Paola Lantieri e la sua grande Malvasia delle Lipari Passito 2009 - Garantito IGP


di Roberto Giuliani

Conosco Paola Lantieri da parecchio tempo, non dimenticherò mai la lettera che mi spedì 8 anni fa in cui mi raccontava la sua storia, il suo cambio totale di vita alla bellezza di 59 anni, lei che di vigna non sapeva nulla. Se non ci fosse stato Giovanni Scarfone (giovane produttore di grandi vini Doc Faro, azienda Bonavita) a darle una mano, in un’impresa già folle, forse l’avventura avrebbe avuto esiti diversi, quantomeno un’evoluzione ancora più complessa e lenta. Cinque ettari di vigna ad alberello nell’unica valle incontaminata di Vulcano, ma potremmo quasi dire di tutto l’arcipelago, vigna che Paola ha dovuto ricostruire quasi totalmente, lasciando traccia del passato in alcuni filari di passolina, ovvero il corinto nero, che contribuisce in minima parte alla produzione della sua Malvasia delle Lipari Passito.

Paola Lantieri - Foto: www.meteri.it

Venticinque quintali d’uva per ettaro, questa è la media produttiva di Paola di fronte a un disciplinare che consentirebbe di produrne anche 90; non è solo per volontà di Paola che la produzione è così bassa, in una terra dove la sabbia è l’elemento principale è inevitabile che le rese siano inferiori alla media. La prima vendemmia fu nel 2006, ma si trattava veramente di pochissime bottiglie, l’annata che effettivamente ha preso corpo ed è uscita dal distretto isolano è questa 2009, 2.000 bottiglie da 500 cl. dal contenuto straordinario.

Ma di questo ne parliamo dopo.

Quello che, invece, mi preme dire è che nonostante questo vino sia stato apprezzato da un sempre maggior numero di appassionati ed esperti, e nonostante siano poche migliaia di bottiglie, Paola fa una fatica enorme a venderlo. Perché? Probabilmente perché, salvo alcune zone d’Italia dove c’è una tradizione più costante per i vini passiti, legati spesso a dolci e formaggi, il resto dello Stivale beve vini secchi o spumanti e considera i vini dolci qualcosa da assaggiare sporadicamente, per cui non vale la pena comprarne qualche bottiglia.

Punta dell'Ufala - Foto: Meteri

Errore, perché quando ci si trova davanti a un vino così, non è necessario mangiare nulla, è talmente emozionante che la cosa migliore è sorseggiarlo in assoluto silenzio, magari immaginando di essere sull’isola di fronte al mare, dove dimorano le vigne. Insomma, Paola, che non è certo più una ragazza, è in seria crisi, e la capisco, vale la pena continuare a impegnarsi tanto per fare un prodotto unico, straordinario, se poi non viene apprezzato come meriterebbe? Bella domanda. Io non so come mi comporterei al suo posto, soprattutto pensando che questo vino non può darti certamente un sostegno economico tale da giustificare tutto questo lavoro, tanto più ora che ogni anno è sempre più bizzarro e complicato da affrontare a causa di un clima davvero impazzito.


Io spero che resista, perché la sua Malvasia delle Lipari è uno dei gioielli che rendono grande questo disastrato Paese, nonostante la 2009 sia uscita ben 8 anni fa è tutt’ora sorprendente, il colore è oro antico con riflessi ambrati, il bouquet sontuoso di nocciola zuccherata, zagara candita, albicocca secca, miele di castagno, noce, fumo, cera calda, tabacco da pipa, fichi e cioccolato, ma potremmo andare avanti ancora per molto. E al palato? Ancora vivissima, con quel guizzo acido che sostiene la nota dolce, per altro delicata, non stucchevole, qui giocano anche le spezie orientali, cannella, zenzero, poi mela cotogna e ancora agrumi canditi, su una base piacevolmente salina.


Un passito, quindi, che è capace anche di invecchiare bene, c’è bisogno di vini così e di donne coraggiose come Paola Lantieri, se non capiamo questo, allora avremo perso un’altra artigiana vera, una donna che non ha mai staccato la spina del proprio cuore per fare compromessi e adeguarsi a un mondo sempre più distratto e impoverito. Già, senza la sua Malvasia, saremo tutti un po’ più poveri.

Meditate gente, magari con un calice di Malvasia delle Lipari Passito Lantieri.

SanVitis - Cesanese di Olevano Romano DOC 2015

di Andrea Petrini

Nel Lazio la zona del Cesanese è in grande fermento e chi scrive il contrario è in palese errore. 


Prova ne è questo Cesanese di Olevano Romano di San Vitis, giovane azienda che si affaccia sul mercato con questo cesanese decisamente succoso, equilibrato e di grande personalità nonostante sia, se non sbaglio, alla prima annata ufficiale.
www.sanvitis.it

Feudi di San Gregorio e il progetto Feudi Studi sulla territorialità del vino dell'Irpinia

Erano gli anni ’90, ero adolescente o giù di lì, e mi ricordo bene che per fare bella figura con gli amici, pur non capendo nulla, come ora, di vino, compravo spesso al supermercato o il Greco di Tufo o, meglio ancora, la Falanghina di Feudi di San Gregorio. Andavo sul sicuro, piacevano a tutti, erano nettari molto “piacioni”, dopo oltre venti anni ancora non posso dimenticare i loro profumi di frutta tropicale e la morbidezza all'assaggio. Per molto tempo le cose sono andate avanti così, Feudi di San Gregorio, grazie soprattutto alla GDO, oggi come ieri, era una azienda forte, premiata, “pop” come i suoi vini distribuiti in ogni dove, eppure qualcosa non andava, il "suono" che Feudi emanava non era pulito, lineare, perché mancava, forse, la cosa più importante ovvero il legame profondo dei suoi vini col territorio. 



Questa distorsione, a mio giudizio, viene finalmente assorbita quando entrano in azienda due persone: la prima è Antonio Capaldo, Presidente di Feudi di San Gregorio dal 2009, che con fatica ha fornito gli input per reimpostare l’anima agricola di Feudi cercando di sfruttare il carico di sapienza, lentezza e di emozioni che fornisce un territorio unico, ricco di biodiversità, come la terra irpina.
Tutto ciò, ovvero la volontà di produrre vini finalmente profondi e spontanei non potrebbe determinarsi senza la presenza di un’altra figura determinante per l’azienda ovvero Pierpaolo Sirch, agronomo appassionato già collaboratore di Feudi, che Capaldo ha voluto fortemente prima come Amministratore Delegato e poi anche come Direttore Tecnico.

Sirch e Capaldo - Foto: Luciano Pignataro

Con Sirch, da me ribattezzato "uomo-pianta" per le sue immense conoscenze agronomiche, ho avuto il privilegio di girare tra le vigne di proprietà di Feudi (l’azienda possiede anche vigneti in affitto) che senza troppi giri di parole mi contestualizza in questo modo: “l’Irpinia, di fatto, è un’immensa banca dati genetica, uno scrigno di profumi e sapori diversi scomparsi dalla nostra memoria gustativa che devono essere salvati. La sfida di Feudi di San Gregorio - continuaè quella di cercare e proteggere la diversità per se stessa. La non-omologazione è un valore portante per il vino del futuro, e non solo per Feudi”. 

vecchie vigne di Feudi

Poi, arriva il concetto che mi apre il cuore e mi rende più che speranzoso: “Quello che mi è stato chiesto quando sono arrivato è di riportare l’azienda con i piedi nel vigneto. Dobbiamo pensare che negli anni passati si piantava un po’ ovunque, dove capitava, senza una piena conoscenza delle potenzialità dei terreni. Per raggiungere questo obiettivo ci vogliono le persone, non i numeri. E’ necessario riportare l’uomo nei campi e riconquistare la sensibilità per capire quello che sta succedendo nella vigna".


Entrata della cantina

Il nucleo originario dei vigneti di Feudi di San Gregorio si trova nella zona di Sorbo Serpico, dove c’è anche la cantina. Nel tempo, sono stati acquisiti vigneti nella zona di Tufo, a Taurasi e a Santa Paolina. Tutti sono situati su pendii compresi fra i 350 e i 700 metri per un totale di circa 250 ettari. Di questa totalità circa 60 ettari sono piccole parcelle di vigne storiche (in totale Feudi gestisce circa 895 parcelle e circa 700 ettari di vigneto totale), gestite con lunghi contratti di affitto che hanno non solo l’intento di raccogliere grappoli preziosi ma anche di salvare letteralmente il patrimonio vinicolo anche grazie alla collaborazione con varie università italiane e internazionali per la ricerca, lo studio genetico e la riproduzione delle vigne vecchie (dai 70/80 fino a oltre 200 anni) che ancora popolano l’Irpinia.

Vista dalla cantina
interno cantina

Per sfruttare appieno queste potenzialità nasce nel 2011 il progetto FeudiStudi.  L’idea – mi conferma Sirch - è interpretare le medesime varietà su suoli diversi, per esprimere l’essenza del vitigno in rapporto al territorio, riducendo al minimo l’intervento dell’uomo”. 
Ad oggi i FeudiStudi hanno esplorato tre varietà (aglianico, fiano di Avellino e greco di Tufo) rappresentative di dodici vigneti e cinque vendemmie, dal 2011 al 2012. 
Assieme a Sirch abbiamo degustato l’annata 2015 dove, come sempre, i vini sono prodotti in tiratura limitata di 2.000 esemplari in una speciale bottiglia del XVII secolo rivisitata. 


Fiano di Avellino “Campo Aperto” 2015: da una vigna di tre ettari piantata nel 2000 in zona Sant'Angelo a Scala nasce questo fiano in purezza vibrante dotato di acidità agrumata e soffi aromatici di fiori di acacia e pietra bianca. Al sorso è tesissimo, una vera e propria sciabolata sapida che inonda il palato determinando un finale lunghissimo.


Fiano di Avellino “Fraedane” 2015: nel territorio di Montefredane, dove Feudi nel 1995 ha piantato una vigna di 0,8 ettari, il Fiano viene così ovvero dotato di inconfondibili toni aromatici fumè e, in generali, di frutta matura mentre al sorso è generoso, leggermente morbido e caldo nel finale.


Fiano di Avellino “Arianello” 2015: A Lapio, zona dove Feudi ha una vigna del 2003 di circa un ettaro, il Fiano risulta inconfondibile, ha maggiore struttura e “grassezza” rispetto ai precedenti da cui si distingue ulteriormente per una componente di erbe aromatiche e gesso che lo rende davvero complesso e suadente. Al sorso la materia del vino è ben bilanciata da tanta freschezza e sapidità che rendono la beva armonica e succosa.


Greco di Tufo “Bussi” 2015: da 2 ettari di vigneto di circa 15 anni piantato su argille compresse nasce questo vino dalla grande spinta minerale e dotato di un sorso verticale, citrino arricchito da tinte sapide che ne allungano la persistenza in maniera decisiva.


Greco di Tufo “Laura” 2015: il vigneto, circa un ettaro piantato su terreno argilloso-calcareo, è molto più vecchio del precedente e il vino che ne deriva ha un registro olfattivo agrumato, erbaceo, e alla beva garantisce tanta freschezza, e non sapidità come il Bussi, che ben lavora ai fianchi per gestire un corpo complesso e di spessore.


Greco di Tufo “Arielle” 2015: il vino, prodotto da vigne di poco più di 20 anni piantate a 600 metri di altezza su terreno argilloso, è il più austero dei tre, ha evidenze salmastre, sapide, sa di erbe officinali e mela golden. All’assaggio è coerente, dimostra carattere, sostanza e una persistenza “da vendere” subissata da percezioni sulfuree.



Taurasi “Candriano” 2012: proveniente da vigneti del 1950 posti a circa 650 metri di altitudine, dove l’escursione termica tra notte e giorno registra sbalzi di anche 25°, il Candriano è un aglianico in purezza molto estroverso e di grande solarità dove ritrovo all’olfatto frutta rossa croccante associata a sbuffi di spezie orientali e guizzi balsamici. Sorso ancora esuberante, giovane nella trama tannica, e finale robusto e sincero.

Taurasi “Rosamilia” 2012: proveniente da un vigneto del 1960, questo Aglianico si caratterizza per una maggiore austerità rispetto al precedente, apprezzo moltissimo i suoi profumi di tabacco, humus, rabarbaro, spezie scure e frutta nera. La bocca è imponente, ben sciolta nella setosa intelaiatura tannica. Grintoso nel finale, con persistenza decisa, senza strappi, che non molla per lunghi minuti.

Tenuta La Pergola - Cisterna d’Asti Doc 2013 è il Vino della settimana di Garantito IGP


di Lorenzo Colombo

Non è certamente una tra le denominazione più conosciute la Cisterna d’Asti Doc, per la cui produzione s’utilizza il vitigno croatina per un minimo dell’80%.


Dopo quest’assaggio pensiamo però che la sua conoscenza debba essere senz’altro approfondita.Questo vino è elegante, balsamico con un perfetto equilibrio gustativo.


Nel profondo del Quor con La Montina


Di Lorenzo Colombo

L’occasione era quella di presentare alla stampa ed agli addetti ai lavori il nuovo prodotti aziendale, il “Quor 2910”, un Franciacorta Extra Brut in edizione unica, un vino che vedrà quest’unica produzione e non sarà più replicato. 10.000 bottiglie sboccate a giugno 2018 e che entreranno in commercio a novembre di quest’anno, in occasione delle festività natalizie.


“Quor” sta per “cuore”, un errore ortografico commesso da nonno Fiore in una lettera indirizzata all’amata moglie Gina. Più complessa da decifrare la sigla “2910” che assume diversi significati: 9 sta per 2009, anno della vendemmia delle uve (65% chardonnay e 35% pinot nero), 10 sta per 2010, anno del tirage, mentre 2910 sta per i giorni di sosta sui lieviti, ovvero 95 mesi. Si tratta di un Extra Brut con meno di 4,5gr/l di zucchero residuo, un vino dal color paglierino dorato luminoso. Intenso al naso, fresco, agrumato, con sentori di pesca gialla. Fresco e verticale anche al palato, decisamente sapido, minerale, con spiccata vena acida, alla bocca si colgono note d’agrumi leggermente acerbi, mentre la lunga persistenza chiude su leggere note vegetali.      


Quello appena descritto è il vino che ha chiuso una degustazione particolare, un qualcosa che, nonostante le migliaia di vini assaggiati non avevamo ancora provato.
Capita infatti di assaggiare una bottiglia di Metodo Classico, frutto della medesima annata e con uguale data di “tirage” ma con diverso periodo di sboccatura e di notare che i due vini sono diversi, spesso si tratta di sboccature con pochi mesi di differenza, ma le modificazioni all’interno della bottiglia seguono l’andamento delle stagioni, da qui le differenze.
Ma ciò che ci aspettava, a Villa Baiana, sede de La Montina, era qualcosa di decisamente più spinto, ossia l’assaggio di due diversi Franciacorta, entrambi di due diverse annate, con sboccature assai diverse, non differenze di mesi, ma anni.


Le nostre impressioni le trovate di seguito, qui volevamo unicamente sfatare una volta per tutti uno dei tanti luoghi comuni che girano attorno al vino, agli spumanti in questo caso, ovvero che, dopo la sboccatura il vino inizia pian piano a morire, da qui l’assunto che gli spumanti non vadano conservati nel tempo. Non è assolutamente vero. Dopo la sboccatura inizia a vivere, con la parabola tipica di tutti gli esseri viventi, prima è come se il vino si trovasse ancora nel ventre materno, in uno stato di pre-vita. Ebbene, assaggiando queste quattro coppie di vini, e rileggendo le note di degustazione, vediamo che le differenze sono notevoli e, in tre casi su quattro il vino che abbiamo preferito è stato quello con la sboccatura più recente, ovvero quello che ha goduto di una lunga sosta sui lieviti.


Diversamente è stato per la coppia di Saten 2004, dove, il vino sboccato a suo tempo ci è piaciuto molto più dell’altro, anzi, è il vino che più c’è piaciuto in assoluto, dotato com’era di una freschezza decisamente inaspettata. Tutti gli otto vini degustati, con le dovute differenze, erano ancora bevibilissimi, oltre al già citato Saten 2004, sboccatura ottobre 2007, i vini che abbiamo maggiormente apprezzato sono stati nell’ordine: Millesimato 2004 con sboccatura giugno 2018 e Millesimato 2002 con sboccatura giugno 2018.


Ecco per concludere le nostre sintetiche impressioni (l’annata tra parentesi indica quella della vendemmia, anche se il vino non è stato presentato come Millesimato):

Saten (2002)

Chardonnay in purezza, tiraggio maggio 2003
Sboccatura novembre 2005 (30 mesi sui lieviti)
Color oro antico tendente al ramato. Intenso al naso, sentori di crosta di pane e scorza d’arancio, accenni tropicali, caramella al rabarbaro, note tostate e leggeri accenni ossidativi.
Cremoso al palato, sapido, con spiccata vena acida, leggere note tostate ed accenni di caramella al rabarbaro, lunga la persistenza.

Sboccatura giugno 2018 (181 mesi sui lieviti)

Oro antico, intenso e luminoso, tendente al ramato.
Intenso al naso, sentori di confettura di mele cotogne, note di brioche ripiena di marmellata d’albicocche.
Decisa l’effervescenza al palato, succoso, con buona vena acida, sentori di mela, lunga la persistenza.

Saten (2004)

Chardonnay in purezza, tiraggio maggio 2005
Sboccatura ottobre 2007 (29 mesi sui lieviti)
Color paglierino luminoso.
Buona l’intensità olfattiva, fresco, pulito, agrumato, elegante.
Intenso alla bocca, fresco, cremoso, agrumato, con bella vena acida e lunga persistenza.
Impressionante la sua freschezza.

Sboccatura giugno 2018 (157 mesi sui lieviti)
Paglierino luminoso.
Intenso al naso, pulito, sentori di mela matura e d’albicocca, leggere note tropicali.
Buona l’intensità gustativa, fresco, agrumato, cremoso, succoso, con leggeri accenni tostati.


Brut Millesimato 2002

60% Chardonnay, 40% Pinot nero, tiraggio maggio 2003
Sboccatura aprile 2007 (47 mesi sui lieviti)
Color oro antico, luminoso.
Intenso al naso, tostato/affumicato, sentori di crosta di pane.
Cremoso alla bocca, intenso, con bella vena acida, sentori di mela matura e crema pasticcera, leggeri accenni ossidativi, lunga la persistenza.

Sboccatura giugno 2018 (181 mesi sui lieviti)

Color paglierino luminoso di buona intensità.
Discreta l’intensità olfattiva, si percepisce una pesca gialla e succo di pesca, elegante.
Intenso alla bocca, cremoso, con bella vena acida, torna il sentore di pesca, questa volta sciroppata, buona la persistenza.

Brut Millesimato 2004

60% Chardonnay, 40% Pinot nero, tiraggio maggio 2005
Sboccatura febbraio 2008 (33 mesi sui lieviti)
Color paglierino luminoso tendente al dorato.
Buona l’intensità olfattiva come pure l’eleganza, si colgono sentori di crema pasticcera e zabaione, uniti a leggeri accenni tostati.
Intenso alla bocca, cremoso, sapido, con bella vena acida e leggeri accenni ossidativi che ricordano la buccia di mela, lunga la sua persistenza.

Sboccatura giugno 2018 (157 mesi sui lieviti)

Paglierino tendente al dorato.
Intenso al naso, elegantissimo, si colgono sentori di frutta gialla maura (pesca gialla), note tropicali e leggeri accenni tostati.
Mediamente strutturato, con decisa effervescenza alla bocca, sapido, cremoso, con bella vena acida, tornano i sentori di pesca gialla.

Palcoscenico Frascati 2018


Nel primo fine settimana di novembre, sabato 3 e domenica 4, all’interno delle Mura del Valadier a Frascati, il vino, la gastronomia e la cultura si metteranno in scena.

Palcoscenico Frascati è un evento sul territorio promosso dal Consorzio Tutela Denominazioni Vini Frascati che, giunto alla sua terza edizione, è nato per favorire un contatto diretto con i produttori di vino della storica denominazione Frascati e tutti i curiosi, gli appassionati, i professionisti che ruotano intorno a questo mondo.
All’interno delle sale delle Mura del Valadier si alterneranno gli spazi dedicati alle Cantine che propongono i loro vini, a seminari e degustazioni guidate, a cooking show, incontri culturali, presentazioni di libri.

Un programma molto fitto per offrire la sintesi di una qualità ormai ampiamente diffusa e consolidata che vedrà anche la partecipazione delle autorità locali.
Il programma prevede la presenza continua nei due giorni delle Cantine: Almavini-Casata Mergè – Azienda Agricola L’Olivella – Azienda Agricola Valle Vermiglia – Azienda Agricola Villa Simone di Costantini Piero – Cantine Conte Zandotti – Casale Marchese – Casale Vallechiesa – Società Agricola Gabriele Magno – Terre dei Pallavicini.

A Fabio Turchetti, giornalista enogastronomico, il compito di condurre i seminari di degustazione e di descrizione della viticoltura locale che si terranno nei due giorni dell’evento, supportato dalla presenza del Presidente del Consorzio Dr. Paolo Stramacci, di enologi e di produttori.

La gastronomia sarà valorizzata da presentazioni ed assaggi di piatti realizzati per il pubblico presente. Mentre al pasticcere Oreste Molinari spetterà il compito di ricordare le storicità dei prodotti locali, all’interno delle quali viene messa in evidenza la storica Pupazza Frascatana, caratteristico dolce a forma di donna con tre seni, dei quali, secondo la leggenda, quello centrale forniva il vino.

Ampio spazio anche alla cultura, con intrattenimenti poetici a cura dell’Associazione di Terra e di Parole” e musica.

Ai libri saranno riservati una esposizione e vendita di titoli legati al territorio, all’enogastronomia e alla cultura, con una concentrazione dell’interesse, in programma per sabato pomeriggio, sulla presentazione del libro “Peste e Corna” ed. Sperling&Kupfer, ultimo lavoro dello scrittore, giornalista, affabulatore Massimo Roscia che lo racconterà come al suo solito in uno spettacolo tutto da gustare.

Per orari e dettagli: www.consorziofrascati.it

Poderi Cellario - Langhe Doc Nascetta Se’ 2017 è il Vino della settimana di Garantito IGP

di Stefano Tesi

La storia di quest’antico vitigno langarolo sarebbe da raccontare, ma è meglio far parlare il vino, che ho assaggiato ad Autochtona 2018: di un dorato intenso e con un naso complesso, vagamente balsamico, che si evolve in nocciola e anice. 


In bocca è semplice e diretto, ma lo risentirei tra un paio d’anni. Godibile e intrigante.

www.podericellario.it

Barone Pizzini, Tesi Uno 2012 - Garantito IGP


Di Stefano Tesi

Non è frequente essere invitati da un’azienda produttrice di vini di una famosa denominazione di bollicine ad assaggiare un vino che non ricade sotto quella denominazione. E’ ancora più infrequente se il vino in parola viene prodotto in sole 4mila bottiglie, è appunto uno spumante e va in enoteca all’abbordabilissimo prezzo di circa 25 euro (valendoli tutti). In più, con una bella storia da raccontare.


Invece è successo giorni fa, quando sotto ai rami-bersò dello spettacolare faggio pendulo del giardino Four Seasons di Firenze Silvano Brescianini, vicepresidente esecutivo della Barone Pizzini, nota cantina del Franciacorta, ci ha stappato una bottiglia di Tesi Uno 2012 (tranquilli, nessun conflitto di interessi per il sottoscritto, è proprio il nome del vino, che corrisponde ad una delle tre tipologie sperimentali da cui ha preso vita): metodo classico, sessanta mesi sui lieviti e frutto di un taglio tra 20% di Pinot Nero, 20% di Chardonnay e 60% di Erbamat.


Già Erbamat. Che ovviamente non è un distributore automatico di oppiacei, né un robot per la cura del giardino, ma un antico vitigno autoctono della Franciacorta, citato già nel 1565 da Agostino Gallo e riscoperto negli anni ’90 del secolo scorso da Attilio Scienza dell’Università di Milano nel corso di una ricerca sulle vecchie varietà lombarde finanziata dalla provincia di Brescia. Si tratta, ha spiegato Brescianini, di un’uva bianca, tardiva, con pochissimi polifenoli, quindi quasi incolore, ma con una sua impronta aromatica, che matura un mese e mezzo dopo lo Chardonnay e, ciononostante, ha la metà degli zuccheri e il doppio dell’acidità del celebre vitigno internazionale. “Perfetta insomma – ha specificato – per evitare un eccessivo sviluppo di alcool e per mantenere fresco il Franciacorta”.
Non a caso, dal 2017 l’Erbamat risulta tra le varietà ammesse (con un massimo del 10%) dal disciplinare di quella docg. Ma qui viene il bello. Barone Pizzini dal 2008 lavora quest’uva che, giura il suo vicepresidente, li ha fatti ammattire parecchio, anche perché “è un’uva che non matura mai e forse è anche per questo che era stata abbandonata”.
Fattostà che a furia di sperimentare e di degustare alla cieca, è emerso che lo spumante fatto con la formula 60+20+20 detta sopra è sempre risultata la più gradita agli assaggiatori. Così nel 2012 ne hanno prodotte 6mila bottiglie: un terzo giace in cantina come riserva aziendale e due terzi, cioè 4mila, ha preso la via del commercio.


Si tratta di un prodotto estremamente interessante, di un bel giallo dorato pieno, con perlage lento e fine. Al naso è secco, asciutto, elegante, con un accenno agrumato e una nota varietale sfumata e caratteristica che lo rende immediatamente riconoscibile. Anche in bocca è asciutto, con spiccata acidità, molto preciso, composto e lungo, con una levità che giova alla bevibilità senza nuocere all’eleganza.
Mi ha ricordato, ed è un gran pregio, certi spumanti di gran nome venuti dall’Inghilterra, dove non a caso l’acidità e le maturazioni difficili sono (o erano?) di casa.

Il grande Barolo di Cantine Damilano

Damilano è una delle cantine di Barolo dalle tradizioni antiche, ultra centenarie. L’attività della famiglia Damilano inizia nel 1890 quando, nel comune di Barolo, Giuseppe Borgogno, bisnonno degli attuali proprietari, iniziò a coltivare e vinificare le uve di proprietà.
È però con la generazione successiva, con Giacomo Damilano, che la cantina assume il nome attuale. È lui a dare impulso alla cura delle vigne, a costruire la cantina e ad apportare costanti miglioramenti nella qualità della vinificazione. Infine, dal 1997 la conduzione dell’azienda è in mano ai suoi tre nipoti: Guido, Mario e Paolo Damilano.
La nuova generazione ha da subito lavorato per la valorizzazione del vitigno principe delle Langhe, il nebbiolo, e in special modo per mettere in bottiglia i vigneti più vocati, tutti gestiti da Giampiero Romana, tra i quali troviamo Brunate, Cerequio, Liste e, soprattutto, Cannubi che, come tutti gli appassionati di Barolo sanno, è particolarmente vocata per la produzione di Barolo. La bottiglia più antica, con la scritta Cannubi risale al 1752 ed è conservata a Bra presso la famiglia Manzone… praticamente il Barolo non era ancora nato che il Cannubi esisteva già!

Guido, Mario e Paolo Damilano

Questa preziosa collina si trova ai piedi del paese di Barolo e si allunga lungo la strada che porta ad Alba, terminando dolcemente quasi davanti alla cantina Damilano.
Nella sua Guida ai Vini del Piemonte Renato Ratti scrive nel 1977 “nel comune di Barolo vi è una posizione di eccezionale completezza (localizzata, collina lunga e gradualmente crescente, al centro della valle che divide le due grandi sottozone) dove i terreni di tipo Elveziano e Tortoniano si uniscono e si confondono…”. Precisamente si tratta infatti dell’unica zona, nell’intero comprensorio della produzione del Barolo, nella quale si uniscono e si confondono terreni Tortoniano, Serravalliano e Marne di S. Agata Fossili di epoche geologiche diverse. Sono suoli poco evoluti, costituiti da marne argillose grigio-biancastre in superficie.


E molto infatti del segreto di Cannubi è nei suoi suoli unici, formatisi circa 10 milioni di anni fa, che ad un esame fisico rivelano un’elevata quantità di sabbia fine (elemento fondamentale di fertilità e scioltezza del terreno), associata ad un elevato tenore di calcare con importanti tracce di ossido di magnesio e manganese che lo rendono adatto alla produzione di vini di distinguibile finezza. Inoltre l’esposizione quasi interamente a sud-sud/est e l’altitudine (la sommità della collina tocca quasi i 300 m slm e supera per altitudine anche la piazza principale di Barolo) costituiscono due ulteriori caratteristiche di eccellenza per la coltivazione della vite e la perfetta maturazione dei grappoli, specialmente quelli del Nebbiolo che vengono raccolti a ottobre inoltrato.

Vigneto Cannubi
Vigneto Cannubi

La parte storica della collina di Cannubi si estende per 15 ettari. Due di questi sono di proprietà della famiglia Damilano dal 1935, ai quali si sono aggiunti altri 8 ettari in affitto nel 2008 e che saranno gestiti dall’azienda almeno fino al 2027. Le viti hanno tutte un’età media tra 30 e 50 anni. E da questa preziosa porzione di collina, a sua volta suddivisa a livello agronomico dall’azienda in 20 micro aree, la famiglia Damilano produce e mette in bottiglia i suoi crus portabandiera: il Barolo Cannubi e il Barolo Riserva Cannubi “1752”.



Il primo, di cui abbiamo degustato l'annata 2014, è stato prodotto a partire dal millesimo 1997 e ad oggi risulta un Barolo di grande aderenza al millesimo, che come sappiamo, ha regalato vini diretti e dal "peso medio" proporzionato verso il basso. Il naso è fresco, preciso, ricco di sensazioni di viola e ciliegia che anticipano un sorso succoso, sapido e dai tannini ordinati. Se volete un Barolo dalla grande complessità lasciate stare, andate su altro, ma se invece ricercato un grande nebbiolo espressivo di un annata e di un territorio allora questo vino farà decisamente per voi.


Con il Barolo Riserva Cannubi “17522011 si cambia decisamente registro e non solo per l'annata ma anche, soprattutto, per la concezione che c'è dietro questo vino a cui storia inizia quando la famiglia Damilano decide di valorizzare ulteriormente il nucleo storico del suo vigneto Cannubi, situato nella parte più alta e centrale della collina. Si tratta di una piccola porzione piantata con viti di Nebbiolo che oggi hanno un’età tra i 30 e 50 anni. Il diradamento qui è ancora più severo e la resa di uva/ettaro arriva solo a 40 quintali. L’uva raccolta da queste poche viti fermenta in cantina per 20 giorni a temperatura controllata e, successivamente, rimane in contatto con la buccia per altri 30 giorni.
Il vino resta poi per 60 mesi in un’unica botte da 50 ettolitri e infine, per permettergli un affinamento ideale, riposa ulteriori 24 mesi in bottiglia. 
Questo 2011, degustato poco tempo fa, è pura espressione del Cannubi e, per i neofiti, rappresenta tutto ciò che ti puoi aspettare in un grande Barolo. Il naso, prezioso, è corroborato da intensi e complessi aromi di viola, rosa canina, lampone, ciliegia rossa, incenso, tabacco, eucalipto e caffè in grani. Al gusto sfoggia corpo e densità, serrato vigore rinforzato da un quadro sapido elegante e guizzante freschezza. Finale lunghissimo. Vino che cattura, vino che ammalia e incanta i sensi. Ancora giovane, darà il meglio di sé tra venti anni. 

Champagne De Venoge - Cuvée Louis XV 1995 è il vino della settimana di Garantito IGP

di Luciano Pignataro

Durante l'ultimo giro nello Champagne organizzato dal Comité Interprofessionnel du vin de Champagne (CIVC) abbiamo bevuto questo Champagne che stupisce, a distanza di tanti anni, non solo l'assoluta freschezza e il perlage energico e vivace, ma anche il frutto pieno e maturo, la spinta sapida e la chiusura davvero precisa ed entusiasmante


Un grande Champagne da uve pinot noir e chardonnay assemblate in parti uguali.

www.champagnedevenoge.com