Zorah - Voskì 2015

In Armenia, lungo le pendici del monte Ararat, a circa 1400 metri, vengono coltivate Garandmak e Voskéat, uve locali da vigneti anche a piede franco piantate su banchi di calcare, dalle quale nasce questo vino assolutamente originale grazie ad un ricercato connubio tra aromaticità, sapidità e lunga persistenza ammandorlata. 


Si beve volentieri e io l’ho abbinato assieme ad un piatto di khorovadz, spiedini di pollo grigliato, immancabili sulle tavole armene.

Muraje Carema e il sogno di Federico e Deborah

di Andrea Petrini

A Carema non ci capiti per caso, ti fermi là perché ci vuoi andare. Carema e il suo vino devono essere necessariamente la tua destinazione, prima di tutto del cuore, perché da queste parti nulla è di moda, nulla è facile e scontato, nemmeno gestire sua maestà il nebbiolo (localmente chiamato picutener e pugnet) visto da queste parti, ovvero al confine tra il Piemonte e la Valle d’Aosta, questo vitigno viene allevato eroicamente sulle pendici del Monte Maletto, tra le rocce moreniche di origine glaciale, usando caparbiamente quella che viene definita architettura topiaria.

Di cosa sto parlando? Beh, sto descrivendo sostanzialmente una viticoltura eroica dove faticosamente, nella roccia viva, l’uomo ha creato dei terrazzamenti a secco, tra i 300 e i 700 metri di altitudine, collegati da ripidissime ed asimmetriche scale in pietra, dai quali si innalzano come soldati schiere di pilastri dalla forma tronco-conica (pilun) sui quali poggiano i graticci che sostengono i tralci delle viti. Le pergole a Carema, chiamate localmente “topia”, sono così ovvero degli scenografici “templi bacchici” (Renato Ratti) dove i pilun hanno l’importante funzione di accumulare calore di giorno rilasciandolo durante la notte, attenuando così l’escursione termica.

Architettura topiaria

A Carema, dove le vigne iscritte a questa DOC, divise in decine e decine di micro-parcelle, non superano i 19 ha totali (dimensione media di una azienda toscana), per esser un vero viticoltore eroico spesso devi conoscere e passare per “Mario”. Chi è costui? Beh, chiedetelo a Federico Santini, toscano di nascita ma piemontese di adozione, e alla sua compagna Deborah (agronomo) che nel 2012 hanno deciso di dar sfogo alla loro grande passione per il nebbiolo cercando di investire tempo ed energie in questa DOC dove tutto è difficile, anche acquistare o affittare dai vecchietti del paese una parcella di terreno vitato. Già, perché a Carema fare il vino è una questione di tradizione famigliare e nessuno accetterà di buon grado di cedere la sua micro-vigna a meno che gli acciacchi dell’età non siano davvero invalidanti o a meno che non ci sia Mario, amico fraterno di Federico, che interceda per convincere i locali che questo aspirante vignaiolo venuto da lontano sia là per fare un buon lavoro tutelando e valorizzando un territorio e, in particolare, una viticoltura che rischiava di scomparire così come successo a Boca. Non ho scritto un nome a caso, poi si capirà.

una vigna di Murjae

Federico e Deborah, dopo essere passati sopra ai tanti “Chi ve lo fa fare!” e aver superato, nel 2012, la prova generale del prode Mario che gli ha “costretti”, tanto per fargli capire a cosa andavano incontro, a vendemmiare e a vinificare due damigiane di nebbiolo, hanno iniziato a Carema la loro attività di vignaioli a fine 2014 quando hanno acquistato la prima parcella di nebbiolo in zona Laurey (versante ovest e più soleggiato della conca di Carema) dando vita al progetto Muraje (in dialetto caremese si riferisce ai muretti a secco usati per i terrazzamenti) che oggi, tra proprietà ed affitto, può contare su circa 1.3ha di vigneti divisi in 40 appezzamenti sparsi nel territorio della DOC Carema.
Le difficoltà dei nostri giovani vignaioli non finiscono qua perché la cantina di vinificazione nei primi due anni di attività ancora non è pronta e, dopo Mario, ecco emergere un altro nome caro alla recente storia di Muraje: Christoph Kunzli, anima e cuore di Le Piane, azienda simbolo del Boca DOC.

Pendenze.....

Federico e Deborah, infatti, usano la cantina e la sapienza enologica dello svizzero per vinificare le prime due vendemmie, 2015 e 2016, dalle quali sono nati due VDT: il Kræma 2015 (972 bottiglie prodotte) e il Sumié 2016 (876 bottiglie prodotte). La cantina verrà acquistata solo nel 2017 ed è situata in via Croce 20, al termine di una sfiancante salita dove è possibile apprezzare anche il campanile settecentesco di Carema alto 60 metri e considerato un capolavoro unico nel proprio genere in Piemonte.


La cantina è piccolissima, circa 60 metri quadri, dove troviamo tre vasche di cemento e qualche botte di rovere esausta. Tutto molto semplice così come lo è l’approccio enologico di Federico e Deborah: fermentazione spontanea in cemento, uso di lieviti non selezionati, lunghe permanenze sulle bucce (2/3 mesi) e successivo affinamento in legno per altri 12 mesi. Il vino, non filtrato e con l’aggiunta minima di solforosa, va poi in bottiglia. Con l’annata 2018 Muraje produrrà circa 3000 bottiglie di Carema DOC alle quali si aggiungeranno un altro migliaio di bottiglie di un secondo vino (60% nebbiolo con saldo di altri vitigni a bacca rossa locali) chiamato Lasú (come per il Sumié il nome si riferisce ad alcuni pali dell’architettura topiaria).

Grazie alla visita che ho fatto a Federico durante la Festa dell’uva e del vino di Carema ho potuto degustare il Sumié 2016 e il Lasú 2018 anche se la parte più divertente, almeno per me, sono stati gli assaggi da botte dell’annata 2018 del vino atto a divenire Carema DOC.
Il Sumié 2016 (90% nebbiolo con saldo di altri vitigni a bacca rossa locali tra cui neyret e nero d’ala) è la seconda e ultima annata vinificata presso Le Piane per cui ancora non può fregiarsi della DOC Carema. Il vino, pur nella sua gioventù, fa percepire che Federico e Deborah hanno intenzione di sovvertire la convinzione che il nebbiolo di Carema sia un vino austero ed indecifrabile. Il Sumié nel mio bicchiere è un vino moderno che non tradisce le tradizioni del territorio, ha un olfatto minerale di ardesia, profondo, ma è anche ricco di sfumature fruttate e floreali che lo rendono immediatamente piacevole. La bocca è succosa, senza deviazioni; punta dritto al finale, sapido e fruttato e di lunga persistenza.


Il Lasú 2018, il “secondo vino” di casa Muraje, è un vino gioviale, divertente, fresco e di grande leggerezza. Sa di fragoline, spezie fresche, viole, erbe di montagna ma la sua forza sta nella beva, assolutamente irresistibile soprattutto se servito fresco, causa anche un grado alcolico misurato. E’ un vino popolare che sa di condivisione e serate tra amici passate a tagliare pane e salame in spiaggia o davanti ad un camino.


Mentre arriviamo in bottaia Federico mi spiega che da sempre cerca di effettuare vinificazioni separate con lo scopo di capire le potenzialità dei vari terroir in cui sono sparsi i suoi vigneti di nebbiolo. In particolare, nella 2018, ha vinificato a parte il nebbiolo della zona Laurey perché, secondo anche i vecchietti del Paese, da quella zona da sempre si producono vini di altro spessore qualitativo. Questo nebbiolo, ovviamente ancora in affinamento, è davvero particolare, è profondo, complesso, vibrante, con una struttura importante che si percepisce dopo la deglutizione. E’ ancora indietro soprattutto se confrontato con il nebbiolo proveniente dagli altri vigneti, comprensivi anche di una parte di Laurey, che risulta già espresso, luminoso, di grande eleganza. Alla cieca avrei parlato di un Carema già in bottiglia. 

Giudizio finale? La 2018 in casa Muraje sarà una grande annata visto che le premesse ci sono tutte. P.s: non sarà prodotto il Cru “Laurey”, quello di Federico e Deborah è per ora solo un esperimento. Ah, il Carema 2017, di cui non ho parlato, uscirà il prossimo anno in circa 1.400 bottiglie.

Tenete d’occhi questi ragazzi, se lo meritano!

Az.Agr. Bisi – Igt Provincia di Pavia Rosso Frizzante “Ultrapadum” 2017


di Lorenzo Colombo

Barbera e Croatina in parti uguali, vinificazione separata ed assemblaggio in primavera. Aggiunta di lieviti e di mosto dolce delle stesse uve, rifermentazione in bottiglia, dove il vino rimane per dodici mesi prima d’essere sboccato. 


Ne esce un vino dalla spuma cremosa, strutturato, tannico, alcolico, ma dalla piacevolissima beva. Provare per credere.

I Soave Classico de Le Mandolare sfidano il tempo

di Lorenzo Colombo

L’Azienda Le Mandolare si trova a Brognoligo di Monteforte e possiede venti ettari di vigneti nelle più pregiate zone del Soave Classico: Brognoligo, Castelcerino, Fittà e Monteforte, su suoli di basalto lavico e calcare.

Vigneto

Sono tre i Soave che l’azienda produce, da zone diverse e con processi enologici differenti, per tutti vengono utilizzate uva Garganega in purezza, che coltivate su questi suoli acquistano la tipica nota “vulcanica”, caratterizzata da sentori sulfurei.
Il Soave viene (purtroppo) spesso considerato dai consumatori un vino che s’esprime al meglio in gioventù, quindi da bersi nel primo (o nei primi) anni di vita. Nulla di più sbagliato. 
Se si ha la pazienza d’attendere i vini acquisiscono profumi e sentori che solo il tempo è in grado di fornire, prova ne sono i tre vini che seguono, degustati dopo un opportuno periodo di sosta in bottiglia.

La famiglia al completo

Si tratta di tre vini diversi, oltre alle differenti zone di provenienza delle uve ed al loro differente grado di maturità al momento della raccolta, differiscono anche relativamente alla conduzione enologica.
Il “Corte Menini” vede unicamente acciaio, le uve de “Il Roccolo” vengono in parte fermentate in legno, mentre il "Monte Sella” –unico a Docg, essendo un Soave Superiore- vede unicamente legno.

I tre vini sono tutti molto interessanti e dotati di buona complessità,  la nostra preferenza personale va comunque a “Il Roccolo”, dove il sapiente e limitato uso del legno gli dona complessità senza sacrificarne le note fruttate.

Soave Classico Doc “Corte Menini” 2016
Uve provenienti dalla Località Menini, nelle colline di Castelcerino, i vigneti hanno un’età media di vent’anni e sono allevati a pergola con esposizione Sud-Est. Sia la vinificazione che l’affinamento (sulle fecce) si svolgono in vasche d’acciaio. Color paglierino luminoso.
Fresco al naso, di media intensità, pesca bianca, fieno, erbe officinali, accenni d’idrocarburi.
Fresco e sapido, mediamente strutturato, accenni vegetali e note sulfuree, fiori secchi e miele, buona la persistenza.


Soave Classico Doc “Il Roccolo” 2016
Le uve provengono dalla Località Monte Grande, sulle colline di Brognoligo, il sistema d’allevamento è la pergola.
Le uve vengono raccolte a maturazione avanzata, la fermentazione avviene in parte (30%) in legno di rovere ed il restante in acciaio; la maturazione, sulle proprie fecce, si protrae sino a primavera. Giallo paglierino di buona intensità, quasi dorato, luminoso.
Buona l’intensità olfattiva, complesso ed elegante, presenta leggere note aromatiche, accenni idrocarburici, frutto giallo (pesca matura), note tropicali, fiori di tiglio e d’acacia, sbuffi d’agrumi, fieno, fiori secchi. Di discreta struttura, fresco e minerale, equilibrato, con bella vena acida, ritroviamo i sentori tropicali che rimandano all’ananas ed alla papaia e le note d’agrumi, lunga la sua persistenza. Un vino notevole.


Soave Classico Superiore Docg “Monte Sella” 2014
I vigneti, allevati a pergoletta veronese, si trovano nella parte più alta del Monte Sella, sulle colline di Brognoligo.
Le uve, dopo un’opportuna selezione, sono raccolte a piena maturazione, parte di esse vengono poste in cassette per un leggero appassimento, l’altra parte è sottoposta a criomacerazione. La fermentazione si svolge in botti di rovere, dove il vino sosta per almeno un anno, dopo di che  s’affina per ulteriori tre mesi in bottiglia. 
Color giallo dorato, intenso e luminoso. Intenso ed ampio al naso, sentori di frutto tropicale, pesca, agrumi, fiori di tiglio, accenni di miele, fiori secchi, note sulfuree, l’evoluzione lo spinge verso note idrocarburiche. Strutturato, morbido e sapido, con vena acida che dona freschezza, sentori di miele, pesca matura, fieno e fiori secchi, lunghissima la persistenza.



Ormae Vinae - Gioiellae Toscana IGT Rosato 2018

Poteva un appassionato di latinorum sottrarsi all’assaggio di un rosè bio chiamato Gioiellae, fatto da un’azienda olearia di Pontassieve che maccheronicamente si chiama Ormae Vinae e di cui non so nulla, salvo che forse sono russi? 


Non potevo. Ma ben me ne incolse: Sangiovese 100%, bello sapido, perfino muscolare e quasi autunnale!

Vitique ovvero mangiare a Greve in Chianti

di Stefano Tesi

Di norma quando, in zone ad alta densità ristoratoria o mediatica, nasce un nuovo locale, c’è da preoccuparsi: il rischio è infatti che si tratti o dell’ennesimo clone oleografico da mainstream, o del classico posto che vuole distinguersi a tutti i costi, facendo poi la fine del proverbiale gatto in tangenziale.
Quando, inoltre, l’iniziativa è espressione diretta di una casa vinicola, i rischi aumentano perché, come è ovvio, spesso le esigenze di promozione soverchiano, o limitano fortemente, quelle gastronomiche, ingabbiandole.
Il Vitique di Greve in Chianti, ristorante affidato dal gruppo Santa Margherita al giovane chef Antonio Guerra, questi rischi li correva tutti e, quando l’ho visitato, ne ero ben consapevole. Sono stato però piacevolmente smentito.

Lo chef Antonio Guerra

Non tanto nello stile e nelle scelte architettoniche, ispirate comunque a un design curato, in equilibrio, come trend comanda, tra minimalismo e rusticità reinterpretata, quanto a tavola e in cantina.
Sotto il secondo aspetto, se le etichette “domestiche” hanno ovviamente un ruolo importante, esse tuttavia non tracimano ed anzi lasciano spazio con intelligenza a qualche centinaio di referenze italiane e non, offrendo una gamma di scelte che non condiziona né la curiosità, né gli abbinamenti.


Sotto il primo aspetto, invece, la sorpresa è stata una cucina che, senza rinunciare a contaminazioni e a qualche esperimento ardito, rimane comunque centrata, senza sbavature, focalizzata sulla qualità delle materie prime o soprattutto attenta a non disperdere in orpelli e diverticoli il cuore delle singole portate: sapori decisi e consistenze nette anche in caso di composizioni “acrobatiche”, le giuste stagionalità senza regionalismi e, aspetto secondo chi scrive della massima importanza, senza caricature. Quindi carne, pesce, territorio e anche no, in una carta ragionata che muta ciclicamente ma, stagione dopo stagione, mantiene la sua coerenza.

Esterno

Bene ad esempio, per coesione e delicatezza, le cappesante con porcini, guanciale e nepitella. Bene anche i ravioli del plin allo stracotto di manzo con pecorino, alloro e tartufo, un piatto pieno di nerbo e niente affatto facile da trovare in una versione così intrigante. Davvero eccellente, alla fine, la brioche allo zabaione.

Interno

Considerato lo stile e la qualità, il Vitique, che è aperto solo a cena, non è in assoluto un ristorante economico (alla carta il conto è sui 75 euro a testa più i vini), ma l’abbondanza dei menu degustazione, da tre a sette portate a partire da 55 euro, allarga la forbice dei costi.
Di giorno è aperto invece il bistrot, con una cucina più ruspante e veloce e costi più contenuti.

Vitique
Via Citille 43, 50022 Greti, Grave in Chianti (FI)
info@vitique.it - www.vitique.it
tel. 055 9332941
chiuso mercoledì
Orari: dalle ore 11 alle ore 23

Michel Furdyna - Champagne Brut Reserve


di Luciano Pignataro

Una piccola chicca a circa 20 euro in rete. E' lo champagne di Michel Fourdyna da pinot noir vinificato in bianco coltivato in dieci ettarisparsi in sei comuni della Cote des Bar. 


Il piccolo viticolture di Celles sur Ource segue pratiche ambientali e tradizionali. Sorso fresco e appagante. Un affare.

www.champagne-furdyna.com

Dieci vini della Campania da abbinare al ragù napoletano!

di Luciano Pignataro

C'è chi aspetta il freddo per funghi e tartufi e chi per il ragù napoletano: una preparazione lunga, un piatto strutturato, soprattutto se completato con pecorino e un pizzico di forte, certamente impegnativo. E allora abbiamo bisogno di vini altrettanto rossi e forti che abbiamo la caratteristica di ripulire il palato e rilanciare la voglia di mangiare. Ecco la nostra idea attingendo dal panorama campano, fermo restando che alternative valide non mancano certo in nessuna regione italiana

Moio - Moio 57
Ecco il primo abbinamento che ci viene in mente. Da uve primitivo, meglio se non troppo invecchiato, questo rosso iconico dell’azienda di Mondragone si presta perfettamente all’abbinamento con il ragù per la sua potenza e la sua esibizione muscolare. Provare per credere.

Gennaro Papa - Campantuono Falerno del Massico DOP
Restiamo ancora in zona, come non citare il poderoso primitivo di Papa, l’azienda di Falciano del Massico oggi diretta dal bravissimo Antonio. Caratteristiche simili, ovviamente, al precedente, forse solo una maggiore suadenza olfattiva che lo rende meno rustico ma altrettanto efficace del precedente.

Sclavia - Granito Terre del Volturno IGP
Cambiamo vitigno, pensiamo allora al Casavecchia, antica uva dell’Alto Casertano che è stata riscoperta da una ventina d’anni. Anche qui l’aspetto principale è la potenza, l’alcol, la differenza con i rossi da primitivo la presenza dei tannini si sente e non sta affatto male con il ragù napoletano.


Boccella - Rasott Irpinia Campi Taurasini DOC
Andiamo tra i monti irpini in cerca di ruspanti aglianico, rossi più freschi e tannici. Immediato il riferimento a questo rosso base della piccola azienda Boccella, di cui amiamo moltissimo il Taurasi. Ma in questo caso spendiamo questo rosso non solo perché più abbordabile economicamente, ma per la sua straordinaria efficacia. Anche in questo caso consigliamo le ultime annate.

De Gaeta - Irpinia Campi Taurasini DOC
Ci muoviamo verso il comune di Castelvetere sul Calore e proviamo questo rosso da Aglianico pensato da Vincenzo Mercurio. Una piccola produzione per appassionati, in questo caso la beva è meno rustica, i tannini più morbidi ma ficcanti, decisamente in equilibrio con l’alcol e sostenuti da una vibrante acidità che ripulisce il palato.

Il Cancelliere - Gioviano Aglianico Campania IGT
Ora a Montemarano, dove troviamo questa piccola azienda contadino fondata da Soccorso Romano e gestita da tutta la famiglia. Il buon “manico” di Antonio de Gruttola si vede proprio con questa bottiglia, legno grande, vino non filtrato. Un Aglianico sincero ed efficace, dotato di una spinta incredibile e adatto a questo abbinamento.

Cantina Giardino - Nude Aglianico Campania IGT
Stesso vitigno, stesso enologo per il quale non nascondiamo la nostra simpatia nell'interpretazione che è capace di dare con l’Aglianico. Utile proprio se pensato vicino ai piatti tradizionali come in questo caso. La freschezza e i tannini lavorano bene alla grande per equilibrare nel palato il boccone. Non resta che provare!


Tempa di Zoé - Zero Paestum IGT
Dall’Irpinia al Cilento, territorio  che ha adottato l’Aglianico con convinzione da molti anni. Questa storica etichetta pensata da Bruno De Conciliis e Vinny D’Orta esprime un rosso di potenza assoluta, adatta al ragù napoletano ma anche alle varianti campagnole belle robuste che vedono l’inserimento di altre carni.

Casa di Baal - Aglianico di Baal Colli di Salerno IGT
Questo rossa nasce sulle colline vicino Salerno da agricoltura biologica adottata in tempi non sospetti, ma come metodo di rapporto con il territorio. Un Aglianico più morbido rispetto a quelli che abbiamo selezionato ma ugualmente efficace soprattutto grazie alla freschezza tonica della beva che è molto efficace nell'abbinamento con il cibo.

I Cacciagalli - Sphaeranera Roccamonfina IGT
Volendo inserire un Pallagrello Nero, scegliamo questo, molto rustico, pensato da questa azienda che si ispira ai principi biodinamici. Il vitigno si esprime in maniera irruente e decisa, lavorato e affinato in anfora. Esprime un gusto molto interessante e tipico, riconoscibile. Ecco perché lo potete abbinare al ragù sfruttando le sue virtù gastronomiche.




Castell’in Villa - Chianti Classico Riserva 2013

di Carlo Macchi

Castell’in Villa Riserva  2013 è la sublimazione dell’idea di Grande Sangiovese. 


Complesso, austero, eclettico. Sembra un vino di Gambelli e invece, storicamente, “Tachis fecit”: tanto per far capire che i due grandi non erano distanti. Importante: bottiglia da 330 grammi, perché un grande vino non ha bisogno di vetri pesanti.

www.castellinvilla.com

Tra Piemonte e Liguria: il Moro a Capriata d’Orba è il regno del piacere gastronomico

di Carlo Macchi

Sarà un caso, ma tutte le volte che arrivo a Capriata d’Orba mi accoglie un silenzio che, per dirla con Paolo Conte “Descrivervi non saprei”. In questo silenzio si cela la tranquillità di un paese del Piemonte ligure, cioè di quella terra di confine che ingloba una bella fetta delle tradizioni gastronomiche di entrambe le regioni. Siamo nel Monferrato e dal centro di Capriata d’Orba con gli occhi da una parte tocchi le colline del Gavi e dall’altra i vigneti dell’Ovadese.


Ma i miei occhi, quando arrivo nella silente piazza centrale di Capriata, sono tutti per l’insegna e l’ingresso di un ristorante che conosco bene e che frequento con gioia da tanti anni, il Moro.


In un paese così tranquillo un nome come “Il Moro” potrebbe riportare a guerre e invasioni, ma come entri nel locale e ti accoglie la tranquillità e la sobrietà fatta persona, cioè Claudio, l’unica invasione a cui puoi pensare e quella dei profumi che già ti solleticano le narici.
In cucina c’è Simona, moglie di Claudio, mano sicura e esperta che non sbaglia un colpo (e se ve lo dico io, che ci ho mangiato decine di volte, credeteci!) e che riesce sempre a sorprenderti con piatti che poggiano i piedi nella tradizione per spiccare poi il volo verso la semplicità e la concretezza di grandi sapori. Come scordarsi le semplicissime ma monumentali acciughe fritte che, quando è stagione, Claudia “mi obbliga” ad ordinare e potrei andare avanti con altri piatti e sapori ma prima voglio farvi sedere comodamente, nelle linde e accoglienti sale e salette (d’estate c’è anche un grande spazio esterno) dove ti senti come un bambino nella pancia della mamma. Apparecchiatura perfetta ma non ricercata e piglio distinto degli altri ragazzi in sala vi faranno scordare anche la mamma, ma non la pancia che avrà già iniziato a borbottare.

Agnolotti - Foto: http://ristoranti.travelitalia.com

E per far fermare il borbottio niente di meglio che una piemontesissima carne cruda di fassona battuta al coltello o uno sformato di peperoni con salsa di acciughe sotto sale, che punta più verso i lidi liguri, mentre di estremamente locale c’è la testa in cassetta di Gavi.
Naturalmente vi sto parlando del menù autunno-inverno, perché Claudio e Simona lo variano spesso, anche se alcuni piatti (per fortuna!!) ci sono sempre, come gli agnolotti nei tre modi della tradizione, cioè “a culo nudo” “nel vino e “al tocco”. Questi non ve li potete perdere perché mettono assieme leggerezza, sostanza e storia.
Naturalmente in questa stagione autunnale non mancano i funghi per un gustoso risotto e i tartufi bianchi. L’ultima volta sono stato al Moro a fine settembre e vicino a me, sotto la cupola di vetro, c’era un tartufo bianco che (nonostante non fosse ancora stagione piena) aveva un profumo che faceva resuscitare i morti. Ma ci sono altri modi con cui Simona e Claudio vi faranno resuscitare, tipo lo Stoccafisso in insalata con patate e olive taggiasche o la Lingua bollita con bagnetto verde. Naturalmente c’è sempre qualche fuori carta: l’ultimo era una trippa con i fagioli da applauso a scena aperta.
Se vi resta ancora spazio vi consiglio di provare la loro scelta di formaggi e magari un Bunet con zabaione al moscato.

Formaggi - Foto: Marcel Egger

Sui vini brilla il Piemonte con tante etichette locali molto interessanti (Gavi e Monferrato in primis) ma naturalmente la carta spazia sull’Astigiano e sulla Langa, puntando anche a mirate etichette fuori regione, tutte con ricarichi assolutamente onesti.
Un pranzo luculliano dall’antipasto al dolce vi costerà meno di 50 euro (vini esclusi) e soprattutto vi farà gustare piatti che non scorderete facilmente. Se ve li scordaste niente paura, Simona e Claudio sono sempre lì, nel centro del silenzio di Capriata d’Orba, pronti a accogliervi.

Claudio e Simona - Foto: Tripadvisor

Premio Qualità “Vino Ducale” per il Cabernet Atina DOC


di Antonio Di Spirito

Il ristorante “Le Cannardizie” organizza il premio-qualità dedicato alla figura di Giovanni Palombo, promotore della denominazione “Cabernet Atina DOC”.
L’evento è promosso dal Comune di Atina e dal Consorzio di tutela dell’Atina DOC, in collaborazione con associazione IRIS, Centro Studi S.S. Atina, Istituto Agrario di Alvito, Pro Loco di Atina e Pro Loco di Alvito.
Gli obiettivi del progetto sono molteplici ed identitari della cultura agricola e sociale locale:
Far conoscere la DOC ad assaggiatori professionisti che sappiano apprezzare i vini dell’areale e promuoverli ai tanti appassionati coinvolti nei vari settori enologici;
Ricordare un produttore speciale che ha fatto di tutto per costituire il comitato promotore dell’Atina DOC
Mettere a confronto, dopo vent’anni di produzione, gli stessi prodotti e le radici comuni derivanti dalla storia del Cabernet MONUMENTALE costruito sulla storia di Pasquale Visocchi (l’agronomo dell’Ottocento che ha definito le sorti della viticoltura locale e che ha studiato e sperimentato i vari vitigni francesi).
La giornata dedicata all’evento, Domenica 27 ottobre 2019, avrà il seguente programma: nella mattinata si effettueranno visite in cantina; tutti i partecipanti all’evento saranno informati dal personale delle due pro loco (Atina e Alvito) e saranno consegnate loro delle mappe geografiche con indicazione dei punti di degustazione. Durante la pausa pranzo ognuno potrà scegliere liberamente i ristoranti convenzionati. Alle ore 16:00 inizierà il segmento dedicato al premio/concorso Vino Ducale presso la Sala di Rappresentanza del Comune di Atina.


Il giudizio sui vini sarà prodotto da una commissione formata da nove giudici, strutturata come segue:

Tre giornalisti:
Antonio Di Spirito – presidente della commissione (giornalista enogastronomico per: Guida ai Vini d’Italia de L’Espresso – Luciano Pignataro Wine blog – Cucina e Vini),
Francesco D’Agostino (Direttore Responsabile di Cucina e Vini),
Andrea Petrini (Percorsi di Vino Wine Blog);

Tre stimati enologi NON impegnati in attività professionali nell’ambito della Atina DOC: Chiara Fabietti, Maurizio De Simone, Vincenzo Mercurio;

Tre sommelier provenienti dalle tre maggiori associazioni AIS, FIS, FISAR, rispettivamente: Emanuela Di Palma, Antonio Abbate e Alice Lupi.


La sistemazione della sala sarà similare a quella predisposta per un concorso ministeriale, allestita per una degustazione alla cieca di quattro tipologie di vini: Bianchi, Rosati, Rossi DOC di ultima annata e Rossi Riserva; la scelta dei vini portati in gara sarà a discrezione delle aziende partecipanti.
Il confronto darà la possibilità a tutti i produttori della DOC, anche ai non associati al Consorzio di Tutela; questa scelta ha lo scopo di mettere a confronto tutti i vini e cogliere tutte le loro particolarità che, grazie alla geografia della DOC, sono ricchi di sfumature floreali e frutti naturali.
Verso le ore 18,30 la giuria comunicherà i vincitori delle varie categorie (Bianchi, Rosati, Rossi e Riserva) e, a seguire, ci sarà una mini convention con consegna dei premi.
Alle ore 20,00 sarà organizzata una degustazione dei vini in collaborazione con IRIS, associazione per la ricerca di cure ed assistenza al malato oncologico.

Bonavita - Faro DOC 2012


di Roberto Giuliani

Ripescato dalla cantina, il Faro 2012 ottenuto da nocera, nerello mascalese e cappuccio, era ancora frutto della mano esperta di Carmelo Scarfone, accompagnato dal figlio Giovanni. 


Emozione doppia nel ricordare la sua scomparsa e nell’apprezzare un vino che sussurra con garbo il canto della terra.