Il San Giorgio di Lungarotti ovvero il primo Superumbrian del vino italiano

Il San Giorgio di Lungarotti, tra i mille esempi che si potevano fare, rappresenta senza dubbio lo specchio delle tendenze del mondo del vino italiano negli ultimi 25/30 anni del secolo scorso dove la ricerca di colore, struttura e "centesimi Parkeriani" sembrava decisamente più importante rispetto al concetto di territorialità che proprio in quel periodo è stato messo a dura prova anche grazie al successo dei c.d Supertuscan i quali, grazie all'ausilio di vitigni internazionali come merlot e cabernet sauvignon, garantivano un facile successo, mediatico e commerciale, grazie al perseguimento degli obiettivi di cui sopra.

Giorgio Lungarotti - Foto: http://www.pubblicitaitalia.com

Giorgio Lungarotti, classe 1920 e solide radici a Torgiano (PG), era talmente lungimirante che già nel 1974 aveva pensato alla creazione di un "Superumbrian" a base di sangiovese, canaiolo e cabernet sauvignon che nel 1977 fu introdotto nel mercato col nome di San Giorgio a ricordo della tradizionale festa umbra in onore del Santo durante la quale, ancora oggi, vengono accesi falò propiziatori nelle vigne con gli scarti della potatura. 

Il protocollo di vinificazione ed affinamento del San Giorgio seguiva quello dei suoi (blasonati) colleghi toscani: fermentazione in vasche d'acciaio, lunghe macerazioni sulle bucce, utilizzo di barrique nuove per per un anno e successivo riposo del vino in bottiglia per circa 36 mesi prima di essere commercializzato.


La verticale storica di San Giorgio organizzata a Roma poco tempo fa con alcuni amici mi ha fatto brutalmente comprendere passato, presente e futuro di questo vino la cui evoluzione temporale, come già detto, farà riflettere portando il discorso a livelli più alti e generali. Tutte le considerazioni finali al termine del post.

Lungarotti - San Giorgio 1985: l'uvaggio del vino, anche se non ho informazioni precise, prevede una prevalenza del sangiovese sul cabernet la quale risulta abbastanza palese al naso che offre sensazioni di fiori rossi disidratati, rabarbaro, ribes e soffi di tabacco e macchia mediterranea. Sorso morbido, soffice come un cuscino ed intenso come la luce di un mattino di primavera.



Lungarotti - San Giorgio 1986: rispetto al precedente ha un corredo aromatico più deciso dove fanno capolino, oltre alla parte floreale e fruttata, anche tutta una serie di sensazioni di cannella, noce moscata e tabacco da pipa. Al gusto è intenso, ancora dirompente e graffiante. Un fuoriclasse per gli anni che ha.



Lungarotti - San Giorgio 1987: l'annata non si ricorderà in Italia come una delle migliori ed infatti questa versione di San Giorgio risulta abbastanza anonima sia al naso che, soprattutto, al sorso che pur essendo dotato di un tannino ancora graffiante risulta troppo diluito e dalla scarsa persistenza.



Lungarotti - San Giorgio 1988 (50% cabernet sauvignon, 40% sangiovese e 10% canaiolo nero): non ho certezze ma, a partire da questo millesimo, si percepisce un primo cambiamento caratteriale del vino che sembra passare dalla fase adolescenziale a quella più "adulta" e matura. Questo 1988, infatti, è meno aperto e gioviale rispetto ai precedenti per via di una contrazione olfattiva abbastanza spiccata dove cominciano ad emergere sensazioni "nere" di frutta e spezie. Sorso sapido, rotondo e dotato di scia speziata.



Lungarotti - San Giorgio 1990: i colori del vino cominciano a farsi più intensi e decisi così come il corredo olfattivo che si fa austero, regale e dotato di eleganti profumi di cannella, liquirizia, eucalipto, ribes e tabacco. Avvolgente e di bella struttura, gioca la sua carta migliore sul finissimo equilibrio gustativo dotato di lunghissima scia sapida, quasi di cenere vulcanica.



Lungarotti - San Giorgio 1993: la mutazione sta prendendo forma e il baco sta diventando farfalla (o viceversa?). Nonostante un'annata non proprio esaltante il vino rimane inchiodato su se stesso e i suoi profumi somigliano a quelli di tanti tagli bordolesi italiani. Offre note di ribes, spezie scure, macchia mediterranea e liquirizia mentre, bevendolo, è pressoché impossibile non accorgersi dell'austero rigore del vino dotato di tanta morbidezza e fitto tannino. 



Lungarotti - San Giorgio 1995: quando senti che la parte aromatica del vino è dominata dal vegetale sparato dal cabernet sauvignon capisci che il gioco è fatto e non si può tornare indietro. E' come ritornare a casa e trovare tua moglie a letto con l'amante. Come risolvere la situazione? Divorzio consensuale?



Lungarotti - San Giorgio 1997: decisamente consistente nella struttura e nel colore è ormai un vino dal facile impatto, più popolare che aristocratico, grazie alle note aromatiche dove la frutta nera (amarena), le spezie, il tabacco e il cioccolato al latte giocano un ruolo di assoluta supremazia. Sangiovese non pervenuto. In bocca è morbido, spregiudicato ma, alla fine, abbastanza prevedibile.



Lungarotti - San Giorgio 2000: riecco il vegetale, riecco il cabernet che di nuovo segna il vino in maniera decisa dotandolo di un'anima troppo monocorde e scontata per essere apprezzata dal sottoscritto. Al sorso, alla cieca, lo scambierei forse per un bel Bordeaux. Gli ho fatto un complimento? 



Lungarotti - San Giorgio 2001: e quando meno te lo aspetti ecco che il santo, complice una grandissima annata, ti fa lo scherzetto regalandoti un vino di bellissima luminosità sia nel colore che, soprattutto, al naso dove ritorna finalmente terso, vivace, dotato di frutta rossa croccante, viola, rosa, erbe di montagna e lavanda. Al gusto il sangiovese torna padrone con una bocca vibrante attraversata da una costante spina acida ed avvolgente sapidità. Ma quanto mi piace?!



Al termine della verticale non posso non tirare le conclusioni su questo vino che, lo premetto, sono assolutamente in sintonia con quanto già scritto dal mio amico Jacopo Cossater su Enoiche Illusioni di qualche anno fa: il San Giorgio è esattamente la risposta umbra che Giorgio Lungarotti cercava al fine di contrastare lo strapotere dei Supertuscan. Il risultato, a distanza di anni, è stato centrato: questo taglio bordolese è diventato un vino dal forte respiro internazionale, elegante e di impatto immediato ma dell'Umbria, tranne forse i primi anni di produzione dove il sangiovese era preminente, non c'è traccia. 



A chi cerca Torgiano nel bicchiere consiglio di bere un vecchio Vigna Monticchio di Lungarotti. Vecchio ho detto perchè anche là.......

Borgogno - Barolo Riserva 1967 è il Vino della settimana di Garantito IGP

di Angelo Peretti

Avete presente quando nei libri sulla degustazione dei vini si parla di goudron? È l’odore di catrame che accade di trovare in certi rossi invecchiati. Qui c’era, l’asfalto, ma con delicatezza, com’era acquarellato il sentore di fruttino e di cacao e menta e origano. Persino la presenza tannica era misurata.


Tenuta di Ghizzano: quando un rosso chiede lenta pazienza al bevitore - Garantito IGP

di Angelo Peretti

Certi vini, in genere grandi vini, vogliono l’esercizio della pazienza. Sono pronti quando vogliono loro, non quando pretendi tu. Prima sono ritrosi a concedersi, si chiudono, sussurrano appena, quando non si tratta perfino d’un mugugno. Sta a te capire che sotto quel broncio un giorno ci sarà un sorriso. 

Per dimostrarlo, per scoprirlo, devi usare la pazienza, che può durare mesi, anni, decenni anche, talvolta.Penso a certi Bordeaux, che acquisti giovinetti e poi lasci al buio della cantina finché sono maturi. Oppure a talune bottiglie del Barolo, che subito s’arroccano dietro al tannino, e ci vuol tempo perché lascino campo liberamente al frutto, al fiore, alla spezia. 

Ancora, i rossi spagnoli della Rioja o della Ribera del Duero, che addirittura vengono imbottigliati non con la sequenza esatta delle annate, ma con quella della maturità del vino. Fino ad alcuni fra i più spettacolari cru della Borgogna, che restano scontrosi e ostici e introversi per così tanto tempo.


Anche dalle mie parti, nel Veronese, c’è un’uva che porta inesorabilmente i suoi vini alla riduzione, durante le fasi dell’affinamento in botte o in cisterna o anche in bottiglia. È la corvina, madre dei rossi della Valpolicella e del Bardolino.

Sono tutti rossi per i quali è richiesta rispettosa lentezza, seppur di varia ampiezza. Diceva Reinhold Messner: “Non bisogna andare veloci in montagna. In questi luoghi comanda la lentezza”. Con certi vini è uguale.

Tra le ultime bottiglie che mi hanno richiesto l’uso della pazienza ce n’è una toscana, quella del Veneroso, un rosso ora della denominazione delle Terre di Pisa. Lo fa la Tenuta di Ghizzano. Prevalenza del sangiovese con un tocco di cabernet sauvignon.

Stappai qualche mese fa il 2013, da poco imbottigliato. Non l’avevo mai avuto prima nel bicchiere, né quell’annata, né altre. Per me era un vino sconosciuto.
Verde, rusticamente verde, così mi si presentò all’olfatto. Anche al palato era sgarbatamente crudo, e il tannino era allappante. Però sotto sentivo come fremere il frutto, seppure in quel momento celato.

Decisi di attendere, lasciando la bottiglia aperta, senza tappo, perché s’accelerasse la maturazione, e riassaggiai giorno per giorno. Dopo sei giorni il vino s’era completamente concesso nella sua eleganza fruttata, nella sua trama salmastra e officinale.

Ecco, questa è la prova che si tratta d’un vino che vuole la pazienza, e che dunque va preso e messo nella cantina e atteso, a lungo, finché non decide che è l’ora del concedersi in pienezza, e che pertanto è un gran vino.


Del Veneroso del 2013 ho avuto occasione di stapparne un’altra bottiglia due mesi dopo, insieme alle due annate che l’hanno preceduto. Se fossimo alla risoluzione d’un teorema nei vecchi licei d’un tempo, scriveremmo c.v.d., come volevasi dimostrare.
“Da quando è in bottiglia ha delle fasi”, m’ha confermato Ginevra Venerosi Pesciolini, che amministra la Tenuta di Ghizzano. “Nei primi cinque anni di vita – ha aggiunto – il sangiovese ha delle fasi abbastanza importanti”. Come avevo intuito. Come accade per i rossi di carattere.


Ecco le tre annate.

Terre di Pisa Veneroso 2013 Tenuta di Ghizzano

Come lo ricordavo, da subito riottoso e a tratti vegetale, però presto, molto più presto che nella bottiglia che avevo assaggiato due mesi prima, ha preso a comparire il fruttino. “Il 2013 è già abbastanza aperto, rispetto a com’erano in questa fase le annate precedenti”, mi si dice. Ne vorrei qualche bottiglia in cantina. Per me è destinato a una felice maturità. (90/100)

Terre di Pisa Veneroso 2012 Tenuta di Ghizzano

“È un’annata che amo particolarmente”, mi dice Ginevra Venerosi Pesciolini. Posso comprenderla, perché ancora più che nel 2013 il vino vuole l’esercizio della lentezza, e dunque ha lungo destino. Sembra perfino più giovane. “Ora sta tornando indietro come prontezza di beva, ma si sta facendo più complesso”. Vino serio, che crescerà, molto. (92/100)

Toscana Veneroso 2010 Tenuta di Ghizzano
Terra, tanta, ed è più scuro, più denso nella colorazione rispetto agli altri due. Ma nessun appesantimento. La bocca è anzi strepitosa, il frutto avvincente, intriso di spezia e tabacco, il tannino è nervoso, e dunque c’è futuro generoso. Ecco la prova che il tempo gioca la sua parte, che questo vino richiede al bevitore un contributo di pazienza, che viene poi ricompensata. (94/100)

Fattoria Sardi: la passione per i vini rosati arriva dalle colline lucchesi

Non è certo un segreto e nemmeno un'affermazione diffamatoria se scrivo che la maggior parte dei rosati italiani sono prodotti per rispondere a pressanti richieste di marketing al fine completare la gamma dei vini con prodotti "estivi" di costo basso così come la loro qualità. 

Pertanto, potrete capire il mio grande stupore quando, poche settimane fa, mi arriva la mail dalla Fattoria Sardi la quale mi viene presentata dalla famiglia Giustiniani, proprietaria di circa 45 ettari di cui 18 di vigneto gestito in maniera biologica certificata e biodinamica a pochi km da Lucca, come una azienda il cui focus principale è la produzione di vini rosé di qualità dal 2011. 



Urca, non ci posso credere, controllo anche il loro sito internet  e scorrendo vedo questa scritta: Il Rosato e gli altri Vini. Allora è proprio vero, quante sono le aziende vinicole in Italia che si propongono con una messaggio del genere?

L'occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire per cui, curioso come una scimmia, mi faccio mandare dalla gentile Mina Giustiniani una campionatura (vale come disclaimer vero?) dei loro due vini rosati: il Rosé 2016 e "Le Cicale" 2015.


Il Rosé 2016, IGT Toscana da uve sangiovese, ciliegiolo e piccole quantità di bacche bianche, dal suo colore, rosa pallido, tradisce fin da subito la sua vocazione provenzale che si conferma al naso, sommesso ma al tempo stesso diretto, dove si scorgono rimandi al lampone e ai fiori rossi che ben si esaltano all'interno di un quadro gustativo gradevole, ben bilanciato e, soprattutto, di facile beva. Come aperitivo potrebbe essere sprecato perchè per la sua versatilità potrebbe essere un ottimo jolly per un pranzo estivo magari accompagnato da una succulenta caprese. 


Nota tecnica: le uve sono vendemmiate manualmente. Una buona parte del rosato è ottenuto attraverso macerazioni più o meno lunghe a seconda delle annate, in pressa pneumatica. Una piccola parte è invece ottenuta salassando le vasche destinate a dare vini rossi. Nel caso della macerazione a freddo il succo ottenuto è fermentato a temperatura controllata in contenitori di cemento ed acciaio inox. Nel caso dei salassi il succo è fermentato in legno. In entrambi i casi la sfecciatura del succo è fatta a bassa temperatura e la fermentazione è spontanea attraverso l’aggiunta di pied de cuve nati in vigna. Affinamento su fecce fini per 4 mesi. Chiarificato con bentonite e filtrato. 


Con "Le Cicale" 2015, IGT Toscana da sangiovese e piccole quantità di bacca bianca, è un'altro rosato in stile provenzale ma, rispetto al precedente, saliamo decisamente di vari gradini qualitativi grazie ad un vino straripante di rimandi minerali, fruttati (lampone e fragola) senza tralasciare la purezza e la delicatezza floreale a ricordo di iris e geranio. Rispetto al Rosé 2015 al sorso è più strutturato, gagliardo ma ben dimensionato grazie ad una vivida spinta acido-sapida che fa da tracciante in tutta la fase gustativa regalando una persistenza esemplare per un rosato grazie anche anche un finale salino che stenta a terminare rapidamente. Senza dubbio, almeno fino ad oggi, uno dei migliori rosati italiani degustati quest'anno.


Nota tecnica: le uve sono vendemmiate manualmente. Macerazioni più o meno lunghe a seconda delle annate, in pressa pneumatica. Sfecciatura del succo a bassa temperatura e fermentazione spontanea attraverso l’aggiunta di pied de cuve nati in vigna. La fermentazione e l’affinamento sono svolti in legno su fecce fini. Chiarificato con bentonite e filtrato.


P.s.: di Fattoria Sardi ho bevuto con piacere anche il loro Valle Buia 2016, vino rosso senza solfiti aggiunti da uve sangiovese, colorino e altre varietà a bacca rossa, che ho apprezzato per "crudezza" e lealtà ovvero per il suo essere spoglio di ogni orpello stilistico tanto da farmelo ricordare come un vino eccezionalmente (e finalmente) immedesimato nella sua bellezza contadina.

Friuli Colli Orientali Friulano Doc “Vigneto Storico” 2015 è il Vino della settimana di Garantito IGP

di Lorenzo Colombo

Eleganza, complessità, struttura, freschezza, mineralità, equilibrio.
Tutto questo è il frutto d’un vigneto d’oltre settantacinq’anni d’età, sito a Corno di Rosazzo.
Classica la vinificazione in acciaio.
Quando l’uva e la cura dell’uomo fanno grande un vino.

Alla scoperta de Le Fornacelle a Bolgheri - Garantito IGP

di Lorenzo Colombo
La storia di Fornacelle inizia al termine della seconda Guerra Mondiale.
E’ infatti nel 1945 che, con la riforma agraria, diversi terreni del bolgherese, fin’allora in buona parte di proprietà dei Conti Della Gheraresca, vengono ceduti ai mezzadri che  li avevano coltivati sino a quel momento. Avviene così anche per Giulio Bastioni, mezzadro sin da fine ‘800 e bisnonno di Stefano Billi l’attuale proprietario di Fornacelle, che viene in possesso di poco più di un ettaro e mezzo di terreno in località Fornacelle, tra l’Aurelia e la bolgherese, scelto in alternativa ad una villa sul lungomare di Castagneto Carducci. Arriviamo al 1998, quando Stefano Billi e la moglie Silvia decidono - tra i primi a Bolgheri - di puntare decisamente sulla viticoltura, selezionando i vitigni adatti dopo un lavoro di zonazione.


L’azienda s’allarga ed attualmente opera su quindici ettari in proprietà, otto dei quali a vigneto, due ad oliveto, altrettanti a frutteto ed il rimanente riservato ad ortaggi e seminativi.

I vitigni, per quanto riguarda quelli a bacca nera, sono i classici bolgheresi, ovvero: cabernet sauvignon e franc e merlot, per quanto riguarda quelli a bacca bianca la scelta è un poco diversa rispetto agli altri produttori della zona, dato per scontato il Vermentino, ormai tipico per Bolgheri, troviamo infatti sémillon e fiano. Sia la parte agronomica che quella enologica sono affidate alle mani di Fabrizio Moltard, consulente di diverse aziende, soprattutto toscane.


I vini prodotti sono suddivisi in due diverse linee: “Bolgheri Classica”, che comprende i vini che rispettano il disciplinare della denominazione e “Collezione Artistica”, vini da monovitigno classificati come Igt Toscana, caratterizzati da etichette rappresentanti quadri dell’artista Franco Menicagli. La produzione annua è di circa 50.0000 bottiglie il 40% circa delle quali vengono commercializzate all’estero, soprattutto tra USA, Canada e Giappone.

Durante un incontro con Silvia Menicagli, a Milano, abbiamo avuto l’opportunità di assaggiare quasi tutta la produzione, eccovi quindi le nostra sintetiche impressioni:


“Zizzolo” Bolgheri Doc Vermentino 2016

Il nome si riferisce al vigneto di produzione “Vigna allo Zizzolo”, quest’ultimo è la versione dialettale di giuggiolo. Prodotto con uve Vermentino provenienti da un vigneto sito lungo la Via Bolgherese allevato a Guyot con densità d’impianto di 6.000-8.000 ceppi/ettaro. Sia la vinificazione che l’affinamento avvengono in acciaio. 10.000 circa le bottiglie prodotte annualmente. Il colore è paglierino luminoso, intenso al naso dove presenta note vegetali che rimandano al fieno ed alle erbe officinali. Intenso alla bocca, fresco, agrumato, con sentori di frutta a polpa bianca e decisamente sapido, lunga la sua persistenza.


“Fornacelle Bianco” Igt Toscana 2015

Da uve semillon allevate a Cordone speronato con densità d’impianto di 6.000-8.000 ceppi/ettaro. Sia la fermentazione che l’affinamento (per sei mesi) avvengono in barrique, seguono quindi ulteriori sei mesi di bottiglia prima della commercializzazione. La produzione annua è di circa 3.000 bottiglie. Color giallo paglierino, media l’intensità olfattiva dove si colgono sentori d’erba secca, frutto tropicale ed accenni nocciolati. Fresco e sapido al palato dove ritroviamo il frutto tropicale unito ad accenni minerali, buona la persistenza.


“Zizzolo Rosso” Bolgheri Doc 2015

60% Merlot e 40% Cabernet sauvignon allevati a Cordone speronato con densità di 8.000 ceppi/ettaro. La fermentazione avviene in acciaio e l’affinamento in barrique per otto mesi, ulteriore sosta in bottiglia per analogo periodo. 22.000 le bottiglie prodotte annualmente. Profondo il colore, rubino-violaceo. Ala naso sentori di sottobosco, foglie bagnate e frutto rosso maturo. Fresco alla bocca, sapido, di discreta struttura, con un bel frutto, lungo il fin di bocca piacevolmente amaricante su accenni di liquirizia.


“Guarda Boschi” Bolgheri Superiore 2013

40% Merlot, 30% Cabernet sauvignon e 30% Cabernet franc, allevamento a Cordone speronato con densità di 8.000 ceppi/ettaro. Fermentazione in barrique aperte, affinamento per 15 mesi in barrique e sosta in bottiglia per 18 mesi prima della commercializzazione. 8.000 le bottiglie prodotte annualmente.

Color granato, balsamico al naso, si colgono sentori di legno dolce, leggere note affumicate ed accenni vegetali.Di buona struttura, intenso, elegante, con sentori di tabacco dolce, lunga la persistenza su note di liquirizia.

“Foglio 38” Igt Toscana Cabernet franc 2012

Cabernet franc in purezza, la fermentazione avviene in barrique aperte, affinamento in barrique per 18 mesi , a cui seguono ulteriori 18 mesi di bottiglia prima della messa in commercio. Granato di buona profondità, al naso presenta leggere note vegetali ed accenni balsamici. Elegante, fresco, con un bel frutto, i tannini sono decisi ma ben fusi nell’insieme, buona la sua persistenza.


“Erminia” Igt Toscana Merlot 2011

Merlot in purezza, la fermentazione avviene in barrique aperte, affinamento in barrique per 18 mesi , più ulteriori 18 mesi di bottiglia prima della commercializzazione. Color granato profondo, note surmature al naso, frutto rosso maturo, prugne secche, confettura di marasche e prugne. Di buona struttura ma non massiccio, morbido, con bella trama tannica, spezie dolci e lunga persistenza su sentori di liquirizia.

Siamo sicuri che una Schiava vada bevuta giovane? Il caso della Kellerei Kaltern - Caldaro

Speriamo che dopo aver letto questo post qualcuno di voi cambi idea sulla schiava, vitigno autoctono Sudtirolese, il cui nome troppo spesso trovo accompagnato alla frase "vino da bere giovane". 

Basta fare un giro sul web per capire di cosa sto parlando:



Sia chiaro, chi lo scrive ha le sue buonissime ragioni perché la schiava, in tedesco “Vernatsch”, dal latino vernaculus, ovvero domestico, per anni è stato il vitigno più coltivato in Alto Adige (fino all'80% del totale delle uve prodotte) grazie anche alla sua generosità in termini produttivi in quanto la resa media, garantita dal classico sistema di allevamento a pergola, non scendeva mai al di sotto dei 180\200 quintali per ettaro. 

Uva schiava. Foto: https://www.vinix.com

Vino leggiadro e poco tannico, la Schiava per anni è stato importata in Austria e Germania per il suo basso costo di acquisto mentre in Alto Adige, essendo spesso prodotta per autoconsumo, era da molti considerata una bandiera di spensieratezza ed understatement che veniva abbinata con la classica merenda sudtirolese a base di speck, formaggi dolci e pane nero. Questa popolarità ha di fatto tolto ogni dignità a questo vino tanto che la schiava, complice la richiesta di altre tipologie di maggiore qualità, è diventata col tempo un'uva quasi da dimenticare tanto che la sua presenza nel territorio si è ridotta drasticamente fino ad arrivare al 16-17% del totale dei vigneti.

Fortunatamente negli ultimi anni questo vitigno dalle grande potenzialità, se e solo se coltivato e vinificato secondo criteri qualitativi, è stato riscoperto e valorizzato da alcune cantine altoatesine operanti nelle migliori zone di produzione ovvero all'interno degli areali dell'Alto Adige Lago di Caldaro DOCAlto Adige Meranese DOC Alto Adige Santa Maddalena DOC

Lago di Caldaro e viticoltura

Per cercare di dare una nuova luce alla schiava partirei proprio dal Lago di Caldaro (Kalterer See in tedesco) che fu uno dei primi areali in cui le aziende vitivinicole presero atto di questa problematica la cui soluzione doveva prevedere interventi immediati e di grande impatto come, ad esempio, la progressiva riduzione della resa per ettaro che passò dai 200 quintali per ettaro agli odierni 75.

Wine center della Cantina

In questo contesto un ruolo fondamentale l'ha giocato e lo gioca tuttora la Cantina di Caldaro (Kellerei Kaltern - Caldaro), fondata tra il 1906 e il 1908, che oggi rappresenta una importante e qualitativa realtà cooperativa che rappresenta circa 400 soci che nel territorio lavorano una superficie vitata complessiva di 300 ettari e producono vini cristallini e puri, dallo scheletro minerale e dal fascino essenziale.

Andrea Moser al centro Tobias Zingerle a dx

Complice un evento romano che ha ospitato Tobias Zingerle e Andrea Moser, rispettivamente CEO ed enologo della Cantina, con alcuni addetti ai lavori ho avuto il piacere e il privilegio di degustare l'annata 2015 del loro Pfarrhof Kalterersee Classico Superiore, selezione di vecchi vigneti di schiava (95%) e lagrein (5%), la cui profondità e complessità gustativa, legata anche ad un affinamento sulle fecce fini per sei mesi in acciaio e grandi botti di legno, fa di questo Kalterersee Classico Superiore un esempio di come la schiava coltivata in grandi terroir possa garantire al consumatore un prodotto dalla mille sfaccettature la cui dignità può essere paragonabile ad altri grandi vini italiani.


Accanto al Pfarrhof, Tobias ed Andrea, rigorosamente alla cieca, avevano inserito per gioco altri tre tipologie di vino che, per presunte affinità cromatiche e/o organolettiche, solitamente vengono paragonate alla Schiava dell'Alto Adige. 


Uno di questi calici conteneva questo liquido dal lucente colore granato la cui complessità aromatica e la finezza gustativa, decisamente sublime, ha conquistato tutta la platea di esperti che, come spesso accade in questi contesti, hanno iniziato a "sparare" le possibili soluzioni all'enigma enoico.

"Sicuramente è un vecchio pinot nero della Borgogna"

"...ma no, è un vecchio Gattinara!"

"Sbagliate, è un Etna Rosso con almeno dieci anni sulle spalle"

"Un sangiovese d'annata no?"

La risposta, che ha lasciato sbigottiti un po' tutti, è stata la seguente:


Grandissimo vino, ad oggi uno dei migliori rossi assaggiati quest'anno.

Vi ho convinto che la Schiava, se prodotta col cuore, può essere anche non bevuta giovane?

"E’ una zona vitivinicola tra le mie preferite per i suoi ottimi vini, aromatici e fruttati [...]. Qui cresce rigogliosa la Schiava, [...] che regala un vino importante e di carattere."

Luigi Veronelli, novembre 2001

Guerrieri Rizzardi - Calcarole Amarone Classico della Valpolicella DOC 1995 è il Vino della settimana di Garantito IGP

Di Stefano Tesi

Niente di più bello che assaggiare un vino che ti entusiasma anche quando non ami la tipologia a cui appartiene. 


Il Calcarole Amarone Classico 1995 di Guerrieri Rizzardi è tra questi: asciutto e profondo, note di grafite e cipresso, bocca severa, solenne e composta. Il colore? Incredibile, dopo 22 anni. Lo fanno a Negrar, in vigne terrazzate e solo nelle grandi annate.

http://guerrieririzzardi.it/


Dal 2 al 4 Giugno tutti al deGusto Spoleto Trebbiano & Food Festival

Un evento per gli appassionati di enogastronomia e cultura in uno dei borghi più belli d’Italia, con un ricco programma di degustazioni e cooking show

deGusto Spoleto Trebbiano & Food Festival: il gusto si dà appuntamento a Spoleto
Dal 2 al 4 giugno una delle più belle cittadine umbre accoglierà i vini e i prodotti del territorio, in una location d’eccezione. Protagonisti anche il design del food e la musica

La città di Spoleto si prepara al primo appuntamento con deGusto Spoleto: una tre giorni dedicata all’enogastronomia e alle tipicità locali, in programma dal 2 al 4 giugno 2017, ospitata in uno dei luoghi più suggestivi dell’Umbria.  Antica capitale dei duchi longobardi, Spoleto vanta infatti un incredibile patrimonio storico-artistico e conserva intatto un affascinante aspetto medievale. Proprio a richiamare il suo stretto legame con la storia, il logo dell’evento è una stilizzazione di un mosaico di Palazzo Mauri, nel centro storico.
Non solo: la città è legata a doppio filo all’offerta di prodotti enogastronomici di qualità, come tartufo, olio extra vergine d’oliva e naturalmente vino, con il Trebbiano Spoletino; vitigno di origini antiche risalenti al XV secolo, che negli ultimi anni ha saputo conquistarsi – a giusta ragione – il favore di pubblico e professionisti, per via delle sue sfaccettature e della sua versatilità.


deGusto Spoleto, evento patrocinato e sostenuto dal Comune di Spoleto, nasce proprio con l’intento di sottolineare il ruolo da protagonista che la città ha nei confronti dell’indotto food&wine del territorio, portando nel centro storico tanti produttori, degustazioni, cooking show e momenti di approfondimento. L’evento si aprirà venerdì 2 giugno, alle ore 17:00. Alle ore 17:30 sarà presentato il libro sul Trebbiano Spoletino a cura del Cedrav, all’interno di Palazzo Bufalini: un’uva che appartiene a questo territorio da sempre, molto diversa dal Trebbiano Toscano o Abruzzese, che si distingue per una spiccata personalità e interessanti profumi. Un vitigno adatto a vinificazioni differenti, che da origine a dei bianchi che trovano la loro dimensione più naturale nell’abbinamento con il cibo e non temono neanche l’invecchiamento in bottiglia. Tutti questi aspetti saranno indagati nel corso della manifestazione.   

Sabato 3 e domenica 4 giugno,  si apriranno gli stand enogastronomici, all’interno del Chiostro di San Nicolò. I visitatori potranno così avventurarsi in un vero e proprio viaggio del gusto, fra prodotti di zona e i vini delle cantine del territorio. Il programma si articolerà fra degustazioni guidate, cooking show, laboratori sul gelato in sinergia con Gennari srl e Carpigiani, workshop formativi, tutti a ingresso libero. Spazio al food design con OUT UMBRO ma anche alla musica e al divertimento con Dj set e live music il sabato sera. Uno sguardo ulteriore alla sostenibilità ambientale sarà dato grazie alla presentazione in anteprima del prototipo di una sacchetta porta-bicchieri fatta in materbi, un materiale totalmente biodegradabile, curato dalla ADI (Associazione per il disegno industriale) Umbria.  
Un appuntamento imperdibile, in una cornice d’eccezione, che saprà conquistare turisti, appassionati e professionisti.

DEGUSTO IN BREVE
Sabato 3 e domenica 4 giugno
Chiostro di San Nicolò - Via Gregorio Elladio, 10
Orari stand e banchi di assaggio:
Sabato ore 16-23; domenica ore 12-19
Costo biglietto per i banchi di assaggio del vino: 10 euro con il calice in omaggio
Degustazioni guidate: gratuite su prenotazione a degustospoleto@gmail.com
Stand gastronomici: ingresso libero

PARTNERSHIP
Ais Umbria, Istituto Alberghiero di Spoleto, ADI Umbria, Gennari srl. 


PROGRAMMA
Venerdì 2 giugno - palazzo Bufalini
Ore 17,00 Presentazione evento  e saluti istituzionali
Ore 18.00 Presentazione libro “Il vino a Spoleto” III numero Quaderni del Cedrav, a cura della dott.ssa Rita Chiaverini  
Ore 18.30 Tavola rotonda sullo stato attuale della Doc Spoleto e le prospettive di sviluppo
***
Sabato 3 giugno – Chiostro di San Niccolò
Ore 16,00 apertura stand e banchi di assaggio
Ore 16,30 degustazione guidata: “La duttilità del Trebbiano Spoletino”. A cura di Jacopo Cossater
Ore 17.00 Cooking show
Ore 18,30 degustazione guidata: “Confronto Trebbiano Spoletino con intrusi”. A cura di Giampiero Pulcini
Ore 19,00 Cooking show
***
Dalle 19,30 Dj Set con Marco BVoice
Ore 20.45 Proiezione Champions League
 22,00  live music
***
Domenica 4 giugno Chiostro di San Niccolò
Ore 12.00 apertura stand e banchi di assaggio
Ore 12.00 degustazione guidata: “Il Trebbiano Spoletino nel tempo” (abbinamento con Parmigiano Reggiano in diverse stagionature e prosciutto crudo) – a cura di Giampiero Pulcini in collaborazione con Latteria Santo Stefano
Ore 13.00 Cooking show
Ore 16.30 degustazione guidata: “Riconosci il Trebbiano Spoletino” Degustazione alla cieca con bicchieri neri – a cura di Davide Bonucci
Ore 17.30 Cooking show
Ore 18.30 degustazione guidata: riFermento, Chiacchierata sui metodi di spumantizzazione, con 7 vini a confronto cura di Giampiero Pulcini e Alesio Piccioni

Ore 19.00 – chiusura dei banchi di assaggio

***
Ogni giorno

Food design  lab OUT UMBRO a cura di Associazione per il Disegno Industriale
Laboratorio e degustazione Gelato Artigianale con i mastri gelatai Carpigiani
Presentazioni, laboratori e degustazioni in collaborazione con Gennari srl:
- facciamo il formaggio con Cheesemaster
- Rational: Un mago in cucina
- a scuola di bar con Faema
Area bimbi: animazioni e laboratori per i più piccoli

***

INFORMAZIONI
FB: DeGusto Spoleto
degustospoleto@gmail.com
Informazioni per la stampa e accrediti
Marina Ciancaglini - Garage Wine

339 8199734 - marina@garagewine.it

A Varsavia si mangiano molecole di sigaro indimenticabili - Garantito IGP

Non ho mai fatto mistero della mia tendenziale diffidenza verso la cucina non direi sperimentale o troppo audace, ma piuttosto verso quella che ha, per scopo, stupire. Qualcuno la chiama d’avanguardia e io, per carità, mi adeguo.
Datemi pure del provinciale, dell’incolto o dell’inadeguato: eppure la scenografia esagerata mi disturba, l’eccesso di raffinatezza mi appare spesso un esercizio fine a se stesso, la qualità intrinseca mi sembra sovente confusa con l’infatuazione modaiola per qualcosa che si insinua anche nei critici più severi, lo sfoggio di tecnica appunto uno sfoggio, variante forbita dell’esibizionismo.


Mi succede la stessa cosa con letteratura, musica, cinema. Quando tutti e troppo istericamente parlano di qualche “fenomeno”, io mi irrigidisco, mi metto a distanza e aspetto che il tempo faccia il suo corso.
Ovviamente prendo pure i miei begli abbagli e pago il fio dei miei pregiudizi.
Uno di quelli più tenaci lo nutro ad esempio nei confronti delle cosiddette “esperienze sensoriali”. Cose serissime, intendiamoci. Ma che col mangiare in senso edonistico (il che non significa strafogarsi) a mio parere c’entrano poco, andando a toccare ambiti assai poco gastrici e assai più psicotropici. Roba da Hoffmann e Junger, non da chef.
Quando infatti, alcune settimane fa a Varsavia, sono stato a cena al Senses (uno dei due stellati polacchi) del pugliese Andrea Camastra, annunciato da Hervé This come il nuovo portabandiera della cucina postmolecolare, la cosiddetta note by note (a breve intervistona allo chef su questi schermi), non ho avuto alcuna esperienza sensoriale: ho semplicemente mangiato benissimo!


In tavola è planata infatti, con la levità imposta dal locale e dalle circostanze, una cucina di sostanza e di equilibrio, d’invenzione concreta, capace di creare una connessione diretta da tra naso, bocca e stomaco, di soddisfare senza saziare, di far gioire rilassando. Niente indovinelli, solo allegra curiosità. Magnifico il pierogi (il classico “raviolo” polacco) con gamberi rossi, crema affumicata e bottarga, una vera goduria la portata di calamari, aragosta e goulash. Il tutto servito con trovate coreografiche e trionfi di pani niente affatto invadenti. Mediterraneo e tradizione slava uniti non in una sintesi, ma in una sorta di sincretismo organolettico.

Foto Max Dall’Argine
Certo, l’idea della molecola che aleggia qua e là e ti dà sapori di cose che in realtà, nel piatto, non ci sono affatto, ogni tanto si affaccia, ma non distrae. Al contrario, anzi: incoraggia il godimento e alimenta la conversazione.
Il meglio, però è venuto alla fine, quando dopo il lauto pasto si apre la fase del fumo: serviti in una scatola di legno da sigari, bella annerita e odorosa, appunto, di fumo, ecco in effetti dei sigari. Cenere compresa.

Sigari- Foto: Max dall'argine
Da mangiare, però. E in tutto - tatto, aspetto, consistenza, profumo e perfino sapore - stupefacentemente identici ai sigari veri. Una “fumata” che da sola valeva il viaggio.

Senses Restaurant

Bielańska 12, Warszawa (Polonia)
Tel. +48 22 331 96 97