suo ditirambo “El vin friulano de Bagnoli”. Abbandonata nel corso degli anni la pratica di fare appassire, seppur parzialmente quest’uva, vine ripresa negli anni ’90 e da qui nasce l’attuale Malanotte del Piave (risulta interessantissima a tal proposito la lettura del libro “Il Vino nella storia di Venezia – Vigneti e cantine nelle terre dei Dogi tra XIII e XXI secolo).


Il vino

Il Malanotte del Piave Docg “Il Barbarossa” della Cantina Pizzolato, l’annata è la 2015 è prodotto con uve Raboso Piave provenienti da vigneti situati a nord di Treviso, il 30% delle uve subisce un appassimento in cassetta per circa tre mesi, dopo la fermentazione alcolica il vino s’affina per ventiquattro mesi in botti e barriques, seguono ulteriori sei mesi di bottiglia prima della messa in commercio. L’etichetta riporta il ritratto di Settimo Pizzolato, autore del vino, che è certificato Biologico e Vegan.


Alla vista su presenta granato profondo con ricordi color prugna sull’unghia. Intenso, con ampio spettro olfattivo, si colgono note surmature, sentori di prugne secche, confettura di prugne e marasche, note speziate di vaniglia e cannella, sottobosco, radici, liquirizia, accenni di salamoia. Strutturato, con tannini decisi ma vellutati, bella vena acida, liquirizia forte, prugne secche, confettura di marasche, accenni di spezie piccanti (pepe), tornano le note di salamoia su una lunga persistenza.

Girolamo Russo - Etna Rosso A' Rina 2017

di Stefano Tesi

Sono confesso (ma non reo!): amo i rossi dell’Etna e il Nerello Mascalese.


E questo (con anche un 5% di Nerello Cappuccio) ha tutte le caratteristiche per farsi amare: è bio, ha un bel colore rubino appena scarico, il profumo fresco, fruttato ed esplosivo delle ciliegie precoci, una bocca generosa, succosa, lunga e mai noiosa.

Enzo Signorelli, dalla fotografia all'olio extravergine di oliva dell'Etna!

di Stefano Tesi

Se le vie del Signore sono infinite, quelle del Signorelli lo sono quasi. E siccome per l’olivicoltura sono sempre tortuose e spesso parecchio acclivi, a praticarle ci vuole fede. O almeno molta fiducia.
Del resto, e di contro, chi può trovarle praticabili se non un fotogiornalista abituato a confrontarsi tutti i giorni sugli accidentati sentieri della libera professione, roba al cospetto della quale perfino i tormenti olivicoli possono apparire sopportabili?


E’ il caso appunto di Enzo Signorelli da Catania, qualche decennio alle spalle passato dietro a un obiettivo a documentare la cronaca del mondo (incluso lo scoop per il glorioso quotidiano "L'Ora" di Giovanni Falcone al lavoro), che alcuni anni fa si è trovato di fronte al classico bivio: una “campagna” che nessuno voleva o poteva più seguire, tra il dispiacere della prospettiva di disfarsene e le difficoltà oggettive di condurla.
Lui ha scelto la seconda opportunità. Con una meritevole aggiunta: dopo aver cominciato non ha rinunciato, come di solito fanno i quattro quinti di chi si trova in quella situazioni.
Ipse dixit: “Era una piccola proprietà  di famiglia a Ragalna, uno dei comuni del parco dell’Etna, zona dop Monte Etna, due ettari con poco più un centinaio olivi, molti secolari e sopravvissuti a varie traversie, incendi compresi. Ambiente incontaminato ma difficile da coltivare tra rocce laviche, vegetazione selvaggia e luoghi non proprio accessibili. Lavorare qui richiede molta fatica, senza contare i pericoli. Bisogna fare tutto a mano spostandosi a piedi e portando in spalla gli attrezzi: una faticaccia. Ripagati però da un paesaggio abbellito dai bulbi colorati lungo i sentieri, i ciclamini, le verdure di campo: mai assaggiati i caliceddi? Ci sono conigli, un paio di donnole, un falchetto che ci sorvola come un drone, qualche serpentello e qualche tartaruga. In febbraio fioriscono le rare orchidee spontanee come la Barlia robertiana, colore viola screziato.  E poi c’è l’olio, naturalmente”.


La 
biodiversità dell’ambiente e l’integrità del terreno, con alto inerbimento e microfauna, sono fattori decisivi per la qualità del prodotto. L’azienda è in conversione bio, ma la coltivazione è più che biologica: “Direi assolutamente naturale”, puntualizza Signorelli. “Non uso sostanze chimiche, rispetto l’integrità, la morfologia, l’equilibrio idrodinamico del suolo, l’acqua è solo quella del cielo. Le olive sono raccolte a mano. Per quelle più delicate, come la Moresca, anziché le reti si usano sacche di tela a tracolla come una volta, per non rischiare di rovinare i frutti. Molitura in giornata in un frantoio a ciclo continuo. Curo di persona anche la potatura e seguo tutte le lavorazioni in campo e fuori”.
Varietà utilizzate: Nocellara Etnea (la maggior parte) e varietà autoctone come la Murghitana o Moresca, Pizzutella, Minnedda, Ugghiara, con altre capitate lì chissà come, ma ormai acclimatate.
Cominciai con una scala di legno artigianale lunga oltre cinque metri e pesante come un cristiano. La sera mi sdraiavo sul divano e quasi sempre mi addormentavo lì, vestito e con le luci accese, dimenticandomi di cenare”, racconta. Nel 2015 aveva fatto diverse prove e il risultato era piaciuto molto a Gualtiero Marchesi, che lo aveva assaggiato grazie ad amici comuni. “L’episodio mi motivò moltissimo e mi spinse a continuare sulla via della qualità assoluta. Oggi l’olio viene conservato in acciaio, sotto azoto e a temperatura controllata. La raccolta è precoce, per estrarre un olio il più profumato possibile, gustoso e con notevole contenuto naturale di biofenoli, fino a 400mg/kg, che ne fanno un prodotto con qualità nutraceutiche”.

Ecco le mie note di degustazione.

Contrada Mancusa – Nocellara dell’Etna.
Extravergine monocultivar di Nocellara dell'Etna, da un oliveto tra i comuni di Santa Maria di Licodia e Ragalna, a 600 metri di quota. Acidità 0,18%.
L’olio ha al naso un piacevole e netto sentore erbaceo di media intensità, cui seguono accenni di foglia di pomodoro e una sensazione generale di fruttato maturo.
L’ingresso in bocca è gentile e denso, con un accenno dolce che si muta lentamente in amaro lieve, composto e leggermente piccante, molto lungo e senza inflessioni.
Prodotto equilibrato che per sapidità e intensità si presta a soddisfare molti palati.


Contrada Difesa – Antica Proprietà Tomaselli – Igp Sicilia.
Extravergine ottenuto da olive di Nocellara dell’Etna e di altre cultivar da un oliveto in territorio di Ragalna, a circa 400 metri di quota. Acidità 0,18%. Solo 450 bottiglie numerate e firmate destinate alla commercializzazione di alta gamma.
Al naso entra quasi in punta di piedi, delicatissimo ed elegante, sviluppando poi una sensazione di freschezza che richiama profumi di erba tagliata, di radicchio verde e di scorza tenera.
In bocca è più deciso e persistente, ma rimane composto, con un amaro e un piccante che crescono progressivamente e armonicamente fino a divenire dominanti, senza pregiudicare però l’armonia organolettica generale. Un extravergine di classe, destinato a palati evoluti.

Per informazioni e acquisti potete contattare direttamente il produttore: 335 6889498 o esignorelli@mac.com