Il territorio del Vesuvio in tre grandi vini tutti da scoprire


di Luciano Pignataro

Tre vini vesuviani per l’estate. Li abbiamo degustati nel corso del Festival della Dieta Mediterranea organizzato nel Museo di Pioppi, nel cuore del Cilento, il paesino dove visse a lungo il medico Ancel Keys studiando i comportamenti alimentari delle popolazioni meridionali.


Il Vesuvio, come ma non quanto l’Etna, è uno dei territori magici e onirici del nostro Paese. Nel corso della sua storia ha eruttato in continuazione e dunque questo silenzio che mantiene ormai dal 1944 è sicuramente una eccezione. Un territorio pedoclimatico che chiudeva a sud la Campania Felix dei romani con il fertile agro vesuviano. La pressione demografica, iniziata nel ‘600, ha progressivamente ridotto gli spazi agricoli e le costruzioni selvagge degli anni ’60 e ’70 hanno seriamente intaccato la bellezza dei luoghi, un tempo borghi di pescatori o residenze di stile hollywoodiano, come Portici ed Ercolano dove fu costruita la prima ferrovia proprio per collegare i nobili di Chiaia alle loro ville in campagna.
Dal punto di vista enologico, il Vesuvio è stata una delle dispense di Napoli: la corona di vinificatori che circonda la città parte proprio da qui per chiudersi poi al nord della città. Vino, vino e tanto vino per le mille taverne con uva coltivata ma anche comprata ovunque, nel vicino Sannio come in Puglia, finanche in Abruzzo. Poi, appunto, il declino di questo modello a partire dagli anni ’80, la pressione edilizia, lo sbandamento delle aziende tradizionali che si vedevano anno dopo anno ridurre i margini.


A partire dallo scorso decennio però abbiamo potuto registrare una ripresa basata sulla viticoltura di qualità, saldamente legata ai vitigni locali vulcanici, caprettone, catalanesca e piedirosso primi fra tutti, ma anche coda di volpe e, in misura secondaria, falanghina e aglianico. Alcune aziende si sono organizzate per l’accoglienza puntando sull’enorme flusso di turisti che visita Pompei e la Penisola Sorrentina. Certo, ci sono delle contraddizioni incredibili che andrebbero sciolte, prima fra tutte il fatto che il territorio di Pompei, dove l’uva è coltivata persino dentro gli scavi e che serve alla narrazione soprattutto quando si va all’estero, non rientra nella doc.
I vini vesuviani hanno la caratteristica di essere beverini, non impegnativi, sicuramente minerali, sapidi, con il finale amaro. Si accompagnano alla tavola e sono bicchieri della gioia, da bere senza rituali liturgici complessi come la messa ortodossa. Ma riservano anche sorprese inaspettate, come la incredibile longevità di alcuni bianchi che regalano emozioni dopo molti anni. Il Vesuvio insomma è sicuramente la nuova frontiera della piccola ma caratterizzata viticultura campana e questi tre vini che vi segnaliamo lo dimostrano.

LA BOLLICINA

Casa Setaro - Caprettone Spumante Metodo Classico "Pietrafumante"

Questo metodo classico con una sosta sui lieviti di 30 mesi dimostra come sia interessante questa corsa alla spumantizzazione che del resto riflette la mentalità anarchica italiana. 


Un vino che nel 2017 ha vinto il primo Napoli Wine Challenge. Perlage fine e sottile, sensazione di freschezza, chiusura amarognola, beva decisamente intensa.
Circa 18 euro in enoteca.
Casa Setaro è nel comune di Trecase, ha circa 12 ettari di vigna biologica che sul Vesuvio sono una fazenda argentina, piantati nel 1960.

IL BIANCO

Cantine Olivella - Lacrima bianco Lacryma Christi 2018

Ritroviamo il caprettone, stavolta insieme alla catalanesca, uva tipica del territorio a nord del Vesuvio, di tradizione soprattutto nel comune di Somma Vesuviana. Il progetto di Cantine Olivella si basa su queste due uve e sul piedirosso, senza altri vitigni autoctoni campani. Come sappiano la 2018 è stata una vendemmia difficile in Campania per le continue piogge di agosto che hanno messo in difficoltà la sanità delle uve. 


In questa apparizione pubblica il bianco, lavorato solo in acciaio come ormai è tradizione in Campania, si è dimostrato già in ottimo equilibrio, con note floreali di ginestra e di mela al naso e una sostenuta acidità al palato che regala un sorso sottile e compiuto sino alla chiusura amarognola molto precisa.
Circa 10 euro in enoteca
Catrine Olivella è nel comune di Santa Anastasia e lavora in regime biologico sin dal primo anno.

IL ROSSO

Territorio de’ Matroni - Lacryma Christi Rosso 2016

Il giovane Andrea, ultima generazione di una famiglia del territorio, è tornato alle origini laureandosi in enologia a Firenze e facendo esperienza in giro per il mondo, vendemmia dopo vendemmia, dalla Napa Valley all’Australia. E’ tornato con idee molto precise, a cominciare dalla decisione di piantare le viti ad alberello (prima volta sul Vesuvio) per poi passare alla conduzione biologica e in prospettiva biodinamica. Si tratta di un Piedirosso in purezza, fermentato in acciaio ed evoluto in botte grande. 


Un vino elegante, floreale, appena un po’ fruttato, con rimandi fumé a fare da corollario. In bocca essenziale, freschissimo, tannini setosi, chiusura piacevolmente amarognola.
Circa 15 euro in enoteca.
Cantine Matrone si trova a Boscotrecase, ha quasi cinque ettari di vigneto e produce in biologico.

Villa Russiz - Collio Chardonnay "Grǎfin de la Tour" 2014


di Carlo Macchi

Tranquilli, il caldo non mi ha fatto male! Vi parlo di uno chardonnay in legno della “tremenda” vendemmia 2014 perché non ho mai sentito tanto frutto “coprire” così bene il legno, tanta freschezza in un corpo dove la barrique lascia il segno, tanta finezza in una vendemmia tanto difficile. 


Un vino esemplare

Riflessioni guidaiole del primo agosto!


di Carlo Macchi

Con il caldo interrompo la tradizione che mi vede pubblicare nel gruppo IGP una recensione di un locale o di un vino per parlare… di vino. Più in particolare di guide vini, che in questi giorni (almeno per quelle cartacee) stanno chiudendo il lavoro di degustazione con gli assaggi finali.


A proposito di assaggi…

1.       “Non ti ho mandato i vini perché li valuti sempre male e io mi sono rotto! Sei l’unico (magari non è proprio vero ma non importa) che mi da questi voti bassi”. Al produttore in questione non conviene nemmeno ricordare l’altissimo punteggio ad un suo vino dato due anni fa.
2.       “Non le abbiamo mandato i vini perché quest’anno abbiamo deciso di non mandarli a nessuna guida”. Cosa non vera, dimostrata telefonando ad amici che collaborano con un’importante guida cartacea”
3.       “Guarda, siete gli unici a cui mando i vini, perché tutti gli altri mi trattano malissimo”. Ovvero l’altra faccia della medaglia.
4.       “Scusi, a parte il voto non adeguato,  come ha fatto a recensire il nostro xxxx se non glielo abbiamo mandato?”
“Semplice, l’ho comprato in enoteca!”
“Impossibile, il vino è uscito da pochi giorni”. Segue invio scontrino scannerizzato dell’acquisto, fatto appunto da pochi giorni.
5.       “Non vi ho mandato il vino perché è finito!”
“Se è finito in cantina siamo contenti, ma sicuramente non sarà finito in enoteca o a ristorante e quindi è adesso in commercio.”
“E’ vero, ma…”


Questi sono solo alcuni degli esempi che potrei fare delle difficoltà che ogni anno noi di winesurf e , credo, di qualsiasi altra guida vini, incontriamo nel reperire i campioni per gli assaggi. Naturalmente non considerando tutti quelli che si sono scordati di consegnarli, che ti chiedono di passare a prenderli, che ti vogliono far degustare solo e soltanto in cantina da loro, etc.
Tutte queste difficoltà mi portano ad un'unica conclusione, che si trasforma sempre in un megadomandone finale: per chi vengono fatte le guide vini?
Da sempre, in particolare dalla fine degli anni ottanta quando nacque la guida del Gambero Rosso, nell’aria c’è stato un grande fraintendimento: I produttori hanno sempre visto le guide come un modo a buon mercato per farsi pubblicità (e non si può negare che quella “pubblicità a buon mercato” abbia molto spesso mandato avanti il settore) e quindi, anche per i rapporti di amicizia che nel frattempo si erano creati con i degustatori, ricevere un brutto voto non solo era visto come un danno commerciale, ma quasi come il tradimento di un amico.


Dall’altra parte i lettori (preferisco dire consultatori o fruitori) non hanno mai capito perfettamente che tutto quel lavoro (e vi garantisco, era ed è veramente tanto) era ed è fatto per loro. Per questo siamo passati dall’osannare una guida, giudicandola dio in terra (ma magari consultandola facendosela prestare da un amico), al criticarle tutte in quanto prezzolate, non serie, poco credibili, autoreferenziali, elefantiache, inutili etc.
Quindi, da una parte i produttori si sentono i referenti  reali delle guide e le vogliono a loro immagine e somiglianza, i fruitori non credono (o credono poco) al valore delle guide e nel mezzo ci troviamo noi.


Se questa tendenza continuerà ogni guida vini dovrebbe avere come sottotitolo “Dei vini che i produttori ci hanno inviato” e rischierà, per assurdo, di parlare sempre bene di tutti i vini degustati, altrimenti l’anno dopo non arriveranno i campioni.
Qualcuno potrebbe dire “Basta andare a comprarli e il gioco è fatto!”, peccato che, oltre ad essere finanziariamente insostenibile sia anche materialmente impossibile sia perché richiederebbe un’organizzazione capillare per rintracciarli nelle varie enoteche italiane, sia perché molti vini, al momento dell’assaggio, non sono ancora in commercio. Per qualche vino puoi farlo ma certamente non per tutti.
Quindi si ritorna al punto di partenza: o si parla bene di tutti (o quasi)  o non si fa la guida, ma che guida è una fatta con questo criterio?
Personalmente credo che il solo fruitore di una guida sia il consumatore finale e noi “degustisti”, in futuro, dovremo vestire sempre più i panni dei giornalisti, per andare in cerca delle notizie (alias vini) che ci interessano. Tutto questo fregandosene alla grande se i produttori vogliano o meno farci degustare i loro vini.

Mauro Sebaste - Langhe Bianco "Centobricchi" 2017

di Roberto Giuliani

Un viognier in purezza, e allora? Che c'è di strano? Mauro Sebaste lo fermenta in botti da 400 litri e riesce a tirarne fuori un vino di personalità, intenso, con tanto frutto, erbe aromatiche e una succosità incredibile al palato, con acidità e sapidità generose nonostante l'annata calda. 


Buonissimo!

Miti di un tempo: Litra 1997 Abbazia Santa Anastasia


Forse non tutti se ne ricordano, ma il 1997 è stato in qualche modo uno spartiacque nel mondo del vino italiano, soprattutto dal punto di vista commerciale. Fu declamata annata del secolo, partirono gli acquisti “en primeur” (ovvero di annate ancora non in vendita, da prenotare a scatola chiusa), fu il periodo del trionfo del “nuovo vino italiano”, grazie alla spinta mediatica ottenuta nel decennio precedente con i vini ribelli, i cosiddetti “supertuscan”, ovvero quei vini prodotti al di fuori di DOC e DOCG, come “semplici” IGT o Vini da Tavola, quelli i cui nomi finivano per “aia”, “ello” e via discorrendo e che trascinarono ben presto dal Piemonte alla Sicilia in un percorso alternativo alla ricerca di premi e successi.


Uno degli enologi che aprì la strada al rinnovamento fu certamente Giacomo Tachis, un rinnovamento che coinvolse prima di tutto il comparto enologico e che fece presto proseliti in varie parti d’Italia, non sempre con gli stessi risultati qualitativi.
Oggi, quell’immagine del super vino si è un po’ sgonfiata, progressivamente si è passati dalle concentrazioni esasperate e l’abuso di legno piccolo, alla ricerca di un sempre minore e garbato intervento enologico, ma anche a una maggiore comprensione nei confronti delle piante: continuare a forzare sulle basse rese, su produzioni sempre più irrisorie per ceppo, significava anche produrre squilibri non considerati, soprattutto man mano che il clima andava trasformandosi (vedi una gradazione alcolica sempre più alta e un’acidità sempre meno adeguata, correzioni e aggiustamenti che non consentono al vino di trovare i propri equilibri naturali); inoltre le mode passano, si sa, fare vini potenti significa che sono prodotti più da guida che da pasto, la richiesta si è poco a poco spostata su vini meno manipolati e più digeribili, termine ancora troppo poco considerato per il vino, mentre sul cibo è essenziale.
La crescita esponenziale nel terzo millennio di vini biologici e biodinamici, la dice lunga sulle nuove strade che questa bevanda sta prendendo, soprattutto oggi si vogliono vini che non stancano, più “veri”, eccitanti, magari anche leggeri ma che abbiano qualcosa da raccontare del luogo dove nascono, la prova del nove è sempre a tavola: se la bottiglia viene velocemente finita, vuol dire che ha raggiunto il suo obiettivo principale.

Abbazia Santa Anastasia - Panorama sui vigneti

E il Litra 1997 dove si colloca? Beh, il periodo era quello che abbiamo descritto, quindi non può esimersi da avere certe caratteristiche, però ha dalla sua una tenuta e una sorprendente vitalità che testimoniano comunque una qualità non comune.
Vado in cantina e prelevo una delle due bottiglie che conservo dall’anno 2000.
Nonostante sia stata coricata per quasi vent’anni, il tappo di 5 cm. è in perfette condizioni, solo circa 1 centimetro è stato raggiunto dal liquido. Odore perfetto, di vino maturo e null’altro.


Andiamo a vedere il contenuto: il colore è un granato ancora compattissimo, senza cedimenti; la tecnica enologica è indubbiamente perfetta, trovare un vino chiuso vent’anni in bottiglia senza alcuna riduzione evidente è fenomeno davvero raro. Accostato al naso non si fa fatica a riconoscere i tratti del cabernet sauvignon, non solo, ma gli anni sembra portarseli molto bene; c’è ancora un frutto vivo e carnoso che avvolge i sensi odorosi, prugna, ribes nero neanche tanto in confettura (ne capitano di ben più maturi con meno anni di età), sensazioni di muschio, leggero catrame, ematite, liquirizia, scatola di sigari, cacao amaro, cenni di cuoio.


All’assaggio rivela la sua grassezza, la ricerca di una concentrazione che, però, trova bilanciamento in un’acidità decisa che richiama il cedro, un elemento che costituisce la giusta impalcatura per dare slancio al sorso; acidità e cremosità che convivono senza dare l’impressione di essere arrivati al capolinea.
Questo è un eccellente risultato, non c’è che dire, anche se, onestamente, l’impressione è di un vino un po’ “artificiale”, troppo voluto a tavolino, ineccepibile sul piano tecnico ma che non mi emoziona né mi trasporta nell’amata Sicilia. Lo stesso approccio che ho sempre ritrovato in vini come il sardo Turriga, sempre opera di Tachis. Erano altri tempi, altre visioni, probabilmente necessarie per smuovere quella polvere che, volenti o nolenti, si era depositata sull’immagine del vino italiano. Del resto lo stesso Tachis in epoca più recente aveva cambiato rotta in modo evidente, tanto da promuovere il vino “sano”, meno lavorato e proveniente da vigne trattate il meno possibile.
Come noi (che ne siamo i creatori) il vino ha un corpo e un’anima; quegli anni furono dedicati al corpo…

Tenuta di Saragano – Sagrantino di Montefalco DOCG 2012


Di Andrea Petrini

Non sono un amante del genere, soprattutto se bevuto in estate, ma questo Sagrantino di Montefalco, da viti piantate a 500 metri, la massima altitudine in tutto il comprensorio della DOCG, è assolutamente sorprendente per croccantezza di frutto, freschezza ed eleganza grazie ad una perfetta fusione del tannino all’interno del vino. 


Un piacere berlo. Balla scoperta!

http://www.tenutepongelli.it

L’utopia di Paolo Ghislandi raccontata in 10 annate di Bruma d’Autunno

Ho conosciuto Paolo Ghislandi, deus ex  machina di Cascina I Carpini, oltre 12 anni fa quando, assieme a pochi altri produttori, aveva già intuito le potenzialità dei social network che a quei tempi, per il mondo del vino, avevano un solo nome: Vinix. Proprio su questa piattaforma, ideata da Filippo Ronco, ho conosciuto e apprezzato Paolo che, in maniera molto temeraria considerando il periodo, si era messo a scrivere post su post al fine di far conoscere l’azienda agricola e la sua filosofia ad un risicato, ma competente, pubblico di enonauti incalliti della prima generazione. 

Cascina I Carpini

Col tempo, la stima e l’amicizia per Paolo sono talmente cresciute che andai a trovarlo a Pozzol Groppo (AL), sui Colli Tortonesi, dove attorno al 1998, laddove c’erano solo prati, boschi immacolati e una nutrita fauna, sono stati piantati i primi due vigneti di timorasso e barbera che, nei sogni di Paolo e sua sorella Maddalena, dovevano dar vita a quelli che sono stati ribattezzati “vini d’arte”, cioè vini buoni prodotti nella piena naturalità di un processo che, unendo tradizione e tecnica, rispetti appieno la Terra e la vite fornendo prodotti in grado di evolvere nel tempo.


Il pallino del lungo affinamento dei vini l’ha sempre avuto tanto che, qualche tempo fa, Paolo Ghislandi ha voluto organizzare a Roma una bellissima verticale di Bruma di Autunno (100% barbera) proprio perché voleva capire, anche lui stesso, a che punto era il perseguimento di una delle sue tante “utopie” da vignaiolo.


Il vino, come già scritto, deriva da una vigna di barbera del 1926 acquisitata nel 2003 con l’idea di produrre, un po’ pazzamente, una Barbera da lungo invecchiamento alla stregua, ad esempio, di un Brunello di Montalcino o di un Barolo. Come può avvenire tutto ciò? Secondo Paolo attraverso una cura maniacale di tutto il processo produttivo che parte con la raccolta dell’uva in piena maturazione (la barbera di certo non ha problemi di caduta di acidità) che, successivamente, viene fermentata lentamente in acciaio con solo lieviti indigeni. Il vino, appena terminata la fermentazione, con tutte le sue fecce, viene passato in tonneaux di rovere francese (media tostatura) a grana fine per tre anni dopo di che, stavolta in acciaio, si riassemblano tutti i tonneaux in una massa unica per due anni. Successivamene il vino, giunto ormai ad un buon punto di equilibrio, passa in bottiglia dove affinerà per altri 4 anni minimo. Riepilogando, perciò, Bruma d’Autunno è una Barbera che esce sul mercato dopo 10 anni per cui, facendo due conti, l’ultima annata in commercio è la 2009. 

vigna storica del 1926

Paolo Ghislandi è un utopista o un visionario? Dopo tanto tempo ancora non l’ho capito ma per comprendere al meglio la sua filosofia gettiamoci nelle note di degustazione della verticale di Bruma d’Autunno che parte dall’annata 2013 (ovviamente in affinamento) per terminare con la mitica prima annata ovvero la 2004.


Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2013 (in affinamento): troppo “giovane” per essere valutato, ad oggi è una sorta di grumo alcolico ricco di frutta rossa pronta ad esplodere.

Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2012 (in affinamento): il vino comincia pian piano a delinearsi, le nubi tendono a diradarsi e ne esce un barbera più aperto e gentile del precedente, ricco di spunti fruttati e acidità che tende ad ingentilire la componente alcolica ancora vibrante.

Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2011 (in affinamento): l’annata calda si fa sentire rendendo il vino apparentemente più pacioccone del normale. La frutta, bella densa, in questa annata è accompagnata aromaticamente da un bel respiro balsamico. Finale lungo, caldo, sapido.

Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2010 (in affinamento): pur non essendo ancora in commercio, andrà l’anno prossimo, la grande annata non è possibile non sentirla in questo barbera già di grande piacevolezza e complessità dove il naso di frutta croccante e fiori, lascia spazio alla piccola speziatura e alle erbe aromatiche. Sorso già ben equilibrato, scattante, un vino che stupisce già per freschezza e bevibilità. Forse il finale chiude troppo presto ma stiamo cercando il pelo nell’uovo. Ottimo futuro.

Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2009: la prima annata in commercio (!!!) regala un impatto aromatico ricco di note di marasca sotto spirito, prugne rosse, spezie nere e sensazioni boschive. Al gusto è assolutamente coerente col naso, succoso, non troppo esuberante nel finale decisamente sapido.



Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2008: cominciano, dal punto di vista aromatico, a spuntare i primi odori terziari che, dopo un primo attacco fruttato, tendono ad emergere attraverso ricordi di sottobosco, noce, fiori rossi secchi, spezie orientali. Sorso intrigante, potente e fresco, avvolgente con bella chiusura sapida rinvigorita da una acidità scalpitante. 

Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2007: apre complesso su note di torrefazione, ginseng, prugna secca, pepe, soffi balsamici. Al sorso si fa apprezzare per buon equilibrio tattile, non ha una persistenza fenomenale ma ha tanto buon sapore e succosità.

Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2006: non so se dipende dell’annata non certo esaltante o della bottiglia non in forma ma questo barbera ha il profilo aromatico meno convincente della batteria visto che l’olfatto è quasi monopolizzato da una sensazione vegetale che tende a coprire i più eleganti aromi di frutta nera di rovo, erbe aromatiche e spezie. Anche il sorso non convince, ancora leggermente scomposto e con un alcol un po’ troppo presente.

Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2005: Paolo Ghislandi, tra il serio e il faceto, durante la degustazione ripeteva spesso che il Bruma d’Autunno si fa più giovane col passare del tempo. Pensavo, ovviamente, stesse scherzando ma così non era visto che questo millesimo al naso si esprime con una complessità aromatica quasi da vino appena messo in commercio. Si percepiscono, infatti, intense sensazioni di ciliegia, fragola macerata, cera, fiori rossi ed una intensa speziatura a corredo. Entra in bocca con eleganza, vibrante freschezza e gustosa sapidità. Polposo e ricco chiude di bella persistenza ed armonia.


Cascina I Carpini - Bruma d’Autunno 2004: e quando pensi che il risultato della precedente annata sia irripetibile, come un 13 al totocalcio, arriva la 2004 con un naso giovane e complesso dove ritrovo di nuovo la cera d’api, la frutta nera polposa, le erbe officinali, le bacche, sbuffi di torrefazione e echi balsamici. Al sorso non è un grande barbera, vibrante, succoso, intenso ed elegante. Non so se rappresenti la quadratura del cerchio rispetto al sogno iniziale di Paolo ma la strada è definita.


Alfio Nicolodi - Vigneti delle Dolomiti IGT Schiava Nera 2016


di Lorenzo Colombo

La Schiava è un vitigno che ci piace molto e spesso beviamo vini prodotti con quest’uva. Li troviamo estremamente duttili e di facile abbinamento con una moltitudine di piatti. 


Quando poi se ne trova una che regge benissimo anche il trascorrere del tempo, come quella prodotta da Alfio Nicolodi si raggiungono i vertici dell’appagamento.

Cristina Inganni e i primi venti anni di Cantrina

di Lorenzo Colombo

Conosciamo Cristina Inganni da molti anni, praticamente dall’inizio della sua avventura nel mondo del vino; ci era stata presentata da un’amica produttrice in quel di Lugana e quindi abbiamo potuto assaggiare i suoi vini diverse volte nel corso degli anni.
Più tardi abbiamo conosciuto anche Diego Lavo che è diventato successivamente comproprietario dell’azienda Cantrina.

Cristina Inganni e la sua famiglia

Cantrina è una piccola frazione del comune di Bedizzole, qui nel 1999 Cristina Inganni decide di portare avanti il sogno del marito Dario Dattoli ristoratore bresciano -morto in un incidente l’anno prima- appassionato di vini francesi, aveva impiantato una decina d’anni prima alcune vigne per la produzione di vini da consumarsi nei propri locali.
In quest’impresa le viene in aiuto Diego Lavo, che aveva un’azienda specializzata in impianti di vigneti.


Nascono così i primi tre vini, commercializzati a partire dall’annata 1999.
Nel corso degli anni la superficie vitata è aumentata, ora sono otto gli ettari a vigneto, divisi in tre diversi appezzamenti, per una produzione di circa 40 mila bottiglie, suddivise in otto diverse etichette.
In occasione del ventennale della cantina, sono stati proposte tre verticali dei primi vini prodotti dall’azienda, dalla prima annata, ovvero la 1999, sino a quelle attualmente in commercio.

I tre vini, che nel corso degli anni hanno visto notevoli cambiamenti nella loro elaborazione sono: Igt Benaco Bresciano Bianco “Rinè”, Igt Benaco Bresciano Rosso “Nepomuceno” e Vino Bianco Passito “Sole di Dario”.

Degustazione del ventennale

Noi c’eravamo, ecco quindi quant’abbiamo riportato:

Rinè

Attualmente il vino, che nel corso degli anni ha visto diverse modifiche, sia nella sua composizione, come nello stile produttivo, è composto da un blend di Riesling (65%), Chardonnay (30%) e Incrocio Manzoni (5%).

Riesling ed Incrocio Manzoni fermentano in acciaio, dove maturano sulle proprie fecce per sei mesi, mentre parte dello Chardonnay fermenta in tonneaux dove poi sosta per cinque mesi. La resa è di 40 hl/ettaro e le bottiglie prodotte sono 3.500. Parte delle uve provengono dai primi impianti, quelli del 1991.

1999 – Color giallo dorato luminoso.
Intenso al naso, presenta decise note tostate e di caffè, il legno, ancora in evidenza, non è stato completamente assorbito.
Discretamente strutturato, sapido e succoso, ancora decisamente fresco, con legno in evidenza e lunga persistenza. 

2002 – Color oro antico, intenso e luminoso.
Mediamente intenso al naso, presenta note tostate ed affumicate, con leggeri accenni d’idrocarburi.Succoso e fresco, con sentori di legno dolce e note aromatiche, buona la persistenza. E’ il vino che abbiamo preferito in questa batteria, ci ha ricordato stilisticamente alcuni Borgogna. 


2005 – Color oro luminoso.
Di media intensità olfattiva, si colgono leggere note di legno ed accenni idrocarburici. Fresco e sapido, leggermente esile, con sentori d’idrocarburi su lunga persistenza. 

2008 – Giallo dorato.
Discretamente intenso al naso, con note tostate-vanigliate e sentori di fiori appassiti.
Succoso e molto fresco, verticale, con bella vena acida e note minerali, lunga la sua persistenza. Altra annata da porre ai vertici. 

2013 – Color paglierino scarico, con riflessi verdolini.
Di buona intensità olfattiva, minerale, elegante, con sentori d’idrocarburi. Discretamente strutturato, fresco, sapido verticale, con spiccata vena acida (citrino) e lunga persistenza. 

2017 (Non ancora in commercio) – Verdolino luminoso.
Di buona intensità olfattiva, fresco e minerale, presenta sentori d’agrumi.
Fresco, succoso, agrumato, minerale, leggermente esile, di media persistenza. Il vino che maggiormente abbiamo apprezzato è stato quello dell’annata 2002, seguito a ruota a quello del 2008.

Nepomuceno

Anche questo vino ha subito diverse modifiche nel corso degli anni, la sua composizione attuale prevede: 70% Merlot, 15% Rebo e 15% Marzemino.
Le uve provengono da un vigneto di 1,35 ettari, collocato a circa 200 metri d’altitudine che fornisce una resa di 50 ettolitri/ha.La fermentazione avviene in acciaio, con lieviti indigeni, mentre l’affinamento, per 18 mesi in tonneaux. Dopo l’assemblaggio la massa riposa per ulteriori 18 mesi in botti di grandi dimensioni. Se ne producono circa 6.000 bottiglie/anno.

1999 – Bellissimo il colore, rubino-purpureo luminoso. Quasi impensabile per un vino di vent’anni d’età.
Intenso al naso, vegetale (peperone), con frutto rosso ancora in evidenza (altra cosa impressionante). Freschissimo e succoso, con un bel frutto rosso e sentori di radici, buona la persistenza. In tutta onestà non ci aspettavamo una simile tenuta nel tempo, soprattutto su simili livelli. 

2001 – Campione purtroppo ingiudicabile, tutte le bottiglie aperte presentavano purtroppo sentori di riduzione e ossidazione piuttosto pronunciati. Peccato.

2005 – Rubino-granato, intenso e luminoso.
Mediamente intenso al naso, elegante, presenta leggere note balsamiche e di confettura.
Fresco, balsamico, succoso, con un bel frutto rosso ed una buona trama tannica, note dolci su lunga persistenza. 


2007 – Profondissimo il colore, unghia purpurea.
Bel naso, intenso e balsamico, con accenni di radici e di salamoia.
Molto fresco, elegante e complesso, con tannini importanti ma mai fastidiosi, sentori di radici su lunghissima persistenza. 

2011 – Color rubino-purpureo, di discreta intensità.
Mediamente intenso al naso, delicato, con accenni aromatici e leggere note balsamiche.
Fresco, pulito, fruttato, succoso, con tannini in perfetto equilibrio e buona persistenza. 86-87

2015 (Non ancora in commercio) – Rubino-purpureo-violaceo.
Di media intensità olfattiva, fruttato, presenta note balsamiche. Fresco e pulito, con un bel frutto ed una buona persistenza. Ancora molto giovane. 

Grandi vini quelli delle annate 1999, 2007 e 2005.

Sole di Dario

Suavignon, Semillion e Riesling compongono questo vino. Piantato nel 1991 con densità di 5.000 ceppi/ettaro, il piccolo vigneto, collocato accanto alla casa padronale s’estende su 0,3 ettari, la resa è di 16,5 ettolitri/ha. Prodotto unicamente in annate che possono garantirne la qualità, dopo un’accurata selezione le uve vengono poste ad appassire in cassette per tre mesi, l fermentazione avviene in barriques nuove, dove il vino rimane in affinamento per ventiquattro mesi. Nell’annata 2012 ne sono state prodotte 1.290 (mezze) bottiglie.

1999 – Color ambrato scarico.
Intenso al naso, presenta elegantissime note ossidative e sentori di caramella al rabarbaro.
Fresco, verticale, succoso, elegantissimo, si colgono sentori di rabarbaro e di caramella all’orzo, lunghissima la sua persistenza. Un prodotto di classe assoluta che ha retto meravigliosamente il passare del tempo. 

2001 – Ambrato-topazio di buona intensità.
Intenso al naso, con sentori di caramella all’orzo. Molto intenso al palato, piacevolmente ossidativo (ci ricorda uno Sherry).


2006 – Color ambrato-topazio.
Discretamente intenso al naso, elegante, con sentori di caramella all’orzo, datteri e fichi secchi. Fresco al palato, dove presenta una leggera pungenza, lunga la persistenza. 

2009 – Ambrato luminoso.
Mediamente intenso al naso, dove si coglie frutta secca e sentori d’orzata. Fresco ed intenso alla bocca, discreta la persistenza. 

2012 – Colore tra l’ambrato e l’oro antico.
Discretamente intenso, al naso presenta sentori di canditi, datteri e fichi secchi. Fresco e succoso, si colgono note di scorza d’arancio candito, lunghissima la sua persistenza. 

Grandissimo (secondo noi) il 1999, seguito dal 2012.

Castello di Volpaia - Chianti Classico Gran Selezione DOCG "Il Puro" 2015

di Stefano Tesi

Mi era piaciuto alla cieca alle Anteprime e mi è piaciuto anche di più adesso, a conferma che il caldo penalizza sì i vini, ma quelli cattivi: un cru di Sangiovese autoctono 100%, bio, da una vigna di 60 anni. 


Rubino pieno,  naso asciutto e elegante, bocca ricca ma sobria, con accenni di liquirizia e spezie finali. Sontuoso.

Mangiare bene in Toscana: Ristorante Mulino a Vento - Fattoria Lavacchio

Più che l’emaciato Don Chisciotte, qui andrebbe a nozze il fidato Sancho, nel senso di Panza.
Perché, sì, c’è in effetti un mulino settecentesco, costruito tra l’altro in base ai disegni leonardeschi (ottima scusa per una visita culturale, considerate le celebrazioni in corso per il 500° della morte del genio toscano), contro cui l’impavido cavaliere potrebbe scagliarsi. Ma c’è soprattutto un ristorante, anzi un agriristorante visto che fa parte della Fattoria di Lavacchio e cucina piatti basati sui prodotti aziendali, più che meritevole. Su cui il fidato scudiero del cavaliere potrebbe fiondarsi con pari slancio.


La formula è collaudata: un gran bel posto panoramico, con tavoli all’aperto in primavera ed estate (la quota di 450 metri giova assai alla frescura), servizio, arredi e apparecchiature molto lontani dalla rusticità gratuita di certi locali consimili, tutto intorno le vigne e i vini di una cantina affermata e bio come quella di Lavacchio, una zona di pregio come quella del Chianti Rufina.
Il valore aggiunto però – parrà banale, ma non lo è affatto – sono proprio i piatti. I quali  appunto beneficiano non solo degli ingredienti aziendali a chilometro zero, che non è poco, ma pure della mano felice e delle reminiscenze di uno chef autoctono come Mirko Margheri, tornato nella terra natia dopo le fatali e formative esperienze lontano da casa.
Qui però casca l’asino. O, meglio, l’asino sta in piedi.


Perché tra il dire e il fare ce ne corre e noi abbiamo potuto personalmente sperimentare che in questo caso le due cose coincidono, nonostante i pericoli a cui spesso la dialettica e il marketing espongono i cuochi quando, tra le parole che li presentano, leggi “cucina della memoria” e la pascoliana “aurorale meraviglia”, con l’immancabile contorno, magari veritiero ma ovvio, di orti domestici o di mamme e nonne in cucina.
Insomma c’è il rischio dell’infiocchettamento.

Tortellino rivisitato
Invece, sorpresa: l’uovo cotto a bassa temperatura, servito piccante su una crema di verdura, ha una sapidità e un’abbondanza perfino opulenta, inusuali in questo tipo di portata, e i già ottimi gnudi di pecorino alla crema di fave e purè di pere sono esaltati dall’aura del profumo del baccello che li precede. Il “tortellino rivisitato” ripieno di bardiccio (il gustoso insaccato povero tipico della Val di Sieve) e crema di formaggio, con spolverata di prosciutto crudo, si scopre essere una molto godibile rilettura del tortellino alla panna degli anni ’60, mentre attinge al classico cortile contadino anche il coniglio in tre preparazioni: coscio ripieno con carciofi, lombo con pomodori secchi, costine con crema di mele e cannella.
Insomma per una volta la parola “rivisitazione” non è usata a sproposito e si esce soddisfatti, convinti e satolli.
In cantina, ovviamente, l’agriristorante è tenuto a servire tutti i vini della Fattoria di Lavacchio, ed è un bel bere, oltre alle bollicine del Carpineto Brut e al Dea Rosa della Tenuta Buonamico come rosato. Spesa sui cinquanta euro, vini esclusi.

RISTORANTE MULINO A VENTO - FATTORIA LAVACCHIO
Via di Montefiesole 48, Pontassieve
Tel. 055/8317472
Aperto solo a cena (19.30 alle 22,45) e nei weekend anche a pranzo, chiuso mercoledì.