Grandi vini italiani: l’Erbaluce di Caluso “13 Mesi” di Benito Favaro alla prova del tempo

Parlare di vino del Canavese, attualmente, non è assolutamente facile sia a causa di una comunicazione che solo da poco tempo sta decollando sia, soprattutto per i vini bianchi, a causa di una qualità media altalenante che spesso e volentieri non riesce a mantenere il passo di una concorrenza sempre più agguerrita anche a livello regionale. Eppure, le potenzialità per produrre grandissimi vini non mancano vista la bellezza e la propensione del territorio alla viticoltura che nel Canavese si pratica fin dai tempi dei salassi, popolo di origine celtica che, come ci tramanda Plinio, conservavano già al tempo il vino in botti di legno.
Ma dove siamo esattamente? Il Canavese è una vasta area che si estende tra laghi, castelli, borghi antichi e boschi fatati, nella provincia di Torino, area Nord e nord-Est, fino alla Valle D’Aosta, comprendendo anche una piccola parte delle provincie di Biella e di Vercelli. Caratteristica fondamentale di questo territorio è l’anfiteatro morenico di Ivrea, risalente al periodo Quaternario, che fu creato durante le glaciazioni dal trasporto dei sedimenti del grande ghiacciaio Balteo che, dall’attuale Svizzera, scendeva fino all’attuale area canavesana di vinificazione caratterizzata oggi da un microclima mite, protetto dalle colline ed equilibrato dalla presenza di numerosi laghi e da terreni poveri di azoto, ricchi di potassio e fosforo e con un ph quasi sempre sub-acido.

Nel Canavese, e in particolar modo sulle colline di Piverone, cuore dell’areale di produzione di Caluso, dove il vitigno erbaluce è il re della DOCG Erbaluce di Caluso, nel 1992 nasce quella che oggi è per me una delle aziende agricole “faro” di tutta la denominazione: Favaro Benito. Il signor Benito, così come racconta suo figlio Camillo, oggi alle redini dell’azienda di famiglia, è un pre-pensionato Olivetti che da sempre ha avuto la passione per il vino del suo territorio e così, a 52 anni, è tornato nel suo paese natale, Piverone, con l’intenzione di acquistare vigne solo ed esclusivamente nelle zone più vocate ovvero in quelle che da giovane gli avevano indicato i vecchi del posto e da cui, senza alcun dubbio, proveniva il vino più buono. La scelta della zona fu abbastanza facile: il neo vignaiolo Benito Favaro scelse senza ombra di dubbio la zona de “Le Chiusure” i cui terreni, circa un ettaro diviso in sette parcelle, furono al tempo quasi regalati visto che, racconta sempre Camillo, la spesa maggiore fu quella per il notaio visto che si dovevano stipulare otto atti notarili.

Area produzione Caluso

Le prime vinificazioni, sperimentali, sono avvenute nel 1996 e 1997 mentre la prima annata uscita in commercio, parliamo sempre di pochissime bottiglie, è stata la 1998. Racconta Camillo:”A quei tempi cercavi di far assaggiare l’Erbaluce, lo regalavi anche, ma non te lo ricompravano per due motivi: c’era, e c’è forse ancora, un retaggio di Erbaluce di Cantine Sociali che davano vita a prodotti di poca qualità per cui, anche se il nostro vino era forse migliore, i potenziali clienti spesso non lo volevano nemmeno assaggiare. Il secondo motivo era che il vino era acido, tanto acido, e in quegli anni la moda era quella dei vini bianchi morbidi e legnosi. L’Erbaluce, come caratteristiche intrinseche, non ha nulla di tutto ciò visto che è duro come il ferro e ha una acidità fissa molto molto alta”.

credit: Camillo Favaro

I primi anni, perciò, oltre ad essere stati difficili a livello di vendite sono stati complicati anche per ciò che concerne la filosofia di produzione visto che, racconta sempre Camillo, all’inizio si cercava di produrre qualcosa di decente ispirandosi al vino di qualche amico produttore e ai protocolli di un enologo, che è ancora lo stesso, i quali venivano seguiti pedissequamente dai Favaro che al tempo poco o nulla sapevano di vinificazione.

Camillo e Benito Favaro

Col tempo e la relativa esperienza Benito e Camillo, che dal 2007 lavora è il deus ex machina della sua azienda, hanno capito che si poteva dar vita ad un Erbaluce di Caluso di grande qualità grazie ad una maggiore attenzione in vigna (abbassamento drastico delle rese per ettaro) ed evitando sovrastrutture enologiche e così, anche grazie ad una moda che pian pian ha virato verso i vini più acidi e meno rotondi, hanno cominciato a vendere sempre più bottiglie diventando oggi come oggi una delle aziende “cult” in Italia soprattutto se, come accade al sottoscritto, si ama bere grandi vini bianchi con qualche anno sulle spalle.

Vigneti. Credit: Camillo Favaro

I Favaro producono due tipologie di Erbaluce: Le Chiusure, forse il vino più famoso, che fa solo acciaio e il 13 Mesi che, a differenza del precedente, dall’annata 2010 è composto da un 70% di erbaluce che fermenta in acciaio e successivamente affina in vasche di cemento non vetrificato da 7hl senza subire in alcun modo bâtonnage. Il restante 30% fermenta in legno e viene successivamente affinato in barriques di rovere francese, mai di primo passaggio dove subisce, se necessario, pochi interventi di bâtonnage. Le due parti vengono assemblate dopo 12/13 mesi di affinamento e imbottigliate dopo 1 mese.


Con Camillo, giunto appositamente a Roma, abbiamo organizzato al Sorì una verticale storica del 13 Mesi. Vediamo come è andata?
Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2017: annata segnata da germogliamento precoce, gelata a fine aprile che ha ridotto del 35% la produzione e siccità nei mesi di luglio e agosto. Vendemmia iniziata il 2 settembre.
Ha solo due anni, si sente nettamente la gioventù di questo erbaluce estremamente vivo e scalpitante che sa di artemisia, sambuco, agrumi salati, erbe campestri e pesca. Bisogna berlo e riberlo per comprendere come l’annata calda, a dispetto delle teorie bislacche da Facebook, quasi non si faccia notare causa vibrazioni intermittenti di luce che rendono questo nettare del Canavese una supernova in attesa di esplosione.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2016: primavera e inizio estate umidi. Il resto dell’estate è stato caratterizzato da fiammate di caldo e frequenti temporali che hanno portato rilevanti escursioni termiche giorno/notte a partire dal 20 agosto. Vendemmia iniziata il 20 settembre.
Quando abbiamo versato questa annata, al di là dei freddi dati tecnici, Camillo è stato abbastanza chiaro ovvero la 2016 è una grandissima annata per l’erbaluce e solo gli stolti potevano sbagliare questo millesimo. In effetti già al naso, rispetto alla precedente annata, si avverte un cambio di passo, questo 13 Mesi risulta completo in ogni sfaccettatura aromatica, inizialmente chiusa ed aristocratica, che col tempo svela una filigrana odorosa che passa dalla pesca alla lavanda per poi virare sul finocchietto selvatico, lo zenzero ed il muschio. Sorso di precisione millimetrica, di riservata eleganza e dannatamente didattico per far capire a tutti i neofiti in cosa dovrebbe consistere l’equilibrio di un grande vino bianco. Finale sapidissimo e lungo come il ricordo che ho ancora di questo erbaluce.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2015: annata simile alla 2017, punte di 40°C a fine giugno/inizio luglio ma con qualche pioggia in più a partire da fine luglio. Vendemmia iniziata l’8 settembre.
Anche in questo caso l’annata calda è stata gestita con sapiente maestria dai Favaro e questo erbaluce ne è la prova provata visto che dopo quattro anni dalla vendemmia il vino non cede di un millimetro a sentori vagamente terziari ed è ancora là, bello dritto, con i suoi stuzzicanti ed esuberanti sentori di cedro, lime, pesca bianca, sambuco e zenzero. Al sorso sfuma lentamente, dopo un assaggio snello e agile, nella suo “classico” finale sapido e fresco ben equilibrato da una struttura la cui spina dorsale cederà il passo, forse, ai miei nipoti.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2014: primavera iniziata in modo regolare e poi, a partire da inizio giugno, si sono avuti continui temporali, anche prolungati. Ciò che ha salvato un po’ l’annata sono stati gli ultimi giorni di agosto dove segnati da sole, ventilazione e caldo. Vendemmia iniziata il 25 settembre.
Sapete cosa è un mantra? Il mantra è una formula verbale che viene ripetuta per un dato numero di volte con lo scopo di ottenere un preciso effetto, spesso un condizionamento mentale o fisico. Quante volte ci hanno ripetuto che in Italia l’annata 2014 è generalmente pessima? Questo mantra, spesso di origine giornalistica, con me non attacca e, soprattutto, non attacca con i vignaioli veri, come ad esempio i Favaro che, nonostante tutti i problemi, indubbi, hanno dato vita ad un 13 Mesi da far strabuzzare gli occhi per purezza e linearità. Non avrà certo le stimmate della 2016 ma questo erbaluce è un inno al vino del nord e, soprattutto, un regalo per chi, come me, ha sempre preferito Audrey Hepburn a Sofia Loren.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2013: estate regolare, molto calda tra metà luglio e metà agosto. Vendemmia iniziata il 16 settembre.
Dopo un’altalena di emozioni abbastanza significative, derivate dagli assaggi precedenti, arriva il vino che durante la verticale, probabilmente, mi ha fatto meno impressione forse perché “schiacciato” tra due annate che, per motivi assolutamente diversi, hanno conquistato il mio cuore di degustatore. Se dovessi berlo da solo, non confrontandolo con gli altri vini, rimarrebbe un’ottima espressione di 13 Mesi, assolutamente integra nei profumi di pesca, mela cotogna, buccia di cedro e toni agrumati che al sorso, sfortunatamente, cedono leggermente il passo ad un ritorno aromatico di legno e vaniglia, assolutamente inaspettato, che rende il finale leggermente più “piacione” rispetto agli altri vini della batteria. Un dettaglio, in un campionato di eccellenza come questo, che fa la differenza.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2010: estate altalenante, piogge frequenti ma sempre intervallate da caldo mai eccessivo. Agosto regolare, senza umidità e con buone escursioni termiche. Vendemmia iniziata il 19 settembre.
Anche stavolta i freddi dati analitici forniti da Camillo potrebbero celare fortemente, se non si passa rapidamente dalla teoria alla pratica, la grandezza assoluta di questa annata che, degustata rigorosamente alla cieca, potrebbe portare i Favaro virtualmente in Mosella per via di un profilo aromatico e gustativo del loro erbaluce che, dopo quasi 10 anni, si trasforma e prende le sembianze di un grande Riesling. Vino assolutamente caleidoscopico che si schiude su un incantevole ventaglio di pesca matura, cedro, pompelmo candito, mughetto, incenso, fiori alpini, sensazioni minerali e, ancora, toni salmastri. In bocca conferma una finezza non comune, con sapidità minerale e freschezza sublimemente dosate e capaci di regalare un finale equilibratissimo e pregno di richiami olfattivi. Un erbaluce che è un monumento al grande vino bianco italiano. Amen!


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2009: l’annata è stata piuttosto simile alla 2013 ma la vera differenza di questo vino la troviamo nella vinificazione dove il 70% era affinato in barriques e il 30% in acciaio inox.
E’ chiaro che dopo la 2010 qualsiasi vino avrebbe sofferto ma, con mia sorpresa, devo dire che anche questa 2009 si è comportata bene regalando una successione aromatica composta da melone invernale, mela cotogna, mandorla amara e ginestra su un tappeto di agrumi canditi. Al sorso l’approccio è nettamente sapido e fruttato, l’apporto del legno è già invidiabilmente integrato e il finale, fresco, intenso e pretenzioso, è un invito a ribere il vino che anche in questo caso sembra molto lontano dall’evidenziare la sua parabola discendente.


E ora chi glielo dice ai tanti appassionati di vino che l’Erbaluce di Caluso dà il meglio di sé con qualche anno sulle spalle? Camillo, ci pensi tu, vero?

Inchiesta: Giornalisti Italiani, esteri, blog, influencer: quale categoria preferite e perché?

Grazie all'input di Carlo Macchi, noi del network di Garantito IGP da oggi lanciamo un sondaggio che rivolgiamo espressamente ai produttori di vino. Leggete e, mi raccomando, partecipate!


Caro produttore,

in tempi in cui il giornalismo enogastronomico italiano (cartaceo e sul web) è considerato sempre meno importante e spesso è surclassato da una parte dalla stampa estera e dall’altra edulcorato da un enorme numero di blog personali, di influencer etc, noi del Gruppo IGP (I Giovani Promettenti) crediamo sia giusto chiedere a voi cosa ne pensate della stampa, italica e non.

Naturalmente non si tratta di fare il nome di X o di Y ma semplicemente di rispondere ad un questionario.

I risultati, rigorosamente anonimi, verranno pubblicati su tutti i giornali del Gruppo IGP

Per rispondere vi consigliamo di copiare direttamente le domande su una mail del vostro sistema di posta (outlook o altro), rispondere e poi spedire a  redazione@winesurf.it , oppure evidenziare le domande, copiarle su un foglio word, rispondere e poi spedire il tutto, sempre per mail  a redazione@winesurf.it. Per chiarimenti o informazioni scrivete sempre a redazione@winesurf.it

Questionario


Vi è chiara la differenza tra giornalista e blogger?     SI      NO
Vi è chiara la differenza tra blogger e influencer?     SI       NO

Nel caso rispondiate si ad una o a tutte e due le domande, in poche parole, in cosa consistono le differenze?
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Mediamente quanti giornalisti (cartacei e web) italiani  visitano in una anno la vostra azienda?_______
Mediamente quanti giornalisti (cartacei e web) esteri  visitano in una anno la vostra azienda?_________
Mediamente quanti blogger e/o influencer, italiani visitano in un anno la vostra azienda?__________
Mediamente quanti blogger e/o influencer, esteri visitano in un anno la vostra azienda?________
Vedete delle differenze di approccio fra le categorie?   SI       NO

Se si quali?
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Avete ottenuto maggiori ritorni (pubblicitari, di immagine, di vendite o altro) dalla carta stampata e dal mondo del web estero o dalla  carta stampata e dal mondo del web italiano?________________________________________________________________________________________________________________________________

Avete ottenuto maggiori ritorni (pubblicitari, di immagine, di vendite o altro) dalla carta stampata italiana o dal mondo del web italiano?_________________________________________________________
Sul web avete ottenuto maggiori ritorni ((pubblicitari, di immagine, di vendite o altro) da giornali online, da blog  o da influencer?________________________________________________________________________________________________________________________________

Credete sia più importante dialogare con la stampa estera o con quella italiana?______________________
Credete che i giornalisti esteri siano più preparati di quelli italiani?      SI   NO
Credete che in generale i giornalisti siano più preparati dei blogger?   SI   NO
Credete che in generale i giornalisti siano più preparati degli influencer?  SI  NO
Qual è il maggior pregio e il peggior difetto dei giornalisti italiani?
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Qual è il maggior pregio e il peggior difetto dei giornalisti esteri
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Qual è il maggior pregio e il peggior difetto dei blogger italiani
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Qual è il maggior pregio e il peggior difetto dei blogger esteri
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Qual è il maggior pregio e il peggior difetto degli influencer italiani?
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Quale consiglio dareste ai giornalisti italiani?
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Quale consiglio dareste ai giornalisti esteri?
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Quale consiglio dareste ai blogger italiani?
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Quale consiglio dareste ai blogger esteri?
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Quale consiglio dareste agli influencer italiani?
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Vi sentite di aggiungere qualcosa? Vi ricordiamo che i commenti, come il questionario, saranno rigorosamente anonimi.
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Vi ringraziamo per la vostra disponibilità



Fattoria Nittardi - Maremma Toscana Bianco Doc Vermentino “BEN” 2018


di Lorenzo Colombo

BEN, abbreviazione di Beniamino, nome tradizionalmente dato al figlio più giovane e più atteso della famiglia e questo Vermentino della Maremma è il primo, da tempo desiderato, vino bianco di Nittardi.


Fresco, sapido, con sentori di fieno ed erbe officinali e con un fin di bocca piacevolmente amaricante.

                                      www.nittardi.com


Piovene Porto Godi e il suo Sauvignon


di Lorenzo Colombo

Una famiglia radicata sul territorio dei Colli Berici da tempo immemorabile, e già d’allora dedita alla coltivazione della vite, quella di Alessandro Piovene Porto Godi, colui che ha dato il nome all’azienda. Una mappa catastale del 1584 mostra infatti un embrione dell’attuale azienda agricola, allora proprietà di Flavio Barbarano, che per discendenza diretta è arrivata agli attuali proprietari.

vecchia foto

Una proprietà famigliare in tutti i sensi dunque, che vede coinvolti nell’attività produttiva, spesso figli e nipoti di precedenti dipendenti.
La cantina è situata in una grande e complessa struttura, che comprende anche la villa padronale, tutto qui porta il segno del tempo che passa.
Il cambio di passo nella produzione si colloca all’inizio degli anni novanta, e vede impegnate le nuove generazioni. Rinnovamento dei vigneti e dei sesti d’impianto con grande attenzione all’ambiente e netto interesse per il vitigno locale, il Tai Rosso, prodotto in diverse versioni, tra cui quelle concepite per un lungo affinamento.


L’azienda ora dispone di oltre 220 ettari, ventotto dei quali vitati, diverse le varietà coltivate, dal già citato Tai Rosso (attuale nome dato al Tocai Rosso), sino agli internazionali Cabernet Franc e Sauvignon e Merlot.
Questo per quanto riguarda i vitigni a bacca rossa, tra quelli a bacca bianco troviamo Garganega, Pinot bianco e Sauvignon, quest’ultimo frutto della nostra degustazione.
In realtà di Sauvignon se ne producono due: il Fostine (Colli Berici Doc) ed il Campigie (Igt Veneto).


Il primo viene ottenuto da un singolo vigneto policlonale, sitato in pianura (30 metri slm l’altitudine), esposto a sud-est su suolo calcareo, con densità di 4.000 ceppi/ettaro, i vigneti sono stati impiantati parte nel 1986 e parte nel 2002. Fermentazione ed affinamento avvengono in acciaio. Circa 11.000 le bottiglie prodotte annualmente.

Assai diverso il Campigie, che viene affinato in barrique ed è ottenuto dalla raccolta di uve sovramature in un vigneto policlonale situato a Toare di Villaga, sede dell’azienda, esposto a sud, su suoli calcarei ad altitudini variabili tra i 30 ed i 70 metri slm, densità d’impianto di 5.000 ceppi/ha e vigneti impiantati nel 1986 e nel 2003. La fermentazione avviene in acciaio mentre l’affinamento in barriques di diverse essenze (acacia e rovere) per sei-otto mesi e per almeno altri sei in bottiglia. La produzione è di circa 4.000 bottiglie/anno.


Di quest’ultimo vino abbiamo assaggiato tre diverse annate ed a colpirci particolarmente sono state la 2015 (strepitosa) e la 2003, dalla quale non ci aspettavamo certamente tanta freschezza.


Due vini con espressioni aromatiche assai diverse, come potete leggere nelle sintetiche note di degustazione.

Vigneto Fostine 2017
Il colore è paglierino-verdolino. Intenso al naso, vegetale, con sentori di pompelmo e sedano. Fresco alla bocca, con bella vena acida, vegetale, tornano i sentori di pompelmo, buona la persistenza.


Campigie 2016
Color paglierino luminoso. Di buona intensità olfattiva, sentori di melone, pompelmo maturo, frutto tropicale, accenni vegetali e leggere note tostate che rimandano al caffè.


Campigie 2015
Color paglierino-verdolino luminoso. Intenso al naso, presenta note boisée, sentori di melone maturo e frutta tropicale. Strutturato, elegante, tornano i sentori di melone maturo, buona la persistenza.

Campigie 2003
Paglierino, con riflessi oro verde, luminoso. Intenso al naso, accenni di verdura, sedano, leggere note di legno. Buona la struttura, il vino è ancora fresco, verticale, con lunghissima persistenza. In ottima forma, considerando l’età, anche se ci pare si sia espresso meglio alla bocca che non al naso.


La Sala - Chianti Classico Gran Selezione Il Torrino 2015

di Stefano Tesi

Assaggiato in chiaro tempo fa e riassaggiato alla cieca alla Collection 2019, con giudizio identico: una sorta di normotipo della categoria, quindi bene per chi la ama e meno per chi la odia: naso intensamente vellutato, bocca importante e solenne, senza spigoli. 


Un vinone ma, nel suo genere, assai godibile

Al Palio delle frittelle c'è un solo vincitore - Garantito IGP

Vorrei preliminarmente rassicurare tutti quelli che, e immagino saranno parecchi, troveranno da ridire su questo articolo, trovandolo parziale e partigiano. Perché, sì: hanno ragione.


Ma per me parlare delle frittelle di San Giuseppe che si fanno a Siena è come parlare delle madeleine proustiane: un tuffo irresistibile nel gusto e nel profumo del passato. Di quelli che, trascorsa l’Epifania, ti fanno contare i giorni nell’attesa che a fine mese le bancarelle cittadine riaprano per le solite, sole sei settimane all’anno. Poi, altri dieci mesi e mezzo di astinenza.


Il loro arrivo – fatte le debite proporzioni - mi ricorda quella stessa, sottile eccitazione che, e i senesi sanno di cosa parlo, immediatamente precede e poi coincide con la “terra in piazza”:  il segno finalmente tangibile che si sta per correre il Palio.
Ecco: il tempo delle frittelle di San Giuseppe è l’ennesima e compiaciuta riscoperta di un imprinting incancellabile. Non solo per me, sia chiaro, ma per chiunque abbia la fortuna di assaggiarle almeno una volta.


Esse non sono però, come la gente ignara potrebbe pensare, delle comuni frittelle di riso. No: le spappolose, aromatizzate con i più bassi sentori e perfino liquori, unte, appiccicose, stucchevoli frittelle di riso cosparse di zucchero a velo le fanno altrove. Quelle sono una specie di dessert da mangiare freddo, col piattino e il cucchiaino altrimenti ci si sbrodola.
Insomma, un altro mondo. Le nostre sono invece dorate e croccanti fuori, cremose e candide dentro. Non colano, non si sbriciolano, non cadono, non si disfano. Anzi, una volta estratte dalla grande padella dove vengono fritte rimangono strettamente legate tra loro, così gli avidi polpastrelli devono brancolare nel cartoccio per afferrarle. E, per mangiarle, nella foga spesso le si prende a brani, con lo zucchero semolato che resta attaccato alle dita per farsi leccare e dopo scricchiola sotto i denti, mentre l’inconfondibile profumo di riso cotto e di scorza di agrumi sale verso le narici, sospinto dal calore della frittella appena estratta dall’olio bollente. Hanno un gusto gentile ma penetrante, una dolcezza prolungata ma non stucchevole, che induce a infiniti bocconi.


Non mi perdo in ricette, che non sono il mio settore (ma chi volesse cimentarsi può trovare istruzioni qui). Dico solo che si fanno con latte, riso, acqua, scorza di limone o arancia e zucchero. E che, salvo preparazioni domestiche, in città le cucinano in diretta e le vendono solo tre baracchini: uno in Piazza del Campo (ai tempi belli, ahimè, erano di più), uno nella zona dell’Acqua Calda, periferia nord-ovest della città, e un’altra in via Massetana Romana, periferia sud. Si tratta di tre gestori diversi, ma producono frittelle comunque e puramente tradizionali, tra le quali non trovo grandi differenze. Tranne il fatto che a comprare le prime ci devi andare a piedi, godendoti però l’incomparabile scenario della Torre del Mangia e il Palazzo Pubblico, mentre a comprare le altre ci vai in macchina e parcheggiando davanti, ma tra i palazzoni grigi di cemento.


Sottolineo quest’aspetto architettonico e ambientale per una ragione precisa: la frittella di san Giuseppe senese va infatti mangiata calda, anzi caldissima, lì per lì, all’aperto, per strada, tirata fuori a mano dal cartoccio, col freddo che morde ed esalta per contrasto le sensazioni. Sporcandosi le dita di zucchero e ustionandosi la lingua. Cosa inevitabile, perché il profumo e l’acquolina in bocca non consentono alternative.


Esperienza tanto notevole da essere consigliabile non solo a chi è di passaggio a Siena: vale il viaggio!

Viticoltori De Conciliis - Bacioilcielo 2017

di Luciano Pignataro

Possibile baciare il cielo con l’Aglianico? Ma soprattutto possibile farlo subito, magari in una bicchierata tra amici che ha il gusto di ridere e innaffiare il cielo. 


Ecco a cosa serve Bacioilcielo 2017, fresco e piacevole, succoso e fraterno.

Frecciarossa - Pinot Nero dell’Oltrepò Pavese DOC Giorgio Odero 2011

di Carlo Macchi

La battuta è stata “Nasce nell’OltreVosne Pavese?” perché una complessità aromatica  ed una setosità tannica di così alto profilo ti fanno pensare alla Borgogna: invece lo fanno in Oltrepò. 


Dovrebbero nominare questo vino Ambasciatore dell’Oltrepò nel mondo, così si capirebbe cosa può nascere in zona.

Oltrepò Pavese: e pur si muove!

di Carlo Macchi

Tranquilli, la riunione annuale di Winesurf che si è svolta in Oltrepò Pavese non è stata così piena di assaggi da farmi credere di vedere un mare dove invece è tutto un susseguirsi di colline.
Il mare a cui mi riferisco non è d’acqua ma di vino e viene prodotto appunto sulle belle colline di questo territorio. Tanto per darvi un ‘idea In Oltrepò ci sono ben 3300 ettari di pinot nero ( Borgogna a parte, praticamente quello di mezza Europa messo assieme) e se ci mettiamo tutte le altre uve, a partire dalla croatina e dalla barbera per arrivare a riesling e moscato gli ettari salgono a più di 11.000. Un vero mare di vigneti che si trasforma ogni anno in una marea di vino.


Qui nascono i problemi, relativi a come controllare questa marea. Per anni semplicemente non è stata controllata e quindi la stragrande maggioranza del vino prodotto era venduto sfuso o se si imbottigliava, spuntava (e purtroppo spunta anche adesso) prezzi bassissimi.

Ma ogni mare che si rispetti, specie quello verde dei vigneti dell’Oltrepò, per essere “solcato” ha bisogno di indicazioni, di esempi: per questo sono fondamentali i fari e oramai in Oltrepò ce ne sono diversi, alcuni anche da molto tempo anche se ben pochi lo sanno.
Un faro che esiste da quasi un secolo è Frecciarossa, cantina “Con un grande avvenire dietro le spalle” mutuando il titolo della famosa autobiografia di Vittorio Gassman. Infatti quando Valeria Radici, titolare dell’azienda, ci ha mostrato i passaggi storici di questa cantina (esportava negli Stati Uniti negli anni Trenta del secolo scorso!) siamo rimasti stupiti del coraggio e della lungimiranza. Poi siamo rimasti stupiti dei vini, che riescono a declinare il riesling, la croatina e soprattutto il pinot nero con affinata maestria.


Il pinot nero dell’Oltrepò Pavese merita un discorso a parte perché è veramente “croce e delizia” di questo territorio. Si parte da vini di basso profilo, anche con importanti residui zuccherini, magari lo si vinifica frizzante, vendendolo a prezzi da realizzo. Così chi vuole fare le cose seriamente, sia spumantizzandolo in validi metodo classico, sia vinificandolo per ottenere le vellutate profondità del vitigno si ritrova a dover scalare montagne di diffidenza: dal mare di vino alle montagne da superare il passo non è breve né facile, però quando assaggi il Giorgio Odero 2011 di Frecciarossa, pinot nero di ampia caratura borgognona, capisci quanto possono dare queste terre al blasone del vitigno.

Non ha grande blasone invece “il demone-angelo Bonarda”, vino che rappresenta tutto il peggio di quello che l’immaginario collettivo del vino di qualità immedesima con l’Oltrepò (frizzante, con zucchero residuo e da bere giovanissimo) ma nello stesso tempo incarna , quando ben fatto, un vino angelico, dove le sensazioni di frutta arrivano a ondate e la bocca è corteggiata in maniera elegante da bollicine fini e da una freschezza che il residuo zuccherino riesce a rendere armonica. Per esempio nella Moranda di Travaglino, cantina che pur puntando moltissimo sul pinot nero non tralascia i i vini base del territorio.
Un territorio che, anche e soprattutto attorno al Distretto del vino di Qualità dell’Oltrepò Pavese (che ringraziamo!), sta cercando di crescere. E un modo per crescere è “La Mossa perfetta”, cioè un marchio che raccoglie una serie di piccoli produttori sul concetto di “Bonarda angelica” e cerca di fare massa per presentare quella che dovrebbe essere la vera immagine di questo vino.


Ne abbiamo degustate diverse è siamo convinti che un vino del genere non possa rimanere nel dimenticatoio, perché unisce piacevolezza a grande adattabilità gastronomica, senza considerare il prezzo incredibilmente interessante.
Se il pinot nero dell’Oltrepò può dare grandi soddisfazioni vinificato in rosso forse è nel metodo classico che può riuscire veramente a sfondare sul mercato. Oramai tutte le cantine di livello hanno bollicine da proporre e molte di tale livello che non sfigurano (anzi!) in confronti con il meglio della produzione nazionale: sto pensando al Notte d’Agosto di Alessio Brandolini, un metodo classico rosé da pinot nero in purezza di grande finezza e complessità, perfettamente a suo agio dall’antipasto al secondo.


A proposito di bollicine, quelle prodotte da Cristian Calatroni ci sono sembrate avere un grande futuro. Probabilmente perché rappresentano una ricerca certosina che parte dai vigneti, privilegiando quote attorno ai 500 metri e terreni particolarmente adatti. Cristian in realtà, come altri produttori di qualità, non va a cercare di piantare dove non c’era vigna ma semplicemente sfrutta vecchi vigneti esistenti. L’azienda è piccola ma ha le idee chiarissime: le sue bollicine tra qualche anno saranno contese tra gli appassionati, ricordatevelo.

Cristian Calatroni

L’azienda della famiglia Calatroni e tante altre piccole cantine, molte riunite attorno al grande faro del Distretto del vino di Qualità, dimostrano che l’Oltrepò Pavese ha al suo interno tutto quello che serve per affermarsi come territorio di alta qualità riconosciuta e finalmente far calmare le pericolose maree al suo interno.

Andrea Occhipinti - Alea Viva Rosso 2016

di Roberto Giuliani

Alea come Aleatico: 15 giorni sulle bucce e fermentazione con lieviti indigeni in piccole botti di cemento. 


Nessun additivo o coadiuvante enologico, poca solforosa. Naso che richiama il bosco, humus, rosa, ciliegia, fragola macerata. Bocca fresca, asciutta, fruttata ma anche pepata. Puro godimento.


www.occhipintiandrea.it

Veggy Garden Bistrot ovvero come mangiare felici mangiando vegano

Premetto subito che né io né i miei familiari con cui ho pranzato domenica scorsa al Veggy Garden Bistrot di via Tuscolana a Roma, siamo vegani. Eppure sia mia moglie che i miei due adorati nipoti hanno apprezzato la cucina di questo accogliente locale in zona Numidio Quadrato.


Doveva esserci anche mia figlia, ma è rimasta vittima di questa maledetta influenza che ti prende allo stomaco, con febbre alta e dolori alle ossa.
Il locale ha aperto nel 2015, una trentina di posti in un ambiente essenziale come ci si aspetta da un bistrot, ma abbellito da festoni colorati a forma di fiore (non a caso si chiama Garden).


Mi sembra giusto sottolineare che non è solo vegan, ma propone piatti quasi totalmente a km zero, che oggi più che mai è una scelta condivisibile.
Una delle caratteristiche del Veggy è di essere aperto a colazione, pranzo e cena, e di offrire menu diversificati durante la settimana, dal martedì al venerdì il pranzo è a buffet (10 euro), mentre la sera, il sabato e la domenica è disponibile il menu completo.
Un menu che ci ha incuriosito non poco, se avessi una capienza superiore avrei provato molte cose, ma sono stato costretto a fare una cernita fra antipasti, primi e secondi.
Nel complesso mi sono sembrati piatti ben preparati e gustosi, le porzioni più che soddisfacenti, i condimenti equilibrati, tutte pietanze rigorosamente a base di alimenti vegetali, ma incredibilmente gustose e aromaticamente persistenti.


Tra gli antipasti abbiamo scelto le verdure pastellate (i nipoti non hanno resistito a chiedere anche le patate fritte), polpettine di verdure miste con curcuma e altre spezie, bruschette “arcobaleno”, ovvero di quattro colori diversi (determinati dalle salse di verdure utilizzate). Tutto molto buono, tanto che non è rimasto nulla di nulla sulla tavola.
La curiosità mi ha spinto inizialmente a provare come primo il Riso del Bosco Magico (integrale con funghi, radicchio e noci), ma purtroppo era terminato (siamo arrivati alle 13.40), pertanto ho ripiegato, si fa per dire, su fettuccine all’amatriciana, consapevole con non poteva esserci il condimento previsto dalla ricetta classica (che fra l’altro vuole i bucatini). Con sorpresa le ho trovate eccellenti, erano preparate con un sugo molto saporito e al posto del guanciale c’era il tofu croccante.


Altro primo perfettamente riuscito il Cuscus di verdure, ceci e olive nere. Lo so, penserete “ma tutte queste verdure non stancano”? Lo credevo anch’io, ma le preparazioni e gli accostamenti sono sempre diversi, a tutto vantaggio di una cucina che non stanca mai.
Fra i secondi quello più particolare e, a mio avviso, non per tutti i palati è il Tofu al Curry di verdure e cocco, una preparazione equilibrata ma dal sapore quasi balsamico dovuto proprio alla presenza del frutto tropicale.


Gli ho preferito gli Straccetti di Lupino saltati alle verdure e balsamico, davvero convincente, una miscellanea stimolante che non stanca neanche dopo numerosi assaggi.
Fra i dolci c’era una vasta scelta e, essendo in 5, abbiamo provato diverse cose, come la Crostata di visciole (impasto friabile al punto giusto e marmellata saporita e poco dolce), la Torta di ricotta vegana al cioccolato e polvere di caffè (questa davvero superba), Tortino al cioccolato, pere e zenzero (abbinamento azzeccatissimo) e Torta Sacher (gli ingredienti sono più o meno gli stessi ma la preparazione è un po’ diversa, anche se altrettanto riuscita).


Modesta ma adeguata la scelta dei vini, per lo più vegan free e zero solfiti.
La Passerina Enoé 2018 di Ciù Ciù si è comportata molto bene con tutti i piatti di verdure, tanto da non esserne rimasta neanche una goccia (bevuta solo io e mia moglie!).
Si poteva chiudere senza il caffè? Certamente no, ma non potevamo non provare almeno un caffè di cicoria, che con sorpresa abbiamo trovato molto simile all’originale, davvero piacevole e con il vantaggio di essere privo di caffeina.


Conto onestissimo, sotto i 30 euro a persona vino escluso (l’acqua è compresa). Vale la pena tornarci, anche per provare i numerosi burger, magari con una buona birra…

Veggy Garden Bistrot
Via Tuscolana 924, Roma (fermata Metro Numidio Quadrato)
Tel. 06 76904531
Chiuso il lunedì

La Visciola - Cesanese del Piglio Priore "Vignali" 2009


Il Vignali, assieme al Ju Quartu e al Mozzatta è uno dei primi Cru di cesanese gestiti in biodinamica da Piero Macciocca e sua moglie. La bottiglia l’ho presa nel 2009 con la promessa di aprirla dopo 10. 


Risultato? Questo vino, posso dirlo pur non essendo un esperto della zona, rappresenta quanto più vicino possa esserci con la Borgogna per sensazioni olfattive e gustative. Un vino elegantissimo e vivo che esprime tutte le potenzialità del territorio e del lavoro di Piero. Strepitoso!