Alla ricerca del vino dell'Ultima Cena

Molti pasti storici famosi sono stati ben documentati, così oggi sappiamo chi vi ha partecipato, dove si sono svolti e quali piatti sono stati serviti. Il vino era spesso presente su quelle tavole, ma non abbiamo molti dettagli sul tipo e sulla sua provenienza. In occasione della Pasqua, Vivino ha deciso di scoprire quale vino fu servito durante l'Ultima Cena, il pasto che Gesù ha condiviso con gli Apostoli prima della crocifissione.
Per aiutarci a capire dove e perché ha avuto luogo l'Ultima Cena, ci siamo rivolti a Padre Daniel Kendall, Professore di studi cattolici presso l'Università di San Francisco. E per comprendere meglio il processo di vinificazione e i tipi di vini disponibili a quell'epoca, abbiamo coinvolto il dottor Patrick McGovern, Professore di antropologia dell'Università della Pennsylvania, dove dirige il progetto di Archeologia biomolecolare per la cucina, le bevande fermentate e la salute presso il museo dell'Università della Pennsylvania, a Philadelphia.
Foto: www.premioceleste.it
Dove e quando si è svolta l'Ultima Cena?
Ci siamo rivolti a padre Kendall per stabilire innanzi tutto l'ora e il luogo in cui si svolse l'Ultima Cena e quale fu il motivo che portò quel gruppo di persone a riunirsi.
"Secondo tre dei quattro Vangeli, l'Ultima Cena molto probabilmente si tenne il giovedì della celebrazione della Pasqua ebraica", spiega padre Daniel Kendall della Compagnia di Gesù. "I Vangeli indicano una data attorno al 30 d.C. Dalle descrizioni appare probabile che si sia trattato di un pasto Seder. Trattandosi della festa ebraica più importante, il vino faceva senz'altro parte dei festeggiamenti. A differenza di Giovanni Battista, Gesù beveva vino".
Il vino avrà certamente costituito un buon abbinamento con il tradizionale cibo Seder composto da  maror o chazeret, un tipo di erba amara; charoset, un impasto di pezzi di frutta e noci, dolce e di colore marrone; karpas, una verdura (di solito prezzemolo o sedano) che viene immersa in acqua salata prima di essere consumata; zeroa, stinco di agnello arrosto o ali di pollo e beitzah, uova sode.
Sapere dove e quando si è svolta l'Ultima Cena ci permette di individuare un'area geografica e un'epoca precise per affrontare meglio la domanda successiva: Quali tipi di vini, uve e tecniche di vinificazione erano presenti a quel tempo?
Foto:www.winenews.it
Vino e vinificazione nella zona di Gerusalemme
Sappiamo poco delle varietà di vitigni presenti - o addirittura se al tempo dell'Ultima Cena esistesse il concetto di vitigno. "Non datano molto lontano le testimonianze scritte della presenza di diverse varietà di uve, potremmo dire circa 1.000 anni fa o meno", spiega Sean Myles, professore a contratto presso la Dalhousie University della Nuova Scozia e ricercatore di genetica agricola.
Tuttavia, disponiamo di una buona quantità di prove sulla vinificazione e sui tipi di vini che venivano prodotti e degustati ai tempi di Gesù.
All'epoca della sera in cui si è svolta l'Ultima Cena, la Terra Santa vantava già una lunga tradizione in fatto di vinificazione. Gli studiosi ritengono che quel territorio fosse vocato alla produzione vinicola almeno dal 4000 a.C. I viticoltori avrebbero piantato le viti lungo pendii rocciosi e ricavato delle tinozze nella roccia da utilizzare come torchi. Nelle culture di tutto il Medio Oriente per raccogliere e servire il vino erano diffusi diversi vasi di ceramica.
"A Gerusalemme avevano una particolare predilezione per i vini forti e corposi", spiega McGovern.
Mentre annacquare il vino era una pratica comune nella civiltà classica, a Gerusalemme si preferivano vini dal sapore intenso. Isaia (1,21-22) critica la città paragonandola al vino tagliato con l'acqua.
In una città nell'entroterra della Giudea gli archeologi hanno trovato una giara con la scritta "Vino ottenuto da uva nera". Forse i viticoltori facevano asciugare i grappoli sulla pianta o su stuoie al sole per produrre un vino molto dolce e denso. In altri punti della regione gli archeologi hanno trovato vasi con iscrizioni quali "vino affumicato" e "vino molto scuro".
Allora era pratica comune miscelare il vino con spezie, frutta e soprattutto resina ricavata dagli alberi. I viticoltori credevano che le resine come la mirra, l'incenso e il terebinto contribuissero a preservare il vino e ad evitarne il deterioramento. Era inoltre abitudine aggiungere altri ingredienti, come melagrane, mandragole, zafferano e cannella per esaltare il sapore del vino.
Possiamo concludere che al tempo dell'Ultima Cena esisteva una solida cultura enologica e che intorno a Gerusalemme i viticoltori producevano vini corposi, a cui spesso venivano aggiunte resine, spezie e frutta.  In che modo questo stile si è tradotto nel vino dei giorni nostri?
Riprodurre il vino dell'Ultima Cena

"È probabile che abbiano bevuto qualcosa di simile a un moderno Amarone, anche se non possiamo saperlo con certezza", afferma McGovern.
I viticoltori del Nord Italia producono l'Amarone facendo essiccare le uve su graticci prima della spremitura. Il risultato finale è un vino dolce, corposo e scuro, proprio come i vini che si gustavano in Terra Santa durante l'epoca biblica. "Possono anche aver aggiunto ingredienti come melograno, zafferano e mirra".
Vuoi provare di persona la nostra ipotesi sul vino dell'Ultima Cena? Aggiungi qualche goccia di olio di resina a una bottiglia di Amarone e scoprine il gusto. Oppure, se questo ti sembra troppo, prova ad aggiungere frutta e spezie come melagrana, zafferano e cannella. Anche se non siamo certi che questa sia una riproduzione perfetta del vino di quella notte, l'ipotesi è piuttosto verosimile.
McGovern scherza: "Non possiamo sapere in via definitiva cosa contenessero le coppe dell'Ultima Cena. Ma se qualcuno è in grado di trovare il Sacro Graal e inviarlo al mio laboratorio, potremmo analizzarlo e farvi sapere".

Grazie a Vivino a app dedicata al vino più scaricata al mondo, per aver curato l'inchiesta!

Fonti:
1.     Kendall, Daniel. "Regarding the Last Supper." Intervista di persona. 16 marzo 2015.
2.     McGovern, Patrick E. "Regarding ancient wine and winemaking." Intervista telefonica. 19 marzo 2015.
3.     McGovern, Patrick E. Ancient Wine: The Search for the Origins of Viniculture. Princeton: Princeton University Press, 2003. Stampa.
4.     Myles, Sean. "Regarding domestication of grapes." Intervista telefonica. 10 marzo 2015.


Non lo so 2013 - Il VINerdì di Garantito IGP

Di Lorenzo Colombo

Un ettaro a Rancate, frazione di Triuggio, pochi chilometri a nord di Monza, vitato a Merlot (75%) e Cabernet franc (25%), un suolo in buona parte argilloso, 2.700 bottiglie frutto dell’annata 2013.


Un vino fresco, elegante, mentolato, dalla lunga persistenza. Ecco “NON LO SO”, vino della Brianza.

Coste Ghirlanda, Pantelleria nel bicchiere - Garantito IGP


Nel 2009 escono le prime 3.800 bottiglie di “Lanostraprimavolta”, un IGP Sicilia, prodotto con uve Zibibbo.
Si presenta così sul mercato una nuova azienda: Coste Ghirlanda, nata a Pantelleria, nel 2005, ad opera di Giulia Pazienza Gelmetti.
Tre i vini prodotti, tutti con uve Zibibbo (Moscato d’Alessandria), provenienti da vigneti allevati ad “Alberello Pantesco”, sistema d’allevamento iscritto nel 2014, dall’UNESCO, nella lista dei beni “Patrimonio dell’Umanità”.
Tre le Tenute: Costa Ghirlanda, sei ettari di Zibibbo allevati ad alberello, situata al centro dell’isola, Montagnole, nella parte est dell’isola, in riva al mare, di fronte alla Sicilia e Nikà, a sud-ovest, che guarda alla Tunisia.
Un’occasione per riassaggiare questi vini (li avevamo già degustati lo scorso ottobre, durante un pranzo presso Daniel Canzian, ed ancora, questa volta a bottiglie coperte, il primo di novembre, durante una maxi-degustazione a Montenero di Livorno) l’abbiamo avuta ad inizio febbraio, durante un pranzo presso Trussardi alla Scala.
Le nostre impressioni sono un poco cambiate (in meglio) nel tempo, (parliamo dei vini vinificati secchi, ovvero il “Jardinu” ed il “Silenzio”) abbiamo infatti trovato vini più maturi, ovvero più pronti e complessi.
Nulla è cambiato invece riguardo all’Alcova, reputato, oggi come allora, un grandissimo Passito di Pantelleria.

Igt Terre Siciliane “Jardinu” 2013

Jardinu di Costa Ghirlanda
Jardinu di Costa Ghirlanda

Il nome deriva da “U Jardinu”, ovvero il Giardino Pantesco, tipica costruzione cilindrica di pietra lavica a secco con la duplice funzione di bonificare il terreno dall’eccesso di pietrame e di proteggere gli alberi di agrumi piantati all’interno dal vento e dalla salsedine.

Jardinu di Costa Ghirlanda, l'etichetta
Jardinu di Costa Ghirlanda, l’etichetta

Le uve provengono dalle Tenute di Ghirlanda e Montagnole, il suolo è vulcanico ed il sistema d’allevamento è il tradizionale Alberello Pantesco.
Dopo una macerazione sulle bucce, a freddo, per dodici ore, il mosto fermenta in acciaio e s’affina per otto mesi sui lieviti. Circa 15mila le bottiglie prodotte.
Molto bello il colore, giallo-dorato luminoso.
Intenso al naso, aromatico, con netti sentori di salvia ed accenni di scorza d’arancio.
Di buona struttura, il vino si presenta fresco e sapido, con note aromatiche ed agrumate (scorza d’arancia) e di salvia, bella la sua vena acida e buona la persistenza.

Deg. Cieca (nov.2015)
Giallo paglierino luminoso. Intenso, pulito, aromatico, accenni floreali (rose). Discreta struttura, note aromatiche, morbido e sapido, bella vena acida, discreta persistenza.

Igt Terre Siciliane “Silenzio” 2013

Silenzio di Costa Ghirlanda
Silenzio di Costa Ghirlanda

Non penso serva spiegare il significato di questo nome, che rimanda ai silenzi dell’isola.
Si tratta in pratica di una selezione delle migliori uve. La vinificazione è simile al precedente. Circa 6mila le bottiglie prodotte.
Color oro-verde, luminoso, molto bello.
Sia l’intensità olfattiva che l’aromaticità sono meno decise rispetto al precedente vino, in compenso denota una maggior eleganza ed ampiezza, anche se la tipicità del vitigno (leggasi esuberanza olfattiva) è meno riconoscibile.
Morbido al palato ed al contempo fresco e sapido, buona la sua persistenza, con sentori di salvia in fin di bocca.

Deg. Cieca (nov.2015)
Giallo paglierino di discreta intensità, riflessi verdolini. Intenso, aromatico, leggeri accenni di smalto. Buona struttura, sapido, note vegetali, fieno, erbe officinali, buona la persistenza.

Alcova 2012 – Passito di Pantelleria Doc

Alcova di Costa Ghirlanda
Alcova di Costa Ghirlanda

Estratto dal sito aziendale “Negli antichi dammusi l’alcova, dall’arabo al-qubba, era una rientranza della stanza molto bassa e dal soffitto ad arco, che riusciva ad accogliere solo un letto, considerata per questo un piccolo nido d’amore. Alcova è una parola che indica la discrezione del separare e del proteggere l’intimità più delicata attraverso la cornice di elementi architettonici.”

Le uve provengono dalla Tenuta di Ghirlanda, il sistema d’allevamento è ad Alberello Pantesco.
Dopo l’appassimento al sole, sui tradizionali “stinnitùri”, segue la fermentazione del mosto, con immissione i uva passa, che dura circa tre mesi; l’affinamento è di due anni in acciao più uno in bottiglia.
5.400 le bottiglie prodotte (375 ml)
Dall’intenso e luminoso color ambrato, sembra un the carico.
Al naso è una spremuta d’uva passa, intenso, deciso, elegante, si colgono inoltre sentori di fichi secchi, datteri e leggere note di salamoia.
Strutturato, fresco ed agrumato al palato, dove nuovamente esplode l’uva passa, lunghissima la persistenza. 88-89

Deg. Cieca (nov.2015)
Ambrato-aranciato luminoso di media intensità. Intenso al naso, frutta passa, fichi secchi, elegante. Buona struttura, morbido, frutta passa, asciutto, elegante, notevole equilibrio gustativo, lunga persistenza.


Mettete dello Champagne nei vostri fucili!!

Pensavo fosse uno scherzo, magari una di quelle notizie gossip con Paris Hilton al centro dell'attenzione per l'ennesima doccia a base di Champagne. 

Poi, fortunatamente, tutto finiva lì.

Invece no, esiste davvero ed è anche commercializzata. Sto parlando della pistola spara Champagne. Avete capito bene, non sto parlando di quelle ad acqua con cui giocavamo da bambini. No, si usa proprio Champagne.



Questa ca......ata, lo posso dire, l'ha inventata Jeremy Touitou, aka King of Sparklers, che nel sito (sì esiste anche quello ufficiale) scrive che “trattasi di arma da party, del tutto innocua, che può essere ricaricata con una bottiglia magnum di qualsiasi marca di champagne e può funzionare sia con un beccuccio che con un diffusore”. 

Probabilmente, come scrivevo in precedenza, Paris Hilton e i suoi amici saranno i primi clienti di Mr Touitou visto che il target di riferimento per questa "arma" vinosa è rappresentato da giovani e decerebrati ricchi visto che al pubblico viene venduta al prezzo di $459 (405 euro) .

Foto:www.ibtimes.co.uk

Ah, fondamentale notizia: le pistole sono disponibili in versione cromata oppure in oro e oro rosa. 

Davvero chic!

Cantina Cupertinum - Settantacinque Copertino doc riserva 2007. Il VINerdi di Garantito IGP

Di Stefano Tesi

Da ascrivere senza esitazioni alla categoria “vini del cuore”. 

Aggettivo: “Sontuoso”. 


Negroamaro 100% proveniente da un vigneto coltivato ad alberello, naso suadente, profondissimo in bocca, alto godimento e 8 euro al punto vendita. What more?

www.cupertinum.it



L'elisir e quel gran porco del limone

Di Stefano Tesi

Lo ha battezzato "Elisir di limone" e si arrabbia parecchio se lo si chiama limoncello, perché in effetti con il limoncello non condivide praticamente nulla. Se non il fatto che si presta assai al consumo di fine pasto e, ovviamente, l'ingrediente principale: il limone. O meglio, la scorza del medesimo.


Lui si chiama Daniele Magrini, è uno chef maremmano, di Castiglione della Pescaia per la precisione (ottimo il suo "La Baia dei Butteri", qui) e di limoni, nel senso di piante, ne ha appena una ventina in giardino, anche se della varietà quattro stagioni, che fruttificano tutto l'anno, ammette.
Da quelle ricava il necessario per questa bevanda-bomba finita di mettere a punto due mesi fa dopo anni di esperimenti e che, in anteprima, mi ha fatto assaggiare.

Lo riconosco: ne sono stato folgorato.

Per ora ne produce solo cinquecento bottiglie, che vende nel suo ristorante a 18 euro l'una. Ma dice che quando sarà "a regime" e quindi pronto, nel 2017, a lanciarlo su scala commerciale, arriverà all'astronomica tiratura di mille pezzi l'anno.

Di che si tratta?

Di un liquore secco, asciutto, di tenore alcoolico relativamente modesto (28°), che conquista per franchezza, equilibrio e lunghezza. Per il magnifico, perfino suadente profumo di agrume fresco, poi per la sua pulizia in bocca, per il suo gusto netto e deciso ma scorrevole, per l'assoluta mancanza di note stucchevoli o appiccicose e per un fragrante retrogusto amarognolo di buccia di limone che dura a lungo senza produrre tuttavia effetti amari sgradevoli, ripulendo anzi alla perfezione il palato e - sì - inducendo più volte al rabbocco del bicchiere.


Un qualcosa che mi ha ricordato, per utilizzo e anche per caratteristiche esteriori (limpidissimo, dal bel tono ambrato chiaro, senza nulla di "limonemente" giallo), certi antichi vinsanti mai troppo lodati e ormai quasi introvabili, con una varietà di funzioni che andava dal vino da dessert a quello da meditazione, dal cordiale per i viandanti al medicamento per gli infermi.

La preparazione, mi spiegava Magrini, è estremamente lunga e complessa.
I frutti vengono sbucciati con una sorta di pelapatate che ha inventato lui, le bucce vengono quindi lasciate a riposare per 24 ore in un contenitore forato per far evaporare le sostanze più acute. Dopo di che si prepara uno sciroppo di acqua e zucchero usato per diluire fino a 28° un alcool a 95° ricavato dal frumento.
La miscela viene messa in grandi buste sotto vuoto riempite ognuna con 2 kg di bucce e lasciata a cuocere in forno, nonché a raffreddare, diverse volte.
Dopo una settimana di riposo, cominciano i filtraggi: prima con una rete a sacco, poi a 20 micron, quindi a 10 micron e infine con una cartuccia sterile a 0,2 micron che, oltre alle ultime particole in sospensione, trattiene anche i batteri.
Ultima tappa, la bottiglia con tappo in sughero ("Sardo", puntualizza Daniele).



Ma l'impresa non finisce del tutto qui.

Forte del motto "il limone è come il maiale, di esso non si butta via nulla", il nostro si è inventato la sua personale filiera domestica del limone: "Con le scorze ci faccio il liquore. Con quello che ne resta, essiccato, una polvere aromatizzata da pasticceria. Con la polpa una speciale marmellata e con i semi un'essenza per candele".
L'essenza, l'ho sperimentato in diretta, funziona alla grande. Dell'elisir ho già detto. Del resto dirò la prossima volta.

I Fabbri - Chianti Classico Lamole 2010

La bottiglia era là, poggiata all'interno della mia cantinetta climatizzata che ogni tanto mi ricordo di rimettere in ordine visto che il via vai di vino al suo interno è paragonabile all'andirivieni della metro di Tokyo in ora di punta.

Non so come ma riesco a sfilare questo Chianti Classico senza creare danni. La prima cosa che colpisce è la sua etichetta d'antan che, se non ricordo male, Susanna Grassi mi disse essere la copia fedele di quella degli anni '20 del secolo scorso, periodo in cui il suo bisnonno Olinto cominciava a commercializzare vini imbottigliati e regolarmente etichettati.


Ricordo perfettamente quando mi è stata donata la bottiglia: era giusto un anno fa e, con la mia EnoRoma, avevo organizzato una splendida verticale dei Chianti Classico de I Fabbri (clicca QUI per rileggere articolo). 

Da allora ho custodito gelosamente questa bottiglia non per il suo valore economico, davvero esiguo se proporzionato alla qualità, ma per capire come questo sangiovese in purezza potesse evolvere nel corso del tempo dopo che, circa 365 giorni prima, l'avevo trovato già in splendida forma. Sono curioso, magari maniacale, ma la passione è anche questa!

E' una sonnacchiosa domenica di febbraio e a pranzo io e Stefy decidiamo che è giunto il momento di "tirare il collo" a questa 2010. Abbiamo voglia di Lamole ed immaginare di percorrere, stavolta con la fantasia, quei paesaggi boschivi del Chianti Classico che ti portano a quota 600 metri attraverso strade fatate dove, probabilmente, è più facile incontrare famiglie di gnomi che vignaioli.

Il vino nel bicchiere, nonostante sei anni, è ancora di una veste rubino viva, splendente, ma ciò che sbalordisce sono i suoi profumi, tersi e luminosi, che richiamano l'iris e le erbe aromatiche per poi virare su toni di ginepro, ribes e avvolgenti note eteree.


Il sorso è una carezza data al mattino alla propria compagna, sono coccole che prendono la forma di tannini sinuosi e freschezze primaverili. Puro terroir di Lamole condensato nel bicchiere. Non si potrebbe chiedere altro a questo sangiovese grosso. 

Susanna continua su questa strada che siamo ancora avidi di emozioni.

Susanna Grassi

Tenuta di Nozzole - Il Pareto 1997 per il VINerdì di Garantito IGP

Di Luciano Pignataro

Non c’era solo fuffa dietro questo vino che ha fatto epoca diventando uno dei simboli del rinascimento enologico italiano. 


Un Cabernet Sauvignon di razza, fresco, freschissimo eppure ricco, complesso al naso e al palato dove non ci sono concessioni piacione. Il capolavoro di un’annata celebrata che si conferma ottima proprio quanto riesce ad avere queste grandi interpretazioni. Sapori di anni ’90 diventati classico.



Il Fiano fuori il Fiano: Irpinia, Cilento, Sannio, Basilicata e Puglia - Garantito Igp

l Fiano fuori il Fiano: ossia tutto quel che c’è di buono fuori l’areale della docg riconosciuta nel 2003 e che copre quasi tutta la provincia di Avellino. Il motivo di questa piccola mappa è nel successo stesso del Fiano maturato in questi anni, ma anche nella curiosità di capire come si comporta in territori più caldi e, soprattutto, quando è piantato su suoli che non hanno origine vulcanica come il Cilento.

Tracce di questa uva, infatti, si trovano sparse sin dagli anni ’70 nel Beneventano, in parte nel Cilento dove è stato spesso confuso con il Santa Sofia, soprattutto in Puglia dove entra in piccole percentuali in molte doc senza però mai diventarne protagonista.

In primo luogo il Fiano fuori il Fiano è già in provincia di Avellino: coltivato da alcuni produttori impegnati nella coltivazione di quest’uva nella doc Irpinia che copre, questa sì, tutta la provincia di Avellino. Qui molte piccole cantine pur di presentare la gamma completa acquistano uve e si presentano con la Trimurti Bianca pur senza avere le vigne: Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Falanghina Sannio dop un po’ come le aziende conserviere di pomodori presentano pelati, cubettato e polpa.  Molti consumatori, rappresentanti, enotecari e ristoratori primi attori di questa catena di incoltura enologica, vedono la fascetta e danno per acquisito che il vino docg di Fiano di Avellino e di Greco sia di per se migliore del Fiano doc. Come in effetti dovrebbe essere.
Invece no. Può capitare di avere aziende che coltivano proprie uve invece  di acquistare e che hanno anche il coraggio, direi la lungimiranza, di affrontare il mercato dicendo la verità. E le belle sorprese non mancano.

Il fiano di Tenuta Macellaro

Citiamo dunque con piacere i Fiano Irpinia doc di Antico Castello a San Mango sul Calore, Casefatte di Boccella a Castelfranci (lavorato in legno grande) e Sequoia di Fonzone a Paternopoli. Sono nella docg ma non hanno fascetta i due Fiano di Cantina del Barone, il Fiano Paone e il Fiano Particella 928 a seguito di una querelle con la commissione di assaggio della Camera di Commercio, il Fiano JQN Piante a Lapio di Joaquin a Montefalcione. In questa pattuglia è entrato a far parte anche Pasqualino di Prisco con un Fiano prodotto da propie uve a Fontanarosa. Fiano di alta, altissima quota, Il Don Chisciotte di Zampaglione a Calitri sui 650 metri, e Arenara di Cianciulli ad Andretta che tocca gli 800 metri.
Infine ci sono gli assolo di Cantina Giardino ad Ariano Irpino (Gaia e Sophia), non sempre prodotti, improntati alla filosofia biodinamica e che regalano incredibili emozioni con il passare del tempo.

Chi ha adottato il Fiano con maggiore convinzione dopo Avellino è la provincia di Salerno, in particolare l’area a Sud compresa tra la dop Cilento e la Igt Colline Salernitane. Non ci sono studi sulle origini, ma a memoria si ricorda che sicuramente già negli anni ’70 c’erano impianti di fiano le cui uve venivano poi messe insieme a trebbiano, malvasia, moscato e Santa Sofia. In realtà è nella metà degli anni 90 che il Fiano inizia ad essere caratterizzante del bianco di territorio grazie alla spinta decisa di Viticoltori de Conciliis  (Perella, Antece, Donalluna) e Maffini (Kratos e Pietraincatenata) subito seguti da Alfonso Rotolo a Rutino (Fiano e Valentina). Fuori dal suolo vulcanico e in un ambiente decisamente più caldo, il Fiano mostra propensione al floreale e alla frutta esotica ed è in questa direzione che poi evolve nel tempo a differenza di quello irpino, maggiormente caratterizzato da note di idrocarburi. Oggi tutti i produttori dell’areale cilentano hanno uno o più Fiano: Albamarina a Futani è quella più alta, Barone a Rutino, Botti, Marino, Polito e Verrone ad Agropoli, Casebianche a Torchiara (da cui nasce La Matta, versione terrona dei colfondo), Cobellis a Vallo della Lucania, Di Bartolomeo a Castellabate Donnaclara a Licusati di Camerota, Di Bartolomeo e San Giovanni a Castellabate, Tenuta Macellaro a Postiglione e I Vini del Cavaliere a Paestum e San Salvatore a Giungano.
I produttori hanno ottenuto l’introduzione della dicitura Fiano della dop Cilento, ma molti utilizzano la igp Paestum. In sostanza parliamo di una settantina di ettaro e circa 350mila bottiglie: una realtà territoriale piccola ma compatta.
Per restare in provincia di Salerno, c’è Fiano anche nelle colline della Piana del Sele: Melodia e Coccinella di Casula Vinaria a Campagna, Luna Rossa a Giffoni Vallepiana che si contraddistingue per il Quartara, fiano in anfora, Casa di Baal a Montecorvino Rovella e, nel comune di Salerno, il Fiano di Mila Vuolo, di lungo invecchiamento, più vicino a quelli irpini per clima e suolo.


In Provincia di Benevento, il Fiano è ben presente nelle grandi realtà come Cantina La Guardiense, Cantina di Solopaca, Cantina del Taburno, Vinicola Titerno, ma le attenzioni sono quasi tutte dedicate, come è logico che sia, alla Falanghina che da sola copre la metà della produzione. E infatti i vigneti coltivati sono poco più di quelli di Salerno, circa cento. Comunque è diffuso in tutta la Valle Telesina e sul Taburno. Lo producono Oppida Aminea dei fratelli Muratori nel comune capoluogo, Fosso degli Angeli, che ritarda di un anno l’uscita  del Fiano Dulcis, e Terra dei Briganti a Casalduni, Fontana delle Selve a Castelvenere, Cautiero a Frasso Telesino, Aia dei Colombi, Corte Normanna e Terre Stregate a Guardia Sanframondi, Fontanavecchia a Torrecuso. Non mancano delle piacevoli sorprese, soprattutto quando si insiste sulla freschezza e la sapidità, ma la verità è che la stragrande maggioranza dei produttori non ci crede fino in fondo.


In Basilicata il fiano è una testimonianza, la vigna più antica fu piantata negli anni ’80 dal padre di Sara e Luca Carbone a Melfi. C’è poi il Fiano Biancorte di Paternoster e il Sophia di Basilisco che però ha un 5 per cento di traminer. Un peccato perché le condizioni climatiche, l’altezza e il suolo renderebbero il Vulture una zona sicuramente vocata ai bianchi, ma praticamente nessuno ci crede sino in fondo e con convinzione. Tra l’altro c’è la presenza del Moscato e della Malvasia che qui trova espressioni davvero interessanti.

Discorso simile in Puglia, dove il Fiano deve vedersela con l’irresistibile ascesa della falanghina in Daunia, il Minutolo, il Moscato, la Malvasia, la Verdeca, e il Bombino oltre che con i vitigni internazionali. A Corato ci hanno creduto Roberto Perrone Capano con l’azienda Santa Lucia che regala sempre belle espressione di Gazza ladra, Torrevento con Matervitae. A Lucera la Marchesa produce Il Capriccio della marchesa mentre Tormaresca a Minervino presenta il Roycello. Nel Salento interessanti il fiano Alticelli di Cantele, il Fiano di Schola Sarmenti, Angiò di Leone De Castris.
Vi lasciamo con il classico più classico di Fiano fuori dal Fiano, il Cometa di Planeta in Sicilia.


Angelo Gaja dixit:"Nessuno ha la verità in tasca"

Mi è arrivato pochi giorni fa questo comunicato di Angelo Gaja che ripropone un tema caldo in viticoltura ovvero l'uso della chimica in vigna. Onestamente quanto scritto dal grande produttore piemontese non aggiunge molto al dibattito che in questi ultimi tempi è molto acceso su Facebook che sempre più si sta trasformando in un campo di battaglia tra fazioni dove la parola BIOQUALCOSA passa dalla pura mitizzazione alla più accesa denigrazione.

Io, in questo tema, non ho ancora la verità in tasca e, leggendo il comunicato, forse nemmeno il grande Gaja.

Foto: Luciano Pignataro
Tra il 1850 ed il 1890 si abbatterono sulla viticoltura europea l’oidio e la peronospora, fitopatologie nuove ed aggressive come non si erano mai viste nei secoli precedenti. I viticoltori dovettero imparare a combatterle sistematicamente con l’impiego di antiparassitari, zolfo e rame, se volevano salvare la produzione d’uva. Come non bastasse, qualche tempo dopo arrivò la fillossera ad innescare la moria delle viti, a seguito della quale si fu costretti ad estirpare la totalità dei vigneti per reimpiantarli successivamente su portainnesto di vite americana, quest’ultima resistente alla malattia. Sembrò a quel tempo che la viticoltura europea ricevesse un colpo mortale. Non fu possibile allora attribuire il disastro al supposto cattivo stato di salute della viticoltura causato da un impiego eccessivo della chimica, perché non se n’era mai fatto uso prima; alla monocoltura, perché si era sempre praticata la policoltura; alla perdita di biodiversità, perché non ce n’era mai stata così tanta. 


Ci fu un ampio abbandono della viticoltura in favore di altre coltivazioni. Poi, gradualmente, si trovarono le contromisure e nel secolo scorso si individuò nella chimica il mezzo più efficace per contrastare le fitopatologie attraverso l’impiego di antiparassitari, definiti via via anche come fitofarmaci, pesticidi, veleni chimici. E la chimica, a farla da padrona, continuò a fornire altri prodotti ancora da impiegare in qualità di fertilizzanti e diserbanti. E’ nel secolo corrente che prende forza la domanda di una agricoltura che faccia meno ricorso alla chimica e si affermano per il cibo l’esigenza della sanità, a protezione della salute del consumatore, e della pulizia, affinché la coltivazione non divenga inquinante per l’ambiente. 

L’obiettivo primario di ridurre l’impatto della chimica in viticoltura viene oggi perseguito con la lotta integrata, che riduce l’uso di antiparassitari integrandoli con prodotti che non sono di origine chimica; la conduzione biologica, che limita l’uso di prodotti chimici ai soli rame e zolfo; la conduzione biodinamica che esclude l’uso della chimica. Ma non ci si può fermare soltanto qui. Vanno utilizzati anche quei sistemi che consentono di arrivare a produrre viti che offrano una buona resistenza alle malattie, inseguendo così l’obiettivo di contenere/abbattere il ricorso alla chimica per combatterle. 

Foto: agronotizie.imagelinenetwork.com
La recente scoperta del sequenzionamento del genoma della vite offre oggi alla ricerca nuove importanti opportunità: di individuare le viti che ospitano il gene della resistenza (al patogeno) e trasferirlo nel genoma di viti che non lo posseggono. Pratica da avviare attraverso l’impiego di biotecnologie che non sono equiparabili agli OGM transgenici. Andrà chiesto ai vivaisti di dedicare maggiore attenzione al materiale derivante da selezione massale, per non affidarsi totalmente alla selezione clonale che produce viti più fragili. 

Al fine poi di recuperare salute al vigneto, andranno estese le pratiche che consentono di rafforzare la vitalità del suolo. La strada per abbattere l’uso della chimica nel vigneto è lunga, se la si vuole condurre con successo va percorsa senza paraocchi, utilizzando tutti gli strumenti disponibili. 

Angelo Gaja 

Albino Piona - Spumante Metodo Classico Gran Cuvée Pas Dosé - Il VINerdì di Garantito IGP

di Carlo Macchi

Corvina=amarone, corvina=valpolicella, corvina=bardolino, corvina=grande spumante metodo classico.



Se l’ultima parte non vi quadra basta andare da Albino Piona e assaggiarlo: sapido, austero, concreto, ancora irsuto ma con bollicina finissima e stuzzicante.

Un vino da non perdere, anzi da vincere, pregiudizi in primis.



Il Sangiovese che mi ha fatto ricredere sul Sangiovese (a San Gimignano) - Garantito IGP

Di Carlo Macchi

Nemo propheta in patria, recita il detto, che declinato su me stesso si adatta perfettamente al rapporto che ho con i vini rossi prodotti a San Gimignano. Infatti in tanti anni (forse troppi, oramai sono vecchio) di frequentazione della patria della Vernaccia, praticamente mai mi sono scontrato, anche per caso, con un rosso di buon livello. In passato perché spesso erano imprecisi e duri, in tempi moderni perché purtroppo la modernità è stata spesso traslata in vini ancor più duri, difficili, molto marcati dal legno e senza grandi guizzi dopo un pur lungo periodo di permanenza in bottiglia.
Quindi per me la abbastanza recente San Gimignano DOC è sempre stata vista come, se mi si passa il termine, “la polvere (di barrique) negli occhi”: non per niente i nostri assaggi annuali puntano esclusivamente sulla Vernaccia, anche se il territorio ha molti ettari con uve a bacca rossa.

San Gimignano Rosso DOC 2011 Fantesco

Poi accade che raccogli una voce che gira e in un pomeriggio nebbioso e piovoso vai a verificarla. Preciso che se non avessi avuto già buona conoscenza e stima del produttore in questione, mai mi sarei mosso da casa per assaggiare un San Gimignano Rosso e inoltre il motivo “ufficiale” della visita era l’assaggio comparato della sua Vernaccia 2013, tappata in parte con sughero tradizionale e in parte con DIAM (di questo vi parlerò in un altro articolo).


Dopo questo confronto più lungo del previsto, chiedo ad Alessandro Tofanari, vignaiolo semplice e schietto, persona fuori da ogni voglia di riflettori, di farmi assaggiare il suo San Gimignano Rosso 2011 e lui subito “Ma che succede con questo vino! Per due anni nessuno me l’ha filato e ora me lo chiedono tutti!”, poi si alza e va in cantina a prendere una bottiglia. Torna che il vino è naturalmente a temperatura di cantina e cioè attorno agli 8-10 gradi.
Oramai però era tardi, dovevo rientrare e quindi lo lascio giusto 2 minuti due sul tavolo, mentre Alessandro mi spiega come è nato, poi lo stappo e lo metto nel bicchiere.
E mentre “lo metto nel bicchiere” lo spiego anche a voi: intanto stiamo parlando di sangiovese in purezza che viene da una vigna di 15 anni in una zona piuttosto bassa, una specie di piccolo altipiano vicino al fiume.
Quindi non siamo certo sulla cima di un colle e questo, con il caldo di agosto e settembre 2011 forse e servito a rendere meno difficile la situazione. Ma questo sangiovese, dopo aver superato anche il caldo di settembre è rimasto ancora un mesetto in vigna, perché è stato vendemmiato attorno alla metà di ottobre.

Alessandro Tofanari
Infatti Alessandro cerca di portare le uve alla massima maturità possibile tanto da arrivare in alcuni casi alla lignificazione dei tralci. Dopo la vendemmia il vino è stato semplicemente vinificato in acciaio, dove ha fatto la malolattica e dove è rimasto fino all’imbottigliamento. Stop! Niente legno, niente di niente, solo uve ben mature e la mano di Alessandro.
Il risultato è un vino, Il Fantesco 2011, dal color rubino scarico che ti fa innamorare, come ti fanno innamorare i potenti profumi: all’inizio note quasi terrose di sottobosco che piano piano si sono trasformate in frutta rossa e fiori, come rosa e giaggiolo. In effetti pare proprio un sangiovese di Lamole, anzi, se mi permettete l’assurdità, un nebbiolo di Lamole. Ricorda infatti al naso questo vitigno ma tutto quadra, perché quando il sangiovese è di altissimo livello e magari è fatto in maniera “gambelliana”, sembra un nebbiolo.
Le somiglianze col nebbiolo si fermano al palato, dove il tannino non è certo “serralunghiano”, ma comunque vivo, ancora leggermente ruvido e dolcissimo alla fine. E’, vista l’annata, anche molto fresco e poi si appoggia senza timore ad una sapidità incredibile.


Non è certamente quello che si definisce un vinone, anzi. Entra in bocca senza eccedere e poi si allunga in un bellissimo gioco tra tannicità e sapidità: è elegante e moooooolto piacevole, inoltre ha una lunghezza al palato che sorprende.
E’ un vino che mi ha fatto ricredere sulle potenzialità dei sangiovese della zona di San Gimignano, è un vino assolutamente sorprendente.
E la sorpresa più grande è il prezzo: siamo molto sotto i dieci euro in cantina. A quel punto, sgranando gli occhi, ho detto ad Alessandro che ne volevo dodici bottiglie e lui “Va bene, però devi tornare a prenderle perché devo etichettarle!”

In quanto a marketing Alessandro non lo frega nessuno, ma va bene così, l’importante è che continui a fare vini come questi.

San Gimignano Rosso DOC 2011 Fantesco
Alessandro Tofanari
Podere La Castellaccia
Via di Montauto, 18/A
53037 San Gimignano (Si)
Tel. e fax 0577 940426
Mobile: 348 9041344
Mobile: 392 9815752