InvecchiatIGP: Vigneti Villabella - Villa Cordevigo Rosso 2005


di Roberto Giuliani

La storia di Vigneti Villabella affonda le sue radici nel 1971, quando Walter Delibori e Giorgio Cristoforetti fondarono l’azienda. Nel 2002 i due soci, già proprietari dei vigneti circostanti, acquisiscono Villa Cordevigo a Cavaion Veronese, che dopo nove anni diventa anche Wine Resort.


Questo Rosso Veronese IGT, classe 2005, proviene proprio da quei vigneti ed è composto da corvina per il 60%, cabernet sauvignon e merlot per il 20% ciascuna, vendemmiate tardivamente e leggermente appassite; affina in botti di ciliegio da 7 ettolitri e tonneaux. Prima di descriverlo ci tengo a precisare alcune cose: quella in mio possesso è una magnum, la gradazione alcolica dichiarata è del 14,5%, è rimasta conservata dal 2008 a oggi nella propria confezione in legno, coricata, al buio, ma non in cantina, quindi ha subito per 15 anni un’escursione termica fra inverno ed estate di almeno 15 gradi.

L'azienda vista dall'alto (foto:italysfinestwines.it)

La condizione del tappo era perfetta, l’ho estratto senza difficoltà, appena versato ho percepito subito note molto evolute, che paventavano un vino stanco, in declino, tanto da aver pensato fosse meglio passare ad altra etichetta. Invece è bastato farlo respirare per una decina di minuti e la musica è cambiata radicalmente, lasciandomi ben sperare.


Il colore è ancora bello compatto, certamente granato ma intenso e profondo, senza evidenti flessioni sul bordo; ve lo sto raccontando in diretta, cosa che trovo decisamente più interessante, perché posso dirvi man mano come si “muove”. Intanto quei sentori di stantio, di funghi cotti, di straccio bagnato, sono letteralmente spariti, lasciando spazio a un frutto maturo ma non marmellatoso, si coglie la prugna, la marasca, arrivano note speziate di cardamomo, cannella, tracce vegetali mature, cacao, sbuffi di tabacco e pelle conciata, richiami al sottobosco ma non in direzione dei funghi, piuttosto di piante umide. Interessante scoprire che al suo interno ha ancora tracce floreali, certamente di petali appassiti, ma nel complesso non è affatto fiacco, si sveglia sempre di più, magari riuscissimo anche noi umani a ringiovanire solo ossigenandoci…

La cantina (foto: italysfinestwines.it)

All’assaggio emerge chiaramente l’indirizzo espressivo indotto dall’appassimento, il frutto è in confettura e rilascia sensazioni dolce che lo fanno accostare a molti Amarone, senza però averne né gli eccessi alcolici né la muscolarità, ma mostrando un bell’equilibrio e una bevibilità più che apprezzabile, tanto che, non ditelo a nessuno, ne prendo un altro sorso.

Vigneti (foto: italysfinestwines.it)

È la freschezza che mi lascia maggiormente stupito, nel senso che c’è proprio una spinta acida che dà slancio al sorso, come a dire “sono ancora qui, non mollo”, e più passano i minuti più sembra ringiovanire! Sarebbe stato il vino ideale per Benjamin Button (ricordate “Il curioso caso di Benjamin Button, alias Brad Pitt?).

Baccagnano - Ravenna IGP Sangiovese "52 Fuochi" 2020


di Roberto Giuliani

In quel di Brisighella nascono anche sangiovese come questo, prodotto da Marco Ghezzi che da subito ha scelto di adottare i tappi a vite per i suoi vini. 


Il 52 Fuochi è una gioia per i sensi, fruttatissimo, succoso, fresco, con una balsamicità naturale, di quelli che bevi benissimo anche in estate.

Barbacarlo e Montebuono, i vini di Lino Maga dagli anni ’80 a oggi


di Roberto Giuliani

A Terre di Vite, manifestazione tenutasi lo scorso fine settimana a Bomporto (MO), uno dei seminari più interessanti è stato dedicato alla famiglia Maga condotto da Sandro Sangiorgi (una presenza fissa a Terre di Vite), al quale non potevo assolutamente rinunciare. E ho fatto bene, sia perché il noto giornalista di Porthos era in gran forma (tanto che la degustazione si è protratta ben oltre i limiti per via delle numerose domande poste dai partecipanti), sia perché il Barbacarlo e il Montebuono presentati dal 1989 al 2019, scegliendo delle precise annate di riferimento, era un’occasione davvero ghiotta per approfondire due vini che rappresentano davvero qualcosa di leggendario.


So che c’è una specie di contrapposizione fra chi li ama e chi no, ma a mio avviso questo dipende proprio dal fatto che non sono vini “facili” ma hanno bisogno di essere conosciuti nelle loro diverse sfaccettature ed evoluzioni. Non è un caso che proprio la 1989 sia stata l’annata che mi ha fatto davvero emozionare.


Ma scendiamo nel dettaglio: i vini presentati erano sette, che poi sono diventati otto, quindi non tantissimi, ma le intenzioni non erano quelle di fare una classica verticale, bensì di prendere a riferimento alcune annate e mettere a confronto due vini diversi ma con un’impronta comune, quella fortemente voluta da Lino Maga e oggi portata avanti dal figlio Giuseppe.


Siamo a Broni, in una zona del tutto particolare dell’Oltrepò Pavese (che nessuno del luogo scrive con l’accento sulla “o”, cosa a mio avviso più corretta visto che il nome è legato al fiume più grande d’Italia, che ne è privo, mentre stranamente il disciplinare lo prevede con l’accento, ma Lino Maga in etichetta non lo ha mai messo), le vigne si trovano su una collina dalle pendenze che metterebbero a dura prova chiunque (70% di media), dove il suolo è tufaceo-sassoso a una quota di circa 300 metri s.l.m.


Terra che un vero contadino come Lino conosceva a menadito e sapeva lavorare, accompagnato dall’inseparabile sigaretta, una costante nella sua vita. Qui risiedono croatina, uva rara e ughetta (già, come il nome della mia compianta gatta…), le rese d’uva per ettaro nelle vigne di Maga sono lontane anni luce da quelle di chiunque altro, sia per sua scelta, sia perché con quel tipo di suolo e pendenza non potrebbero che essere basse, mediamente 30-35 quintali per ettaro, meno di un terzo di quanto consente il disciplinare dell’Oltrepò Pavese. Ma tanto i suoi vini sono sempre stati piuttosto indipendenti, alcune annate sono uscite come DOC Oltrepò Pavese Rosso (e in quel caso diventavano Vigna Barbacarlo e Vigna Montebuono), altre come IGT Provincia di Pavia (senza menzione vigna).

Ma veniamo al racconto di questa degustazione.

Innanzitutto Sangiorgi ha voluto che i vini fossero coperti, perché era importante non sapere quale fosse il Barbacarlo e quale il Montebuono, né avere riferimenti sull’annata. Si sapeva solo che si partiva dai più vecchi per arrivare ai più giovani, per una ragione molto semplice: i vini recenti sono più aggressivi e tannici, mentre gli “anziani” più sottili, equilibrati, giocati su sensazioni più ampie ma sussurrate, degustarli al contrario avrebbe certamente penalizzato quest’ultimi.


Questo tipo di situazione è ben diverso dalle degustazioni in batteria, durante le quali devi leggere un vino appena versato in uno-due minuti. Qui puoi lasciarlo respirare a lungo, sentirlo e risentirlo più volte, hai davvero la possibilità di conoscerlo anche nei suoi lati più nascosti, quelli che si rivelano solo dopo decine e decine di minuti. Potessimo farlo sempre, probabilmente tante valutazioni sarebbero leggermente diverse…

1) Oltrepò Pavese Rosso Montebuono 1989: cangiante come non mai, parte con note speziate e di erbe aromatiche, un frutto maturo che richiama l’amarena caramellizzata, ma anche la ciliegia; ferroso, ematico, scorza di arancia amara, tocchi fumé, vaghi richiami al fungo e al sottobosco. Al palato ha ancora una bella vitalità, tutto il suo carattere terragno emerge con forza, il tannino aggredisce con brevi tocchi per poi immergersi nel frutto. Un vero spettacolo per i sensi.

2) Oltrepò Pavese Rosso Barbacarlo 1989: va detto che nella storia di questi due vini, il Barbacarlo ha quasi sempre adombrato il Montebuono, a mio avviso ingiustamente, questa degustazione me lo ha chiaramente confermato. Meno disponibile nella fase iniziale, poi mostra un bouquet equilibrato ma non così ampio e variegato come il precedente, ha un bel timbro balsamico, un frutto ben espresso e non surmaturo, una speziatura più delicata, qui amarena e ciliegia si alternano in modo ritmato; l’assaggio rivela molto più sulla bellezza di questo vino, più passano i minuti e più sale, coinvolge, mostrando un equilibrio straordinario e una freschezza che mai ti farebbe pensare a un vino di 34 anni. Il tannino è perfettamente inserito nella polpa che non scalpita ma si spalma sulle pareti della bocca, rilasciando inebrianti sensazioni. Monumentale.

3) Oltrepò Pavese Rosso Montebuono 1996: bottiglia sfortunata, nella mia fila, per fortuna ce n’è un’altra, purtroppo però ci sono molti depositi e il vino non è del tutto fruibile, peccato perché rivela comunque un bel frutto vivo e una piacevole vena balsamica. Anche al palato esprime una notevole vivacità e freschezza, i suoi 27 anni non si sentono per nulla, ha i tratti della grande annata pur non essendo una bottiglia felicissima.

4) Oltrepò Pavese Vigna Barbacarlo 2002: un’annata micidiale un po’ in tutta Italia, salvo rare eccezioni, piovosa per lunghi periodi, con una pausa abbastanza prolungata solo dopo i primi di ottobre. Chi ha aspettato e raccolto più avanti (e Maga è uno di questi) ha ottenuto un vino certamente più esile ma di grande fascino. Tutta quella forza e spinta di cui il Barbacarlo è capace, qui trova una dimensione altra, giocata sulla freschezza e su una grande purezza di frutto con anche cenni floreali. Un vino fortemente godibile, per nulla stanco.

5) Barbacarlo 2018 (Provincia di Pavia Rosso IGT): da qui si sente netto lo stacco con le altre annate, siamo in piena fase scalpitante, c’è maggiore materia, toni scuri sia nel colore che nella tipologia di frutto, non solo amarene ma anche prugne. Al gusto racconta il breve vissuto iniziale attraverso una spiccata vena acida e un tannino aitante, tanto frutto succoso che ne favorisce già una invitante bevibilità.

6) Barbacarlo 2019 (Provincia di Pavia Rosso IGT): che dire, rubino cupo, un’amarena avviluppante con intarsi di mora di rovo e prugna, ciliegia nera, arancia sanguinella. Il sorso evidenzia tutta la sua energia giovanile, eppure, nonostante sia un puledro scalpitante, l’abbondanza di frutto riempie di sapore le pareti della bocca nascondendo in parte la tensione acido-tannica in un contesto di assoluto piacere.

7) Montebuono 2019 (Provincia di Pavia Rosso IGT): impressionante esempio di quanto questo vino non sia affatto secondo al Barbacarlo, anzi, proprio con questa annata sprigiona tutta la sua bellezza, evidenziando una purezza espressiva che lascia senza parole. Tutto in divenire, certo, ma la tessitura è magistrale, perfetta, rifinita come non mai. Costi quel che costi prendetene qualche bottiglia finché siete in tempo perché vi darà enormi soddisfazioni.

8) Montebuono 2005 (Provincia di Pavia Rosso IGT): a sorpresa e non previsto ecco un millesimo di rara bellezza, a mio avviso un’annata di quelle che molti hanno riscoperto solo dopo anni, poiché nella fase iniziale, penso soprattutto ai tanti assaggi fatti in Langa, dava vini molto essenziali, senza smancerie, diretti e molto veri, territoriali, un’annata che potremmo definire classica (oggi sempre più rara). Anche il Montebuono rientra in quest’ottica, con tutti i suoi tratti caratteristici comunicati senza strillarli ma con una notevole progressione dove vince l’eleganza rispetto alla potenza.


N.B. Chi conosce Sandro Sangiorgi sa bene che è un personaggio del tutto particolare, dalla capacità narrativa indiscutibile, ma anche amante di sperimentazioni che lo portano a spingersi ben oltre il linguaggio del vino. In questa occasione, ad esempio, ha voluto proporre ai partecipanti, di affiancare alla degustazione del tutto autonoma (35 minuti di tempo), un estratto da tre noti lavori di Mozart che, a suo avviso, ben si adattavano a questi due vini: Il Flauto Magico, magnificamente eseguito dai Berliner Philharmoniker (oggi Berliner Philharmonisches Orchester) sotto la direzione del grande Karl Böhm; un movimento dell’ultimo concerto per piano e orchestra n.27 in si bemolle maggiore K.595, e una serenata di cui purtroppo non ricordo il numero. Con me ha sfondato una porta aperta, visto il mio grande amore per musica e vino!

InvecchiatIGP: Argiano – Brunello di Montalcino 1979


Argiano, il cui nome si pensa possa essere origine romana evocando il dio Giano (Ara Jani), fa parte senza dubbio della storia più profonda e tradizionale di Montalcino tanto che la sua tenuta risale al 1580 quando i Tolomei iniziano a costruire sia villa Bell’Aria sia la cantina. Nel corso dei secoli la Tenuta passò di proprietà fra varie famiglie nobiliari fino ad arrivare al 1992 quando passo sotto la proprietà della contessa Noemi Marone Cinzano che introduce importanti innovazioni nella gestione dell’azienda vinicola e alla quale si deve il rilancio del nome Argiano dando impulso, con l’aiuto del grande Tachis, alla nascita del Solengo, il grande Super Tuscan di Montalcino. Si arriva così ai giorni nostri, col passaggio di proprietà nel 2013 e la guida dell’azienda nelle mani di Bernardino Sani, che dal 2015 ne firma anche i vini e che, dal 2019, ha fatto sì che l’azienda sia la prima a Montalcino ad aver bandito tutte le plastiche monouso oltre che praticare un’agricoltura organica e rigenerativa.


Attualmente l'estensione totale dei vigneti è 57ha, ripartiti su vari disciplinari, varietà e cloni. Il vitigno preponderante è, ovviamente, il Sangiovese, che occupa circa 40ha, ma troviamo anche piante di Merlot, Cabernet Sauvignon e Petit Verdot utili per la produzione del Solengo.

Tenuta Argiano

In occasione del Paestum Wine Fest ho avuto l’occasione, grazie ad una verticale storica, di degustare l’annata 1979 del Brunello di Montalcino di Tenuta Argiano che, lo anticipo, è stato un viaggio a ritroso nel tempo emozionante anche perché l’annata riporta ad un periodo storico dove il territorio non aveva ancora avuto il successo straordinario che oggi tutti riconosciamo a Montalcino e al suo Sangiovese. 


Il colore si presenta vitale e luminoso con questo manto granato estremamente affascinante che anticipa un naso affatto stanco nonostante la sua evoluzione aromatica dove si percepisce la frutta rossa disidratata, rabarbaro, infusi di erbe aromatiche per poi aprirsi verso echi di cera, incenso, tabacco, polvere di cacao e noce moscata. Bocca ancora in perfetta forma, signorile e di gran classe, il tannino è perfettamente fuso nel corpo del vino che rimane dinamico e dotato di progressione sapida. Chiude, lunghissimo, su sensazioni speziate e balsamiche.


Concludendo, il Brunello di Montalcino 1979 di Argiano è una foto emblematica dell’essenza di Montalcino, un territorio capace di dare origine a questi gioielli che possono riscoperti nel corso del tempo in maniera davvero esaltante.

L’Erm – Erbaluce di Caluso DOGG “Jyothi” 2021

La nouvelle vague dell’Erbaluce di Caluso, in passato così bistrattato, passa anche per Borgomasino, nel Canavese, dove Jyothi Aimino, piemontese di origini indiane, coltiva tre ettari suddivisi tra nebbiolo ed erbaluce. 


Questo vino è essenza del territorio ma è al tempo stesso spensierato. Brava Jyothi!

Cantina Terlano e quella gemma preziosa chiamata Terlaner Primo I Grande Cuvée


Nella mia intensa attività di degustatore ho compreso che ci sono territori naturalmente vocati per la produzione di uve a bacca bianca e, al contempo, ci sono aziende vitivinicole che, per questione di opportunità e, ovviamente, di cuore, non fanno altro che dare libero sfogo alla loro “anima bianchista” producendo grandi vini che sfidano il tempo e le mode. Questo binomio perfetto, in Italia, trova la perfetta collocazione in Alto Adige, tra Merano e Bolzano, con la Cantina Terlano.


Fondata nel 1893, questa cooperativa sociale conta oggi 143 soci che coltivano un totale di circa 190 ettari. Posizionata all’interno di un cratere vulcanico millenario, i suoi vigneti sono piantati all’interno di un suolo costituito prevalentemente da porfido quarzifero ricco di minerali che insieme alle particolari condizioni micro e macroclimatiche regalano una straordinaria longevità ai vini tanto che il loro archivio enologico, che conta oltre 100.000 bottiglie, è uno scrigno ricolmo di rarità dove si possono trovare varie annate dal 1955 ad oggi (in realtà ci sono anche bottiglie che risalgono a fine ‘800).


La gamma di produzione Terlan include i vini della linea Tradition, i vini della linea Selection e il grand vin Terlaner I Grande Cuvée. Ogni anno la cantina esce anche con il Rarity “Metodo Stocker”, un vino che dopo tanti anni di maturazione sui lieviti fini fa emozionare i suoi appassionati.

Gasser e Kofler

Grazie alla presenza di Klaus Gasser, direttore vendite e marketing, e Rudi Kofler, responsabile tecnico, poco tempo fa ho avuto la fortuna di partecipare a Roma alla presentazione dell’ultima annata del Terlaner I Grande Cuvée che, secondo l’azienda, è la più alta espressione dei tre vitigni identitari di Terlano: Pinot Bianco, Chardonnay e Sauvignon Blanc.


Nato nel 2011 rappresenta pienamente la filosofia dell’azienda ed è oggi il bianco più prezioso della collezione perché, come eccellenza, viene prodotto solo nelle annate migliori, solo quando tutti i fattori climatici sono talmente favorevoli e ben combinati tra loro da far risaltare in pieno il Terroir di provenienza che viene esaltato dalla combinazione di questi tre grandi vitigni in grado di far emergere l’essenza di una tradizione ultracentenaria, svelare il cuore più nobile dell’uvaggio storico.
Rudi Kofler, spiega, infatti, come “il Pinot Bianco, presente per il 60-70% a seconda dell’annata e della qualità, detenga la quota maggiore tra i tre vitigni e rappresenti la spina dorsale della cuvée, garantendo freschezza, una elegante tessitura e una buona struttura acida. Lo Chardonnay copre, invece, il 20/30%, regalando consistenza e morbida profondità. Il Sauvignon Blanc, la cui quota oscilla solitamente tra il 2 e il 5%, è il partner che completa l’uvaggio con le sue raffinate caratteristiche aromatiche.”


Per comprendere al meglio come si è arrivati all’ultima annata prodotta, la 2020, Rudi e Klaus ci hanno permesso di comprendere le potenzialità evolutive del Terlaner I Grande Cuvée grazie ad una piccola verticale di questo vino presentato anche nelle annate 2016, 2018 e 2019.


La 2016 (75% Pinot Bianco, 23% Chardonnay e 2% Sauvignon) ci viene descritta dallo stesso Rudi come una annata non facilissima in Alto Adige, caratterizzata da un anticipo vegetativo seguito da una gelata primaverile, fortunatamente non troppo dannosa, e con precipitazioni ricorrenti e superiori alle medie stagionali durante l’estate che per fortuna è terminata con giornata calde e asciutte che hanno permesso una vendemmia ottimale. Il vino nel calice, se dovessi fare un paragone artistico, ha caratteri boteriani, ha sinuosità ed abbondanza di “ciccia”, leggermente tostate, smussate da tocchi di fiori di acacia, gelsomino e lieve mineralità gessosa. Al palato mostra tutta la sua classe e la sua morbida struttura. Pieno, bilanciato e fresco, dal lunghissimo finale di frutta matura. Un vino che ha un suo stile, che piaccia o meno.


La 2018 (65% Pinot Bianco, 32% Chardonnay e 3% Sauvignon) è stata abbastanza estrema dal punto di vista meteo perché ad un inverno freddo e piovoso si è alternata una stagione estiva dal clima torrido ed interrotta da ingenti piogge ad inizio settembre. Rispetto alla precedente annata, il vino sembra decisamente diverso, come se a Terlano avessero deciso di cambiare filosofia di produzione abbandonando certe grassezze del vino che ora nel calice si compone di richiami aromatici che spaziano tra l’agrume mediterraneo al salgemma fino ad arrivare a sensazioni di gelsomino e pietra focaia. Palato teso, intenso, di rigorosa linearità che sfocia in un finale sapidissimo.

Il Terlaner I Grande Cuvée 2019 (70% Pinot Bianco, 28% Chardonnay e 2% Sauvignon) figlio di una annata inizialmente fredda tanto da ritardare la fioritura che è terminata solo a fine maggio. Subito dopo le temperature si sono fatte torride, a ridosso dei 40 gradi, fino ad agosto dove temporali frequenti hanno sì portato refrigerio ma, al tempo stesso, anche danni nella conca di Bolzano e Gries. La vendemmia è cominciata con tempo ottimale nelle prime settimane di settembre, quindi un po’ in ritardo rispetto alle ultime annate. L’analisi organolettica del vino ci mostra che la strada tracciata con la 2018 continua ad essere percorsa per cui nel calice ritroviamo un vino agile, dalla sostenuta verticalità e dalla rigida aristocraticità. Aromaticamente è ricco di richiami ai fiori bianchi, alle erbe di montagna, al salgemma, il tutto impreziosito da un tracciante agrumato di bergamotto. Al sorso è tutta tensione e progressione, con un finale inarrestabile quasi iodato.


L’annata 2020 di Terlaner I Grande Cuvée, descritta di persona da Kofler durante la presentazione stampa, è figlia di una stagione estremamente complicata che, soprattutto a causa di un mese di giugno freddo e piovoso, ha messo a dura prova i nervi dei vignaioli che, con buona dose di pazienza e sapienza contadina, alla fine sono riusciti a ottenere dei risultati di tutto rispetto. Ancora giovanissimo nel calice, il Terlaner I Grande Cuvée ci ha fatto sobbalzare dalla sedia per la sua grande luminosità associata ad un’ottima dose di energia dove un naso nordico e mediterraneo al tempo stesso anticipa un sorso penetrante e già molto espressivo in termini equilibrio. Chiude con una leggera nota fumè. Da conservare ancora per anni ma buonissimo anche ora!

Edoardo Ventimiglia: "Vi racconto il Ciliegiolo di Maremma e d'Italia!"


Domenica 7 e lunedì 8 maggio la Fortezza Orsini di Sorano, in provincia di Grosseto, ospiterà la manifestazione "Ciliegiolo di Maremma e d’Italia" all'interno della quale stampa e operatori del settore avranno la possibilità di degustare i vini delle aziende produttrici di questo speciale vitigno che, in questa due giorni, saranno a disposizione alla mescita presso banchi d’assaggio.  
Per comprende al meglio la filosofia della manifestazione e, perchè no, per scoprire ulteriormente i segreti di questo vitigno, ho intervistato Edoardo Ventimiglia, proprietario assieme alla moglie Carla Benini dell'azienda Sassotondo, che già in tempi non sospetti aveva capito le potenzialità del ciliegiolo creando con questa uva un vero e proprio "Cru" aziendale ovvero il San Lorenzo

Edoardo e Carla

Ciao Edoardo, il 7 e 8 maggio arriva la manifestazione "Ciliegiolo di Maremma e d'Italia", un evento dedicato interamente al vitigno autoctono. Ci racconti come è nata l’esigenza di organizzare una manifestazione di questo tipo?

Buongiorno Andrea. La coltivazione del ciliegiolo in Maremma ha subito un forte incremento negli ultimi anni, inoltre, e inaspettatamente per alcuni, è stato molto apprezzato in una degustazione di Monica Larner lo scorso giugno a Grosseto e questo ha sciolto le riserve che fino ad ora avevano impedito la realizzazione di questo evento. Credo che nel ciliegiolo la denominazione Maremma toscana possa trovare un alfiere in grado di farla competere ai massimi livelli nel palcoscenico mondiale. Quindi da una idea di Ciliegiolo Academy, che mi onoro di presiedere, e della Fisar delegazione colline maremmane coordinata e diretta dal consorzio di tutela vini della Maremma toscana è nato quello può essere considerato il numero zero di questo evento maremmano, in piena continuazione con Ciliegiolo d’Italia di Narni, una ripartenza dopo lo stop dovuto al covid.


Nel comunicato stampa di presentazione c’è scritto che è la prima edizione ma di eventi sul ciliegiolo sono stati fatti anche negli anni passati a Narni dove veniva organizzato Ciliegiolo d’Italia. Ci sono differenze tra le due kermesse?

È un errore, mi scuso a nome di tutti. Come detto prima, Ciliegiolo di Maremma e d’Italia nasce come continuazione di Ciliegiolo d’Italia a Narni, nato nel 2015 per la volontà e l’impegno di Leonardo Bussoletti produttore e animatore dell’associazione produttori ciliegiolo di Narni. Allora ci accordammo per alternare un’edizione in Umbria a Narni e una in Maremma a Sorano o Pitigliano. Narni è andata avanti per varie edizioni e si è fermata a causa del covid. In Maremma non si è mai riusciti ad organizzarla fino a che oggi, nel 2023, i tempi sono maturati. Di fatto la Maremma e Narni sono le due aree viticole che più contano produzioni e produttori impegnati con questo vitigno. Il format tra le due manifestazioni è simile con la differenza che abbiamo pensato ad una edizione rivolta soprattutto alla stampa di settore e al commercio senza i banchi di assaggio gestiti dai produttori.

Il Ciliegiolo è stato recentemente riscoperto anche grazie ad aziende come la tua che ha puntato in tempi non sospetto su questo vitigno. Ci racconti le sue caratteristiche, sia in vigna che in cantina, e perché, in passato, non era così valorizzato?

La riscoperta del ciliegiolo la dobbiamo prima di tutto ad un enologo, Attilio Pagli che alla fine degli anni 80 lo vinificò in purezza nell’azienda Rascioni e Cecconello a Fonteblanda nella Maremma costiera e con il vino Poggio Ciliegio lo portò all’attenzione della stampa nazionale. Noi abbiamo conosciuto Attilio nel 1996 e dal 1997 abbiamo iniziato a collaborare con lui e a puntare sul ciliegiolo come progetto principale della nostra azienda abbandonando l’idea in voga in quegli anni di piantare vitigni internazionali.


In vigna il ciliegiolo è molto generoso e va tenuto in equilibrio per evitare produzioni eccessive. I terreni poveri come i nostri, tufo vulcanico, e il regime di agricoltura biologica facilitano il compito. Il ciliegiolo non teme il caldo e resiste alla siccità meglio del sangiovese. Non ama le piogge eccessive perché l’acino tende a gonfiarsi troppo. Matura una settimana o due prima del sangiovese ma con il cambiamento climatico le differenze tendono ad attenuarsi. In cantina ha un comportamento simile al sangiovese, fino a qualche anno fa tendeva a ridursi quindi necessitava di frequenti travasi nei primi mesi di affinamento. Anche qui probabilmente a causa del cambiamento climatico la tendenza alla riduzione si è attenuata, per questo motivo dal 2009, per i cru, abbiamo sostituto l’affinamento in barrique con quello in legni più grandi (10Hl).
Quando siamo arrivati qui, una parte rilevante dei vecchi vigneti di rosso era costituita da ciliegiolo, conosciuto, con vari nomi saragiolo, dolciume ed anche erroneamente montepulciano, ma soprattutto in Toscana è stato abbandonato come tanti vitigni minori che rappresentano il grande patrimonio di biodiversità del nostro paese. Le ragioni sono varie e possono risalire alla seconda metà dell’Ottocento con i numerosi e spesso fallimentari tentativi dei vini toscani di competere con i francesi sui mercati internazionali. I fallimenti furono attribuiti ai vitigni locali e non alle tecniche di coltivazione e vinificazione. Più avanti si provò, con successo, la strada dell’imitazione. Nacquero i supertuscans e il vino italiano, tutto, prese il volo. Ora il mercato cerca profumi e sapori nuovi con una maggiore aderenza ai territori di provenienza. Il ciliegiolo è un vitigno plastico capace di adattarsi ed esaltare le caratteristiche del terroir in cui viene coltivato e vinificato.

Il Ciliegiolo Viene coltivato in Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Liguria e, in modo minoritario, in altre zone d’Italia. Ci sono differenze legate ai differenti cloni o, per questa uva, possiamo parlare di caratteristiche comuni?

Prima di tutto direi che parlare di Toscana o anche di Maremma è un po' troppo generico. In altre regioni, come ad esempio l’Umbria, il ciliegiolo si concentra in un’area molto più ristretta, la zona di Narni e dei Colli Amerini.
La Maremma grossetana invece è un’area vastissima, in termini enologici un mondo. Si può dividere grosso modo in 4 macroaree: l’area costiera e collinare, le colline metallifere, l’area amiatina e infine l’area del tufo vulcanico, dove siamo noi. Nell’area del tufo vulcanico, a causa dell’origine esplosiva e dei depositi di rocce piroclastiche, i terreni sono molto ricchi di minerali quali magnesio e potassio. I vini sapidi, speziati si distinguono per eleganza e longevità. Le nostre viti provengono da una selezione massale della vigna di San Lorenzo piantata negli anni Sessanta. Inoltre, abbiamo qualche ecotipo proveniente dal Monte Amiata frutto di ricerca fatta dal compianto prof. Scalabrelli. In catalogo ho visto cloni di recente selezione, ma credo che le grosse differenze siano legate in particolar modo alle condizioni ambientali in cui cresce il ciliegiolo. Microclima e terreno ma anche la mano del vignaiolo in vigna e in cantina vuol dire parecchio. Sicuramente una caratteristica comune a tutti i ciliegioli si incontra nel profilo aromatico dove prevalgono “speziatura e fruttosità”.


Sassotondo, la tua aziemda, si trova a Sorano e, come detto in precedenza, te e tua moglie, in tempi non sospetti, avete puntato sul ciliegiolo creando un vero e proprio Cru come il San Lorenzo. Come ti è venuta l’intuizione?

L’intuizione non è venuta a noi bensì ad Attilio Pagli. Lui assaggiando il ciliegiolo del vigneto di san lorenzo nel 1997, nostra prima vendemmia da azienda autonoma, ci ha convinto a vinificarlo ed in imbottigliarlo in purezza senza fare il blend con le altre uve. Successivamente, nel 1998, dovevamo piantare circa 4 ettari di nuovi vigneti, allora il mantra erano i vitigni internazionali, incontrammo Attilio a Montalcino a febbraio in occasione di Benvenuto Brunello e nel parcheggio mentre ci mostrava le etichette del nuovo vino, Altos, che stava per produrre in Argentina ci disse “vi faccio una proposta che potrebbe sembrare oscena: perché di questi 4 ettari uno non lo piantiamo con il ciliegiolo e … invece di comprarlo in vivaio facciamo selezione massale dalla vigna di san lorenzo” E stato così che ci ha portato sulla “cattiva strada” del ciliegiolo. Ora gli ettari sono circa 7 in aumento perché stiamo reinnestando il merlot che avevamo piantato allora. È stata una scelta difficile e controcorrente che però si sta dimostrando vincente nel tempo.


La scelta del cru è venuta in modo naturale perché in tutti gli assaggi, anche da vasca, il ciliegiolo che viene dalla vigna San Lorenzo si sé sempre dimostrato il migliore che produciamo. Ma anche questa è stata una scelta anomala soprattutto in Toscana dove prevaleva la pratica del blend. Il San Lorenzo è stato prodotto e imbottigliato ininterrottamente dal 1997. Ora le menzioni geografiche e anche i cru stanno diventando un mainstream del mondo vitivinicolo italiano. Allora pochissime aziende vinificavano i cru… anche qui siamo stati un po' precursori. Da qualche anno abbiamo deciso di spingerci oltre e con la consulenza dell’agronomo Pedro Parra abbiamo fatto una microzonazione della nostra azienda che ha portato a definire alcune parcelle speciali da cui sono state vendemmiate le uve, sempre ciliegiolo 100%, per 2 vini il Poggio Pinzo e il Monte Calvo. Quest’ultimo in particolare è una parcella dentro la vigna di San Lorenzo, un cru al quadrato.

Sorano

Altra domanda: il ciliegiolo secondo la tua opinione può essere un vino attraente per il pubblico giovanile? E’ un vino “moderno”?

Penso di sì, l’eleganza e la piacevolezza di beva è nella sua natura. Il ciliegiolo buono nasce da una conduzione equilibrata della vigna e della cantina e le restituisce nel bicchiere, sia nei vini più giovani sia in quelli per il lungo invecchiamento. Come ha scritto il 25 agosto 2022 Monica Larner su wine advocate “I am perennially in search of W.I.R.W.T.D (wines I really want to drink) with the real foods I adore … Ciliegiolo fits the bill!” (sono sempre in cerca dei VINI CHE VORREI VERAMENTE BERE con i cibi veri che adoro. Ciliegiolo è quello giusto). Per questo è un vino moderno e mai banale!

Ultima domanda: come si abbina a tavola il Ciliegiolo?

Anche qui nella versatilità sta il grande pregio e la modernità di questo vino. Parlo dei miei che conosco meglio ma credo che queste considerazioni possano adattarsi a tutti i ciliegioli presenti sul mercato.
Il rosato ha corpo, struttura e grande sapidità si abbina a zuppe di pesce, formaggi caprini e carni bianche.
Il ciliegiolo classico d’annata, ma si può bere anche dopo 20 anni, ha note speziate che lo accostano sia alle carni di agnello che alla cucina etnica a base di spezie.
Il San Lorenzo invece vuole una cucina più invernale e ricca di salse, un peposo toscano, il cinghiale e in particolare l’antica ricetta dell’Artusi “in dolce forte” che prevede una salsa a base di cioccolato. Gli altri cru che si avvicinano anche i ciliegioli umbri, una cucina più delicata e raffinata con selvaggina di penna.
Alcuni ciliegioli rossi d’estate si possono abbinare freschi anche al pesce, in particolare le zuppe con il pomodoro come il cacciucco livornese.

InvecchiatIGP: Chateau Musar - Red 2011


di Lorenzo Colombo

Ci abbiamo pensato non poco prima di deciderci ad inserire questo vino nella rubrica settimanale InvecchiatIGP, infatti, anche se il vino ha ormai dodici anni d’età in realtà è in commercio unicamente da cinque, è infatti prassi consolidata di Gaston Hochar quella di immettere sul mercato il Chateau Musar Red sette anni dopo la vendemmia. Ma poi vista l’emozione che ci ha dato abbiamo deciso di procedere e trasferirla anche agli altri componenti dei Giovani Promettenti.


Il Chateau Musar Red è prodotto con un blend tra Cabernet sauvignon, Cinsault e Carignan in proporzioni variabili dipendentemente dall’annata.
I vigneti sono situati nei dintorni dei villaggi di Aana e Kefraya nella Valle della Bekaa, su suoli calcarei ghiaiosi, l’età media delle viti è di quarant’anni anche se ci sono ancora alcuni ceppi risalenti agli anni Trenta del Novecento, la resa è bassissima e varia tra i 15 ed i 35 ettolitri per ettaro.


La Valle della Bekaa si trova a circa 30 chilometri ad Est di Beirut e si estende tra Libano e Siria ha una lunghezza di circa 120 chilometri ed una larghezza media di 16, in realtà si tratta di un altipiano con un’altezza media di 1.000 metri delimitato ad Est e ad Ovest da due catene montuose che si spingono sin oltre i 3.000 metri d’altitudine; vanta un clima di tipo mediterraneo e precipitazioni piuttosto scarse, soprattutto al Nord.


Gaston Hochar iniziò a produrre vino nella Valle della Bekaa nel 1930, allora i confini del Libano non erano ancora stati definitivamente tracciati, di conseguenza per essere sicuro che la sua cantina rientrasse nel territorio libanese la costruì a Ghazir, ad oltre due ore e mezzo di distanza dai vigneti.


Questo ancor’oggi, anche a causa della situazione politica del luogo è fonte di svariati problemi durante le fasi della vendemmia per poter portare in sicurezza le uve in cantina. Serge, il figlio di Gaston, dopo aver studiato enologia a Bordeaux sotto la guida di Emile Peynaud, rilevò nel 1059 l’azienda dal padre e gli diede la propria impronta sviluppando l’attuale ricetta del Chateau Musar Red nel 1970 e facendo conosce i suoi vini in tutto il mondo (Serge è morto annegato in Messico nel 2014).
L’azienda ora è gestita dai figli di Serge: Gaston, che si occupa della cantina e Marc che ne cura l’aspetto commerciale, e dai suoi nipoti.

L’annata 2011

Frutto di un’annata difficile ed atipica, caratterizzata da un inverno freddo e da precipitazioni abbondanti nei mesi di aprile e maggio, condizioni che hanno causato una fioritura assai tardiva ed una maturazione delle uve ritardata.
La vendemmia è infatti iniziata il 22 settembre con la raccolta di parte del Carignan ma è poi stata interrotta a causa delle piogge che hanno creato problemi soprattutto per il Cinsault e si è quindi conclusa il 13 ottobre. La fermentazione separata delle uve s’effettua in vasche di cemento tramite lieviti indigeni, dopo sei mesi il vino viene posto in barriques di rovere francese di Nevers dove s’affina per un anno, due anni dopo la vendemmia viene effettuato il blend e quindi il vino viene rimesso in vasche di cemento prima di essere imbottigliato, l’imbottigliamento è stato effettato nel 2014 ed il vino è stato messo in commercio nel 2018.

Il vino

Color granato profondo, compatto e luminoso. Intenso al naso, ampio, complesso ed elegante, note surmature, prugna secca, ciliegia matura, quasi sotto spirito, balsamico, legno dolce, caffè e cioccolato, speziato, pepe, vaniglia, cardamomo, leggeri accenni selvatici.


Dotato di buona struttura, succoso, presenta note piccanti che rimandano al pepe, vi ritroviamo la ciliegia sottospirito, il cioccolato ed il caffè, buona la sua vena acida, tannini morbidi e ben integrati, note di vaniglia, leggeri accenni selvatici ne snelliscono la beva, lunga la sua persistenza.

Monsupello - VSQ Spumante Brut Metodo Classico Cuvée "Ca’ Del Tava"



di Lorenzo Colombo

Non si fregia della Docg questo Metodo Classico, non raggiungendo la percentuale minima di Pinot nero (70%) ma rimane comunque una delle massime espressioni spumantistiche oltrepadane.


Gli oltre 70 mesi sui lieviti ci donano un vino dotato d’eleganza, finezza, sapidità, spiccata vena acida, persistenza.

Serafini & Vidotto e “Il Rosso dell’Abazia” alla prova del tempo


di Lorenzo Colombo

Tra le numerose Masteclass alle quali abbiamo partecipato in occasione del Paestum Wine Fest una delle più interessanti è stata quella dedicata ad una verticale di sei annate del Rosso dell’Abazia, pluripremiato vino prodotto dall’azienda Serafini & VidottoL’azienda, fondata nel 1986 da Francesco Serafini e Antonello Vidotto si trova a Nervesa della Battaglia, nella parte più orientale del territorio della Doc Montello-Colli Asolani dove dispone di 25 ettari a vigneto per una produzione annuale di circa 200.000 bottiglie.

La Doc Montello - Colli Asolani

La zona di produzione comprende, in provincia di Treviso, la fascia pedemontana della destra Piave, che dal Montello arriva alle pendici del Grappa.
Si tratta di due distinte fasce collinari che vanno da est ad ovest, inframmezzate da una striscia di pianura, l’altitudine varia dai 100 ai 350 metri slm ed i suoli sono in genere marnosi-argillosi e marnosi-sabbiosi.
La zona era conosciuta soprattutto per i suoi boschi, dai quali si ricavava il legname, da sempre utilizzato per la costruzione delle fondamenta delle case di Venezia.


Il vino

Il Montello Colli Asolani Doc “Rosso dell’Abazia” è stato il primo vino prodotto da Francesco Serafini e Antonello Vidotto, oltre 35 anni fa, si tratta di classico taglio bordolese composta da un blend tra Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot le cui proporzioni cambiano leggermente in base all’annata anche se solitamente la percentuale maggiore è riservata al Cabernet sauvignon e, negli ultimi anni sia cresciuto l’apporto di Cabernet franc. I vigneti sono situati a Nervesa della Battaglia ai piedi del Montello, sono situati tra i 100 ed i 150 metri d’altitudine su suoli drenanti e sono condotti a Guyot con densità d’impianto di 6.000-6.300 ceppi/ettaro. La vendemmia s’effettua verso la fine di settembre per quanto riguarda il Merlot e ad ottobre inoltrato per i Cabernet.
La fermentazione s’effettua in vasche d’acciaio e in botti di rovere mentre l’affinamento dei vini in barriques varia dai 15 ai 24 mesi in base al vitigno e all’annata, il vino comunque non viene commercializzato prima dei quattro anni dalla vendemmia.

La verticale

Sono due le cose che maggiormente ci hanno colpito di questa verticale, la prima è data dalla grande uniformità dei vini assaggiati, si sente che sono fatti dalla stessa mano e non hanno le variabili che spesso si ritrovano in degustazioni simili, con questo non vogliamo dire che non si sentono le diverse annate e le diverse percentuali dei vitigni, ma che lo stile produttivo, ormai consolidato da oltre 35 anni di produzione è ormai ben definito ed il vino risulta sempre riconoscibile. La seconda cosa che ci ha un poco sorpresi è che nelle nostre valutazioni lo scostamento tra un vino e l’altro è stato inferiore ai 2/100, altro segno dell’elevata qualità raggiunta da questo vino indipendentemente dall’annata.

2018 

Color rubino luminoso di discreta intensità. Intenso al naso, bel frutto, note balsamiche ed affumicate, leggeri e piacevoli accenni vegetali che rimandano al peperone, buona l’eleganza. Dotato di buona struttura, fresco e succoso, sentori affumicati e leggere note piccanti, con bella trama tannica e buona persistenza. Un vino diverso da tutti gli altri che seguono, in parte per la sua gioventù, ma soprattutto per la maggior presenza di Cabernet franc. Affinamento per due anni in barrique. 40% Cabernet sauvignon, 40% Cabernet franc e 20% Merlot.


2015 

Granato luminoso di buona profondità.
Intenso al naso, un poco più chiuso rispetto al precedente vino, balsamico, note affumicate, buona la complessità. Intenso e strutturato, asciutto, note piccanti, pepato, buona la trama tannica, lunga la sua persistenza su sentori di radice di liquirizia e di pellicina di castagne. Affinamento per due anni in barrique. 40% Cabernet sauvignon, 40% Cabernet franc e 20% Merlot.


2012

Profondo e compatto il colore. Mediamente intenso al naso, frutta rossa matura, prugna, note balsamiche, accenni di legno, leggere note evolutive. Strutturato, intendo, piccante, pepato, con buona trama tannica e lunghissima persistenza su sentori di radice di liquirizia. 


2011

Color granato profondo. Intenso al naso, note balsamiche e vanigliate, legno dolce, buona sia la complessità che l’eleganza. Strutturato, succoso, bel frutto, asciutto, note piccanti, bella trama tannica, lunga la persistenza su sentori di radice di liquirizia. Affinamento per due anni in barrique. 45% Cabernet sauvignon, 30% Merlot e 20% Cabernet franc.


2008

Granato profondo e compatto. Discretamente intenso al naso, balsamico, vanigliato, presenta leggere e piacevoli note affumicate. Succoso, con bella trama tannica, note di pepe, radici, bastoncino di liquirizia, lunga la sua persistenza. 50% Cabernet sauvignon, 30% Cabernet franc e 15% Merlot.


2005

Color granato di discreta profondità. Mediamente intenso al naso, note balsamiche e vanigliate, legno dolce, frutta rossa leggermente macerata, buona l’eleganza. Note piccanti, pepate, tannino ancora vivo, sentori di bastoncino di liquirizia, buona la sua persistenza.

InvecchiatIGP - Apollonio: Salice Salentino Bianco "Mani del Sud" 2013


di Stefano Tesi

Le certezze stavolta erano tre.

La prima è che questa bottiglia stava nella mia cantina certamente dal 2014, ma di preciso non riesco a rammentare al ritorno da quale viaggio in Puglia ci sia finita. La seconda è che, comunque, l’azienda (gloriosa: nacque nel 1870) me la fece conoscere l’amica Vittoria Cisonno ai tempi del leggendario Pellegrinaggio Artusiano di quel medesimo anno, sulle orme dei cavalieri della disfida di Barletta. La terza è che, al solito, essa giaceva dove non avrebbe dovuto stare, ossia in una cassa con miscellanea di Brunelli. Ed è per questo che fino a due giorni fa era ancora intonsa.

Infatti ieri l’ho trovata, messa in fresco e stappata.


Tappo del tutto integro, ma non sapevo che aspettarmi. Temevo, a dire il vero, un vinone un po’ appannato. Dalla controetichetta apprendo che il vino viene da uve all’80% Chardonnay e al 20% Sauvignon blanc coltivate sui terreni argilloso-calcarei del Salento. E che prima di finire in vetro si è fatto tre mesi di barrique. Il grado alcolico è rassicurante: 13°. “Vino non filtrato”, dice sempre la controetichetta, “decantazione raccomandata”.

Io in realtà l’ho fatto solo attendere un po’ nel bicchiere, ma nemmeno troppo perché la curiosità era tanta, la sete pure e la voglia di metterlo alla prova in una cena di mezza stagione, con dei gustosi e profumati spiedini di carne bianca molto speziati, anche di più.

Nel calice si è rivelato di un oro intenso, molto carico, quasi vitreo.

Al naso i sentori si sono srotolati invece lentamente, uno dietro l’altro, come le tinte di un tappeto rimasto a lungo dimenticato e di cui non rammentavi bene tutti i colori: l’attacco è quello della classica pietra focaia, dell’olio minerale, dell’acciarino e di certi robot-giocattolo metallici co le rotelle sotto, caricati a molla, che roteavano gli occhi e sputavano odorose scintille, alimentando la fantasia (e la futura memoria olfattiva) della nostra infanzia. Poi, col passare dei secondi, affiorano anche la polpa bagnata delle pesche mature e alcune note esotico-tropicali che fanno progressivamente capolino, senza tuttavia prevalere sul resto.


In bocca, anche dopo dieci anni, la struttura del vino si mostra il tutto il suo vigore, ma l’insieme è elegante, pacato, di un’ampiezza composta che si fa apprezzare. L’affianca una piacevole nota amarognola che accompagna a lungo il sorso aiutandolo a restare bello dritto, quasi impettito, preciso e tagliente come potrebbe essere il fisico di un tipo di mezza età, ormai saggio ma ancora aitante e nel pieno delle forze. Un connotato che non abbandona il vino nemmeno quando la temperatura sale un po’.


Succede così che, a questo desco familiare di una primavera che non si decide a diventare tale, in breve tempo se ne vanno due bicchieri e parecchi spiedini. Poi la bottiglia finisce e gli spiedini pure. Faccio scolare nel bicchiere le ultime gocce e mi ricordo dell’avviso in etichetta giusto per notare che, sedimenti, zero.

Diego Bosoni - Padre Figlio vino bianco


di Stefano Tesi

Sono uscito praticamente tramortito dall’assaggio di questo vino “one shot” di Diego Bosoni: una sintesi enoica, agronomica e stilistica di tempi e generazioni diverse, come dice il nome. 


Vermentino 100% con ampiezza, profondità, screziatura, succosità di un puledro scalpitante, domato ma non troppo.

"La Biodiversità Viticola, i custodi , i vitigni, i vini” è il nuovo libro di G.R.A.S.P.O. presentato al Vinitaly 2023


di Stefano Tesi

Nel mondo del vino tutti sanno chi è il sulfureo Aldo Lorenzoni, ex direttore di lungo corso del Consorzio del Soave, da qualche anno a riposo. A riposo per modo dire, però. Perché, conoscendolo, l’espressione “a riposo” gli si attaglia assai poco.



Ero infatti a conoscenza da tempo che più di qualcosa bolliva in pentola. Ma non immaginavo che fosse delle dimensioni che ho scoperto all’ultimo Vinitaly, quando mi è stato messo in mano il librone (grande formato, a colori, oltre 300 pagine) di cui vedete la copertina.

I fondatori di G.R.A.S.P.O.

E se già il titolo è tutto un programma, ancora di più lo è il nome dell’editore. Ossia G.R.A.S.P.O., acronimo del chilometrico “Gruppo di Ricerca Ampelografica per la Salvaguardia e la Preservazione dell’Originalità e della biOdiversità (sic!) Vinicola”. “E’ l’associazione del Terzo Settore, quindi senza finalità di lucro e con attività di riconosciuto interesse generale, formalizzata lo scorso marzo, che riunisce il gruppo di lavoro nato nel 2020 dall’idea di tre enologi (Aldo Lorenzoni, Luigino Bertolazzi e Giuseppe Carcerieri, ndr)”, spiega lui. “I quali, convinti dell’importanza che anche nel settore vitivinicolo la conservazione della biodiversità costituisca una risorsa importante non solo in chiave scientifico-culturale, ma anche in prospettiva commerciale, si sono messi a girare a spese loro l’Italia per trovare antichi vitigni abbandonati. Lo scopo iniziale era individuarli e ripropagarli. Ma ci siamo subito accorti che la loro sopravvivenza era legata al filo doppio a chi, spesso in tale solitudine, quella sopravvivenza l’aveva garantita per generazioni e ancora la garantiva: ovvero tanti viticoltori appassionati e lungimiranti. Ognuno con una sua storia, un proprio merito e una propria visione delle cose, che meritavano di essere raccontati. Li abbiamo nominati “custodi”. E quando si è trattato di raccogliere nel libro i risultati del nostro lungo peregrinare, ci è parso indispensabile inserire in primo piano anche loro”.


Ecco, allora: in estrema sintesi il volume in parola è il racconto, suddiviso per capitoli e dettagliate schede storiche, descrittive e ampelografiche, di quest’avventura durata (finora, perché il viaggio continua) la bellezza di 50mila km al volante dalle Alpi alla Sicilia, 150 incontri coi produttori, 250 prelievi di materiale vegetale, 150 analisi del Dna per stabilire l’identità dei campioni, la scoperta di 10 nuove varietà di uva e 62 microvinificazioni. Alcune delle quali, che quelli di Graspo hanno battezzato “i vitigni del cuore”, assaggiate anche dal sottoscritto alla fiera veronese. “Di certe varietà – sottolinea Bertolazzi – abbiamo individuato una sola pianta. Si tratta quindi di esemplari unici, da tutelare con la massima attenzione. E spesso solo noi, oltre ovviamente al loro custode, sappiamo dove si trovano”.

I casi interessanti sotto ogni punto di vista si sprecano.

A Sprea, in provincia di Verona, a 700 metri di altitudine e completamente abbandonato, è stato trovato un vigneto vecchio di un secolo e mezzo di Liseiret o Gouais Blanc, antichissima uva bianca, forse già coltivata all’epoca di Marco Aurelio, progenitrice di almeno un’ottantina di varietà moderne (compreso lo Chardonnay e il Gamay). “Era tra le più diffuse nella viticoltura medievale dell’Europa Centrale”, scrive nella scheda l’ampelografa del Cnr Anna Schneider, “ma oggi è assai rara”. Anche in Champagne, si viene a sapere, la stanno riscoprendo e studiando.

Gouais Blanc

In Alto Adige, nella zona di Magrè, è stato individuato invece forse l’unico produttore al mondo di Hortroete, alias Roeter Hoerling, vitigno rosso sul quale si sa pochissimo. Si tratta di una vite monumentale (e tale dichiarata dalla Provincia di Bolzano), “a muro”, piantata addirittura nel 1601, di cui però solo il ceppo originale produce uva, mentre le due viti vicine, da esso derivate, non fruttificano affatto. Il suo custode, Robert Cassar, l’ha vinificata l’ultima volta nel 1989, ottenendo un vino che, dicono i pochi fortunati che l’hanno assaggiato dopo oltre trent’anni, è risultato “assolutamente sorprendente”. Ora è toccato a Graspo ripetere l’esperimento e, ovviamente, le aspettative sono notevoli.

La bellissima vigna di Roeter Hoerling

Ma se il volume è un’autentica miniera di informazioni, supportate tra l’altro da un non indifferente e dettagliatissimo apparato iconografico (lodevole ad esempio l’idea di riportare per ogni scheda la foto del grappolo a tutta pagina e a dimensioni reali, affiancato da una scala in cm in modo da poter cogliere le affettive proporzioni), piace anche l’approccio “umile e attento”, come lo definisce Lorenzoni, alla materia. “Conservare la biodiversità – scrive del resto il professor Attilio Scienza nell’introduzione – non significa mantenere le varietà di vite in una collezione, ex situ, dove raccogliere come in un museo i genotipi a rischio di scomparsa ma, per le profonde connessioni tra vitigno antico e cultura del luogo che lo ha selezionato e coltivato fino ad ora, queste varietà devono tornare ad essere protagoniste dello sviluppo agricolo ed economico di quelle popolazioni”.

Insomma, sempre per dirla con scienza, sì ai vitigni-reliquia, purchè non si limitino a restare una curiosità biologica. Sul punto, del resto, Graspo non ha dubbi: ci interessano solo vitigni che diano uve vinificabili.

Il libro può essere richiesto scrivendo a luigino@graspo.wine e costa 25 euro, spedizione compresa.