Al Nuovo Arrosto Girato, a Pontassieve, c'è la rosticceria che tutti vorrebbero sotto casa!

di Stefano Tesi


Sarà anche una questione anagrafica, ma adoro quei posti – nel senso di bar, trattorie, ristoranti – rimasti come negli anni ’70 o quasi. Quei posti di periferia o di provincia che, anche quando ebbero la velleità di rimodernare la vetusta osteria fondata dal nonno, rinacquero comunque demodè, perché ispirati a stili “moderni” già un po’ al tramonto. E lo hanno mantenuto in certe tinte improbabili, in certe ceramiche da film poliziottesco, in tendaggi dilavati da miliardi di raggi solari. Naturalmente, in questi locali, l’atmosfera è una cosa e la qualità del cibo un’altra. Di solito si va per estremi, in stretta connessione con l’estetica: o la gente è così soddisfatta da non badare all’apparenza o la cucina è così mediocre che nessun abbellimento potrebbe risollevare l’umore degli avventori.

 


Il “Nuovo Arrosto Girato” delle Sieci, popolare frazione sulla via Aretina, lungo l’Arno tra Firenze e Pontassieve, appartiene alla prima categoria: classica rosticceria da asporto con tavoli al piano superiore (e un assai piacevole quanto fresco dehor sulla piazzetta del paese, almeno finchè le norme anticovid lo consentiranno), atmosfera assolutamente informale, clientela tutta locale o quasi, modi sbrigativi che oscillano tra una giovialità contagiosa e una scontrosità rumorosa (guai ad esempio a non rispettare gli orari o a fare richieste gastronomicamente “strane”: la risposta sarà brusca). 



Le specialità, ovvio, quelle “indispensabili” di una rosticceria toscana, coi suoi alti e bassi: crostini, primi al sugo, carne alla griglia e allo spiedo, rosticciana. Ottima new entry, frutto delle “innovazioni” apportate dalla nuova gestione, i ravioli burro e salvia, una piacevole sorpresa. 



Ma sono almeno due le ragioni profonde per venire qui apposta: i ricchi, saporiti, opulenti, inconfondibili spiedini che escono dal coreografico megagirarrosto piazzato proprio all’ingresso e soprattutto il pollo alla piastra, senza timore di smentite il migliore che io abbia mai mangiato. Cottura perfetta, sapidità ricca, tenero ma consistente, giustamente profumato delle spezie con cui è lardellato. Un piatto da consumare voracemente per il suo retrogusto domestico, che non tradisce le aspettative ma addirittura le arricchisce di boccone in boccone. 



Non ho indagato sulla provenienza degli animali, sui segreti della preparazione o su altre amenità da critico: mi sono lasciato andare a una bella strafogata dell’irresistibile portata, riordinandola più volte e fregandomene pure del vino visto che (anche se siamo in zona Chianti Rufina), me lo sono pappato con un bianchetto senza pretese, frizzante e dissetante.  Conto: primo, doppio secondo e frizzantino a 25 euro. Non so se mi spiego.


Nuovo Arrosto Girato

Via Aretina 178,

Le Sieci, Pontassieve (FI)

Tel 055/ 8309138

Pommery - Champagne Cuvée Luise Brut Nature 2004



Non sono un fanatico del dosaggio zero, ma devo ammettere che questo classicone ti travolge per la incredibile freschezza sin dal primo naso, agrumato e balsamico. Una promessa mantenuta al palato, teso e dinamico. 65 e 35 Chardonnay e Pinot Noir, bevuto su una sfrontata cucina napoletana di mare è stato perfetto

Ferragosto con Cupano e il suo Brunello di Montalcino 2007

Pranzo di Ferragosto, di quelli seri e belli, in famiglia, lontano dalla spiaggia e immerso nella campagna cilentana ai piedi del monte Gelbison. Il capretto locale con le patate è d'obbligo, ma con cosa abbinarlo?



Gira e rigira tra le bottiglie, questa no, è troppo giovane, questa no perché è troppo fine, questa no perché estrema...ecco, questa magnum 2007 di Brunello di Montalcino di Cupano che giace da tempo ormai immemorabile nella vecchia cantina di casa potrebbe andare. Daje!


Ornella e Lionel - Foto: montalcino news


La storia di Cupano nasce negli anni '70 quando Lionel, allora direttore della fotografia di film francesi, e sua moglie  Ornella visitano le terre di Montalcino grazie alla presenza del loro amico pittore Yoran Cazac che li farà innamorare del territorio tanto che, nel 1996, circa venti anni più tardi, la coppia acquisterà la loro tenuta. La proprietà è di 34 ettari con un casale, all'epoca era ancora possibile fare questi acquisti, a 200 metri di altezza con sguardo sul fiume Ombrone in direzione mare. Ma non è solo la storia di Lionel e Ornella ad essere interessante: anche la filosofia di approccio alla produzione è stata pionieristica visto che i circa sette ettari di vigneto, già nel 1998, fanno riferimento alla filosofia biodinamica di François Bouchet In cantina, poi, fin dall'inizio si è fatto uso di lieviti non selezionati e delle barrique di media tostatura che mostrano immediata simpatia per il sangiovese allevato in queste specifiche condizioni pedoclimatiche su suolo argilloso e in parte ciottolato.


Foto: 67 Pall Mall


La 2007 è ufficialmente annata a cinque stelle per il Brunello di Montalcino. Pur non volendo dare un credito definitivo a questa classificazione (ma a quale altra se no?) sappiamo tutti che per gli enologi è stata una vendemmia di incorniciare, estate particolarmente calda, la più calda dopo la 2003 e prima della 2011, che ha portato a piena maturazione le uve. Caldi, ma anche le giuste piogge, con frutta sana in cantina quasi ovunque. Le annate calde non sono di per se una tragedia se si impara a difendere l'uva, anzi sono spesso un trampolino di lancio per chi ha saputo fare bene il lavoro in vigna come dimostrano ancora oggi tanti rossi (ma anche bianchi) del 2003.



In questo caso Cupano ci è apparso un vino connotato da due elementi immediati: la grande bevibilità e la perfetta integrazione tra il frutto e il legno. Al naso ancora note di ciliegia matura, ma anche di tabacco, rimandi balsamici e spezie dolci a contorno di un naso dominato dalla percezione gradevole fruttata. Al palato è morbido, i tannini sono presenti ma perfettamente risolti e levigati dal buon uso del legno e dallo scorrere del tempo. La frutta scorre su una rinfrancante sensazione di freschezza, il vino è tonico, non ha segni di cedimento e vanta un finale piacevole, lungo, pulito. 


Un difetto, se tale vogliamo considerarlo, è la presenza di un po' di residui, ma la vecchia regola di tenere la bottiglia vecchia in orizzontale dal giorno prima ha funzionato bene. Insomma, che dire, un vino di stampo tradizionale, senza colpi di scena olfattivi, ma vero, assolutamente efficace sul capretto al forno. 

Domaine Béatrice et Pascal Lambert - Chinon Les Puys 2015

di Carlo Macchi

Questo grande vino zittisce chi sostiene che il cabernet franc sia un vitigno “freddo”. Biodinamico nel midollo mette d’accordo sostenitori e detrattori. 



Ribes, cassis e mora misti a liquirizia e tabacco al naso: profondo, pieno con un tannino dolcissimo in bocca. Uno spettacolo di-vino!


Focus sul vini della Riviera di Ponente. La Liguria che non ti aspetti!

di Carlo Macchi

La Panda sembra un velocissimo serpentello che scivola tra muretti a secco, vigneti e pezzi di bosco, seguendo sentieri in discesa che fanno sembrare i caruggi liguri delle autostrade. Alla guida un rilassato (lui!) Bruno Pollero di Tenuta Maffone, ci presenta al volo i piccoli vigneti che compongono la proprietà come se fossero familiari a cui dover stringere la mano, pardon, il grappolo. Siamo a Acquetico, frazione di Pieve di Teco, in Alta Valle Arroscia, una delle mete del tour nella Riviera di Ponente, grazie a Vite in Riviera. 


Vite in Riviera è un associazione nata tra una trentina di produttori di vino (due solo di olio per la precisione) che sta cercando di togliere la fitta coltre nebbiosa di conoscenza che stagna sul Ponente Ligure enoico, in quel lungo tratto di costa a ridosso dei monti (o di monti a ridosso del mare, fate voi) che parte quasi da Genova e arriva fino all’oramai conosciutissima e apprezzata Dolceacqua. 
In effetti dal punto di vista della stampa enoica sembra che tra Genova e Dolceacqua sia crollato un gigantesco ponte Morandi e con esso la voglia di conoscere queste terre, che vedono piccoli e piccolissimi produttori lavorare diversi fazzoletti di terra spesso strappati al bosco. Bisogna anche dire che fino a 5-10 anni fa la situazione non era interessantissima, fossilizzata tra nomi storici e un modo di fare vino che serviva giusto per smerciarlo sulla costa durante l’estate. Poi, come mi ha detto una produttrice “Le cose sono cambiate grazie anche a dei giovani meno legati alle convenzioni e più aperti al confronto e alla conoscenza: hanno investito e oggi tira un’aria nuova.” 


Un’aria che, dal punto di vista viticolo punta su pigato e vermentino tra i bianchi e granaccia, rossese e ormeasco tra i rossi. Il nostro tour mi ha visto, assieme a Gianpaolo Giacomelli e Fosca Tortotrelli, impegnato sia sul fronte della degustazione bendata (con quasi cinquanta vini in degustazione) che su quello delle visite in cantina. La degustazione bendata, i suoi risultati e i commenti troveranno spazio sulla nostra guida. In queste righe invece parlerò degli incontri e delle impressioni che ne ho tratto. 

Prima però vorrei fare un salto nel passato e ricordare che il grande Luigi Veronelli amava molto i vini di queste terre come (cit.) “la Granaccia di Quiliano, il Pigato di Albenga, il Rossese di Campochiesa, il Vermentino del Savonese e di Imperia.” 

Questo breve viaggio si svilupperà quindi tra questi vini (e non solo) per provare a ricongiungere il filo che si è spezzato tra il passato e il presente. 
E proprio dalla Granaccia che Lorenzo Turco produce a Quiliano iniziano il viaggio e le mie sensazioni. Lorenzo, nel ristorante annesso alla cantina propone prima la “base” 2018 e poi la selezione Cappuccini.La prima è un’esplosione di frutto e di piacevolezza, con un equilibrio al palato che tiene perfettamente conto della scarna presenza tannica, tipica del vitigno. Qui siamo di fronte a cloni di granaccia (chiamatela pure garnacha o grenache) spagnoli e lo si capisce (ci dicono) dal colore rubino molto tenue. I Cappuccini sono la selezione e, pur apprezzando il vino, lo trovo un po’ ingessato dal pur poco legno usato in affinamento. 
Questo dell’uso del legno e della voglia di fare il “grande vino” è uno dei punti deboli che ho riscontrato in diverse cantine (non solo nel Ponente Ligure, in verità!). In effetti sia che si parli di Granaccia che di Pigato o Vermentino quasi sempre le cantine, dalla Cooperativa Viticultori Ingauni, a Ortovero alle piccolissime realtà come la Vecchia Cantina a Albenga e A Maccia a Ranzo, in modo più o meno marcato puntano su un prodotto passato in legno che spesso porta solo a perdere le già lievi note varietali dei vitigni sostituendole con universali sentori più o meno vanigliati. Per fortuna si tratta sempre di poche bottiglie per azienda ma quella che va cambiata è l’idea che scambia il “grosso vino” per un grande vino, cioè che privilegia l’estrazione all’eleganza, all’equilibrio e alla freschezza. 


A proposito di equilibrio: a giustificare il viaggio sarebbe bastata la certezza che il pigato non è assolutamente più quel vitigno che produce vini da bersi nell’arco di un’estate, anzi. Il suo equilibrio lo raggiunge come minimo dopo 12 mesi, prova ne sia che tutti i Pigato 2018 degustati erano nettamente meglio dei fratelli 2019. 
Purtroppo il mercato richiede il vino giovane ma la strada di far maturare il Pigato “base” o magari una selezione di vigneto per almeno due-tre anni (non in legno!) è quella da intraprendere per far capire le possibilità di questo vitigno. 


Vitigno che si presta bene anche alla produzione di metodo classico, anche se la strada della spumantizzazione intrapresa, per esempio, dalla Vecchia Cantina, è sicuramente difficile e tortuosa per chi produce vini fermi. Stranamente si trasforma bene in bollicine metodo classico anche l’Ormeasco, come ho scoperto da Tenuta Maffone. Del resto delle uve che crescono in vigneti tra i 450 e i 650 metri d’altezza, circondate da boschi e dai contrafforti del Colle di Nava, non possono che avere le caratteristiche di acidità e pH adatte.  Ma, bollicine a parte, forse la sorpresa maggiore di questo viaggio è l’Ormeasco di Pornassio. In realtà si tratterebbe di Dolcetto ma lo ricorda alla lontana perché ha caratteristiche di finezza, freschezza e complessità completamente diverse. Me ne sono reso conto sia da Tenuta Maffone che da Cascina Nirasca grazie a vini che si declinano con una buona potenza e profondità gustativa attraverso gamme aromatiche più fini e meno intense rispetto al Dolcetto di Langa e dove il legno (quando c’è) riesce a dare il giusto tocco senza eccedere. 
Sul Vermentino sospendo il giudizio, anche perché mi sembra un vino “sopportato più che supportato” dai produttori, quello che comunque va prodotto perché c’è da sempre, ma purtroppo oramai quando si parla di Vermentino si pensa ad altre zone e il confronto con Gallura, Colli di Luni e altre zone viene vissuto in negativo. 

Viti ormeasco e pigato


Al contrario il Pigato è il vino che unisce il territorio, che lo fa marciare assieme e gli conferisce identità; un po’ come il Rossese a Dolceacqua che, oltre ad essere indiscutibilmente il vino top del territorio è riuscito a rendere praticamente invisibili i pur buonissimi Rossese di Albenga e Rossese di Campochiesa (Veronelli docet). 
Questi due vini rispetto ai Dolceacqua hanno una leggerezza aromatica solare, una piacevolezza disincantata alla beva, ma quasi non vengano presentati per “vergogna” di avere un prodotto “troppo” semplice e dal colore troppo scarico. Invece dovrebbero essere proprio questi vini rossi da bere freschi, assieme alla Granaccia, il modo per distinguersi: l’Alto Adige con le sue incredibili Schiava dovrebbe insegnare a tutti. 
Mentre Gianni, il mentore factotum che ci ha accompagnato a destra e a manca nel nostro bel peregrinare, ci portava verso la stazione di Albenga passando accanto a distese di basilico e di erbe aromatiche, mi è venuto da pensare a un profumo del giorno precedente, che mi aveva lasciato a bocca (e naso) aperta. Era un misto tra la macchia mediterranea scaldata dal sole e l’odore della terra, dei pini e degli abeti di montagna, il tutto ammantato da un silenzio che, avrebbe detto Paolo Conte, descriverti non saprei. 
Quel profumo, o meglio quei profumi, che ho ritrovato più nei rossi (eh sì, mi hanno proprio colpito) che nei bianchi della Riviera di Ponente li porto con me e vi consiglio di andare a cercarli in una terra enoica oramai “uscita dalla nebbia”.

Fonterenza - Pettirosso 2017


di Roberto Giuliani


Chi le conosce sa che le sorelle Padovani sono qualcosa a parte nell’emisfero di Montalcino, il Pettirosso ne rappresenta l’essenza, un sangiovese nato per essere goduto, ogni giorno, immediato e gustosissimo, con un frutto generoso e una bevibilità trascinante, da farne scorta senza esitazione.

Ca’ Ferri e il fascino dei Colli Eugani declinato in tre annate di Taurilio


di Roberto Giuliani

Come scrivevo giorni fa, il mondo del vino è affascinante anche perché spesso è frutto di scelte improvvise, di cambiamenti di percorso che testimoniano come chiunque possa essere colto da improvvisa passione, non importa se non ha esempi famigliari, né se fino a un attimo prima faceva tutt’altro lavoro.
È quello che è accaduto a Gian Paolo Prandstraller, dopo una vita da avvocato, invece di godersi la meritata pensione, una quindicina di anni fa decide di “osare” l’esperienza di produttore di vino.


Siamo nel Padovano, nel cuore dei Colli Euganei e Gian Paolo punta a due zone ben precise, una nell’area settentrionale nel comune di Torreglia e l’altra più a sud nel comune di Casalserugo.
Torreglia è situata ai piedi del Monte Rua, in un ambiente spettacolare nel cuore del Parco dei Colli Euganei. Si pensa che il nome del comune possa essere dovuto alle numerose torri erette nella zona dopo la caduta dell’Impero Romano, ma altre testimonianze riferiscono di tradizionali lotte fra tori organizzate dal fondatore di Padova, Antenore, come ringraziamento agli Dei.

Vigneti - Fonte: Euganamente

Dopo anni di produzione di due linee ben distinte, la famiglia Prandstraller ha deciso di concentrarsi sui vigneti di Torreglia; le uve sono quelle che da tempo si utilizzano in queste zone, ovvero merlot e cabernet franc, da cui nasce il Colli Euganei Rosso Taurilio, non c’è interesse a espandersi ma a raggiungere la massima qualità possibile, tutti gli sforzi sono concentrati su questo vino, ottenuto da 8000 piante per ettaro che non raggiungono il chilo d’uva ciascuna.
Dopo una macerazione di due settimane, a fine fermentazione il vino matura in barrique nuove e di secondo passaggio per un anno, poi gode di almeno 6 mesi di affinamento in bottiglia. “Siamo una piccola cantina, ma mettiamo molto lavoro e molto amore nel fare un prodotto che pensiamo di qualità”, mi dice Andrea Prandstraller, amministratore dell’azienda.

Le annate che andiamo a raccontare sono 2013, 2015 e 2016.

Colli Euganei Rosso Taurilio 2016, uve merlot e cabernet franc, gradazione 14% vol.
Nonostante le basse rese e la ovvia concentrazione di zuccheri e materia colorante delle uve, non ci troviamo di fronte a un vino dalle tonalità scure e impenetrabili, tipo buccia di melanzana per intenderci, ma piuttosto a un bel rubino vivace che si lascia comunque attraversare dai raggi luminosi.
Accostato al naso rivela una bella intensità di frutto, vibrante e carnoso, di prugna, mora, marasca, ma a dare lustro e conforto alle sensazioni odorose arrivano presto la menta e la liquirizia, venature d’inchiostro e ginepro su una base piacevolmente minerale, ferrosa.
La bocca racconta di una freschezza da grande annata, tannino fine e vellutato, pregevole ritorno di frutta e spezie che si mantengono a lungo, vaghi richiami boisé e di vaniglia che presto spariranno. In divenire ma già decisamente promettente e ben inquadrato, lo attende un lungo futuro.


Colli Euganei Rosso Taurilio 2015, stesse uve e stessa gradazione
Non mi ripeto sulle formalità estetiche da sommelier, il colore del vino è più o meno identico, il cambio di tonalità avviene al naso e al palato; nel primo troviamo un’espressività appena più reticente, un frutto meno espresso sebbene freschissimo (ribes nero e ciliegia), una speziatura elegante e garbata, un legno ben integrato, particelle di terra vulcanica, cioccolato, nessuna presenza vegetale a sentenziare come il cabernet franc maturi molto bene.
Al palato è quasi più giovane del 2016, dal nerbo pimpante, vitale e diretto, senza per questo avere un tannino più rigido, la levigatura è perfetta, nel complesso è finissimo ma tutto in prospettiva, ora godibile ma meno ampio e profondo, sicuramente effetto di un’annata diversa che dovrà fare il suo percorso per mostrare tutte le sue indiscutibili qualità.


Colli Euganei Rosso Taurilio 2013, stesse uve e stessa gradazione
China e cenere, le prime sensazioni che mi sono arrivate appena “sniffato”, liquirizia e cacao poi, prugna sotto spirito; man mano che si ossigena sembra convogliare ciascun sentore in un unico, ben fuso, “suono”, un bel suono che sa anche di sottobosco, muschio, felce, radici, senza però esagerare sui terziari, niente funghi o pelli conciate, il vino è ben eretto, senza cedimenti.
Lo conferma al gusto, dove esprime una ricchezza e una beata solidità, profondo e ben sorretto da un’acidità sotterranea e fondamentale, di quelle che senti solo dopo, quando ti viene voglia di berne ancora… e di mangiarlo con una gallina padovana imbriaga.

Verrone Viticoltori – Cilento Dop Fiano “Vigna Girapoggio” 2018


Un grande Fiano del Cilento, come questo prodotto dalla famiglia Verrone, lo riconosci subito grazie al perfetto connubio tra il caldo abbraccio delle terre del Sud e quella nota di timo, mandorla, agrumi e sale che ti ricordano come queste vigne, con vista sul Golfo di Salerno, siano legate intimamente al Mediterraneo con i sui colori e profumi.



Il Vinco: l'Alta Tuscia, con il Mistione, ha il suo vino rock!


Non c’è assolutamente dubbio che, assieme al basso frusinate, l’Alta Tuscia viterbese (delimitata a sud dalla provincia di Roma, ad est dall'Umbria, a ovest dal Mar Tirreno ed a nord dalla Toscana) sia l’area vitivinicola più dinamica, e per certi versi anche più anarchica, del Lazio.
Da qualche anno, infatti, tanti giovani vignaioli stanno cercando di dar vita a vini, spesso “naturali”, attraverso i quali si punta decisamente a rompere con un passato e, purtroppo, con un presente costellato da DOC, la più importante delle quali è l’Est!Est!!Est!!! di Montefiascone, che poco hanno valorizzato, tranne eccezioni, la viticoltura di un territorio la cui caratteristiche, se adeguatamente sfruttate, potrebbero senza problemi portare ad una alta qualità diffusa di tutto il comparto vitivinicolo locale.

L'Alta Tuscia

Il centro nevralgico di questa “nouvelle vague” del vino della Tuscia è caratterizzato da un luogo ben preciso: il lago di Bolsena. Questo specchio d’acqua, con i suoi 114 Kmq di superficie, rappresenta il più grande lago vulcanico d'Europa (tecnicamente è considerato una caldera) e la viticoltura in questa zona, storicamente, si è sviluppata attorno alle colline dei comuni più importanti: Montefiascone, Marta, Capodimonte, Gradoli, San Lorenzo Nuovo e Bolsena.

Il Lago di Bolsena

L’areale, come facile pensare, è costituito da terreni di origine vulcanica e ricchi di potassio anche se è possibile avere al loro interno delle importanti differenziazioni: nell’area nord-ovest l’attività intercalderica ha prodotto prettamente terreni ricchi di lave e scorie saldate, la sabbia è praticamente assente mentre la troviamo in abbondanza nella zona sud-orientale accanto, ovviamente, ad abbondanti formazioni di tufo. Le vigne, in queste zone, godono soventemente di una esposizione sud, sud-ovest e possono avere altezze variabili che possono arrivare anche ad oltre 600 metri s.l.m. da dove, ve lo posso garantire, si aprono scorci panoramici sul lago di Bolsena e le sue due isole (Bisentina e Martana) che lasciano senza fiato.
I principali vitigni a bacca bianca che possiamo trovare camminando tra questi filari sono procanico, grechetto, malvasia, moscato, verdello mentre a bacca rossa troviamo canaiolo, aleatico, ciliegiolo, roscetto e greghetto rosso (clone locale di sangiovese).

Gianmarco Antonuzi - credito: tutto wines

Come scritto in precedenza, l’Alta Tuscia Viterbese oggi è una vera e propria fucina di giovani produttori che stanno più o meno sperimentando nuove vie del vino riprendendo e sviluppando, è opportuno sottolinearlo, il grande lavoro fatto da Gianmarco Antonuzi (Le Coste) che nel lontano 2004, prima di tutti, aveva compreso la grandezza di un territorio vitivinicolo soprattutto se vigna e cantina venivano in qualche modo “slegati” da protocolli convenzionali poco rispettosi della Natura. Questo movimento “naturale ed indipendente” iniziato da Antonuzi, nel corso del tempo, ha avuto altri punti fermi come, ad esempio, Andrea Occhipinti arrivando oggi a contare almeno sei o sette cantine di riferimento tra cui Il Vinco

Daniele, Nicola e Marco: Il Vinco

Questa azienda agricola, situata nella parte sud del Lago di Bolsena (Montefiascone), è un progetto fortemente voluto e realizzato da tre amici Daniele ManoniNicola Brenciaglia e Marco Fucini che attorno al 2014, dopo una serata ad alto contenuto di alcol, decisero di diventare anche soci intraprendendo questa nuova via di vita assieme.
Attenzione – mi blocca Nicola mentre giriamo per le vigne – eravamo alticci, euforici, ma non pazzi perché alla fine, tutti e tre, oltre ad essere grandi appassionati di vino, proveniamo da ambiti agricoli che conosciamo bene. Infatti, io e Daniele siamo anche produttori di olio mentre Marco alleva vacche da carne. In zona, poi, ogni famiglia tradizionalmente ha un pezzetto di vigna con la quale fa il vino di casa, per cui qualche rudimento enologico già lo sapevamo. Ci siamo detti, perciò, visto che avevamo un minimo di esperienza, un po’ di terra e anche i mezzi meccanici, perché non iniziare?”


E così Daniele, Nicola e Marco hanno cominciato a rimboccarsi le maniche prendendo in affitto piccole parcelle di vigneto dagli anziani del posto che lasciavano. Le vigne in produzione, gestite dal 2017 secondo i principi della biodinamica, sono coltivate solo con uve locali (canaiolo nero, rossetto, procanico, malvasia bianca lunga) e sono site a Capodimonte (la parcella più grande di circa 1.2 ettari), Montefiascone, da dove si produce il bianco, mentre una vigna più piccola, di canaiolo nero a piede franco, si trova a Marta. In totale circa tre ettari a cui si devono aggiungere altri tre ettari e mezzo di nuovi impianti (tutti attorno la cantina) dove troviamo anche piante di verdello (clone locale di verdicchio).


Mentre scrivo mi trovo all’interno della nuova cantina de Il Vinco, a due passi da Montefiascone, dove i ragazzi stanno vinificando in autonomia, non senza difficoltà, dopo essere stati ospitati da Andrea Occhipinti per i primi due anni di produzione. All’interno della nuova cantina, che in futuro si avvarrà anche di una sala degustazione con vista sui vigneti, troviamo sia vasche di cemento, usate per la fermentazione a scalare dei vini, sia tini in vetroresina (i loro preferiti) ed acciaio inox che sono invece usati per l’affinamento dei vari vini della gamma. Per ora non viene usato legno anche se per la prossima annata, la 2020, è in programma di acquistare una botte grande per affinare il greghetto rosso.


Dopo vari assaggi da vasca, tutti sorprendenti per identità e territorialità, chiedo di degustare il loro rosato, il così detto Mistione, che tanto sta spopolando, soprattutto in queste giornate estive, tra gli amanti dei vini naturali. Il vino non altro che un blend, ovvero un mischione\mistione (da qua il nome), di uve sia a bacca bianca che rossa come canaiolo nero, procanico, rossetto, malvasia bianca lunga che dopo una breve macerazione di due giorni vengono fermentante spontaneamente in cemento per poi affinare, una volta creata la cuvée, in acciaio e vetroresina per circa sei mesi a cui seguono altri tre mesi di bottiglia. 


Degustandolo, capisco perché questo rosato sta facendo tanto parlare di sé: è assolutamente originale, parte leggermente abboccato ma poi la forte componente sapida del vino, tipica della zona vulcanica dove sono piantate le viti, tende subito a controbilanciare la beva che, come un perfetto equilibrista, scorre lenta ma inesorabile su quel filo sottile che si chiama emozione gustativa e voglia di riempire un altro calice. Amici, siamo ovviamente di fronte ad un vino pop, sicuramente non è il miglior rosato bevuto nella mia vita ma, vivaddio, siamo nel bicchiere finalmente ho qualcosa di assolutamente inedito ed innovativo per l’Alta Tuscia abituata forse un po’ troppo abituata a vini tecnici e troppo uguali a se stessi.


Ultima curiosità: Il Vinco deriva il suo nome dal salice da vimini (Salix viminalis) con il quale un tempo si formavano delle corde per legare i le viti o le piante dell’orto. Il Vinco, perciò, sta ad indicare il forte legame con la terra di origine del progetto ma suggella anche il forte rapporto di amicizia tra Daniele, Nicola e Marco.

Ayala - Champagne Brut “Collection N°7” 2007

Lanciato in Italia lo scorso 23 Luglio con un evento unico che si è svolto in contemporanea in sette città italiane, il N° 7 è la seconda opera della "COLLEZIONE AYALA", champagne unico nel suo genere, prodotto in piccole quantità e presentate solo quando raggiunge il suo apice. Questa cuvée nasce da un blend (2/3 chardonnay e 1/3 pinot nero) di 7 Grands Crus della Côte des Blancs e della Montagne de Reims, tutti dell'annata 2007, è ha un dosaggio di circa 6 grammi/litro.


In particolare le uve nascono da 5 Grands Crus della Côte des Blancs : 
Avize : mineralità gessosa 
Chouilly : generosità, finezza 
Cramant : struttura, vinosità 
Le Mesnil-sur-Oger : vivacità, tensione 
Oger : frutta, opulenza 

e 2 Grands Crus de la Montagne de Reims
Aÿ : generosità, finezza 
Verzy : vivacità, carisma 


Queste sette anime, sapientemente assemblate da Caroline Latrive, una delle 3 donne Chef de Cave di tutta la Champagne, dopo circa 11 anni di affinamento nelle cantine della Maison Ayala, hanno dato vita ad uno Champagne assolutamente di carattere e potenza aromatica sciorinata in un ampio quadro olfattivo che spazia dalla frutta secca fino allo zenzero e la mineralità, passando per agrumi canditi e prugna Mirabelle.  Al sorso è goloso, strutturato ma, al contempo, elegantemente vivace e sinuoso. La chiusura, sapida, sfuma in un caldo e vibrante abbraccio agrumato.

Caroline Latrive

Ayala N°7 si abbina perfettamente a cibi ricchi ma dalla consistenza delicata, come un'aragosta alla griglia in burro salato servita con risotto allo zafferano, un medaglione di filetto di vitello in salsa cremosa o semplicemente un Comté stagionato 18 mesi!

De Bartoli - Marsala Vergine Riserva 1988


di Lorenzo Colombo

E poi ti capita d’assaggiare questo vino e commiseri coloro che dicono di non amare il Marsala.


Un vino questo che richiederebbe un’intera pagina per poter essere descritto, e probabilmente non basterebbe: miele di castagno, fichi cotti, frutta secca, un’ampiezza olfattiva e gustativa con pochi uguali, e poi non finisce mai. Ovviamente non ci riferiamo alla bottiglia, finita troppo presto.


Due belle trattorie da scoprire se passate in Lunigiana!


di Lorenzo Colombo

La Lunigiana è una regione storicamente divisa tra Emilia, Toscana e Liguria, dopo l’unità d’Italia e la creazione delle varie province il suo territorio è stato un poco smembrato ed attualmente per Lunigiana s’intende l’insieme di alcuni comuni situati lungo il corso del fiume Magra, suddivisi tra le province di La Spezia e di Massa Carrara.

Dal punto di vista gastronomico le preparazioni più conosciute sono gli Sgabei, pasta lievitata (la stessa del pane), tagliata a strisce e fritta in olio d’oliva, che vengono solitamente abbinate a salumi vari ed utilizzati come antipasti, famosi inoltre sono i Panigacci ed i Testaroli.

In realtà tra i due non è ci si sia molta differenza, si tratta sempre di un impasto simile, ovvero una pastella di farina, acqua e sale, leggermente più densa per quanto riguarda i Panigacci, per entrambi la cottura di questa pastella avviene in testi, di ghisa o terracotta. Ciò che cambia è l’utilizzo, infatti i testaroli, che si ottengono tagliandi in quadrati di circa 4 centimetri di lato il disco cotto, vengono bolliti per pochi minuti in acqua e quindi conditi in genere con pesto di basilico, ma anche con altri sughi, mentre i Panigazzi vengono in genere serviti caldi (sembrano delle piccole piadine) accompagnati da salumi o formaggi.


Ma veniamo ai nostri locali: sei giorni in Lunigiana e sei trattorie visitate, in tutte abbiamo mangiato più che bene, assaggiando a volte diverse versioni degli stessi piatti, qui andiamo a riferire dei due luoghi dove ci siamo trovati meglio, sia per quanto riguarda l’accoglienza, ma soprattutto per quanto riguarda il cibo e non ultimo il prezzo pagato.

Il primo locale è Da Fiorella, situato a Nicola, frazione di Luni, in provincia di La Spezia. Situato a 180 metri d’altitudine, ci si arriva affrontando alcuni tornanti dopo aver lasciato l’Aurelia in prossimità del sito archeologico di Luni. Ci siamo stati domenica 12 luglio a pranzo. Visto dal di fuori non è che ci abbia fatto una grande impressione, le cose però cambiano appena entrati Un’ampia sala luminosa arredata in maniera moderna, con ampie finestre che spaziano sulla Val di Magra, sino al mare. I numerosi ed interessanti piatti in carta ci costringono ad una non facile scelta, optiamo quindi per un Antipasto misto, composto da torta di verdure, torta di riso e cipolla, caponata, polenta incatenata e verza ripiena e per un Gatzpacho e vaporata di mare. Buonissimo quest’ultimo piatto, anche se ce lo immaginavamo diverso.

Antipasto misto

Tra i primi piatti scegliamo il Bis di Panigacci (con olio e parmigiano e con pesto fatto in casa), Pappardelle all’amatriciana di polpo e pecorino e Tagliolini cacio pepe e cozze. I Panigacci sono dei pani non lievitati a forma di cerchio (ricordano nella forma la piadina) cotti a fuoco vivo in un testo di terracotta, gli ingredienti sono semplicemente farina, acqua e sale. Vengono poi serviti con varie pietanze, soprattutto salumi e formaggi, ma anche in maniera più semplice, ma non meno gustosa, come nella versione assaggiata da Fiorella.

Panigacci

Difficile la scelta anche per quanto riguarda i secondi piatti, alla fine decidiamo per dei gustosissimi Muscoli di Spezia ripieni e, mentre chi è più tradizionalista opta pe Filetto di manzo e Chips di patatine fritte.

I muscoli!

Un gelato alla crema e due caffè chiudono il nostro pasto che è stato innaffiato con un Trento Doc “Salísa” Millesimato 2016 di Villa Corniole e, per bere locale, un Vermentino “Vigne Basse” 2019 di Terenzuola, vini scelti in un’ampia carta che comprende sia vini locali che di altre regioni, il tutto con ricarichi più che onesti. 


Notevole la soddisfazione, sia per quanto riguarda il palato come pure per il portafoglio.


Il secondo locale di cui andiamo a scrivere, si trova invece a Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara, proprio ai piedi del Castello Malaspina, si tratta del castello più grande e meglio conservato di tutta la Lunigiana, famoso per aver ospitato tra gli altri anche Dante Alighieri.


Ma torniamo al nostro locale, ovvero la Trattoria Quinta Terra, una sala a volte in pietra e pochi tavoli all’esterno ci accolgono mercoledì sera, 15 luglio, all’interno i tavoli sono ben distanziati, il menù si trova su un paio di lavagne, c’è pure il QR Code per scaricarlo, come può essere scaricata la carta dei vini.
Delicato il Flan di cavolfiore con salsa al gorgonzola che scegliamo tra gli antipasti; proseguiamo poi con i primi piatti, ovvero Orecchiette, cozze, pecorino e cannellini e Zuppa di farro con calamari al rosmarino.
Entrambi piatti assai deliziosi e saporiti.

Orecchiette, cozze, pecorino e cannellini

Tra i secondi piatti tortino di acciughe, melanzane, pomodoro e mozzarella e baccalà alla ligure gratinato al forno. Il tutto innaffiato da Breganze Vespaiolo Doc “Angarano Bianco” 2018, di Villa Angarano, un vino che con la sua acidità s’è sposa più che bene con i piatti scelti. 


Non molte le etichette nella carta dei vini caratterizzata da un ricarico onesto, l’azienda ha anche una propria produzione, abbiamo assaggiato per curiosità il loro Vermentino “Tziveta” trovandolo molto interessante. Conto finale onestissimo, con notevole rapporto qualità/prezzo.