Barbera d’Asti Valdevani 2015 Mauro Sebaste - Il VINerdì di Garantito IGP

Di Carlo Macchi


Dopo 120 barolo va bene tutto ma non altro vino. 
  
Poi Mauro mi racconta la storia della sua nuova Barbera d’Asti, apre la bottiglia e mi trovo sotto il naso la barbera più buona che abbia bevuto da anni. 
  
Frutto, profumi, freschezza tannino leggero, equilibrio, beva assoluta. Da vigne vecchissime un vino buonissimo.


www.maurosebaste.it 

A Macchiascandona il tortello maremmano più buono del mondo - Garantito IGP

Di Carlo Macchi
Scordatevi i locali con maître e camerieri che vi accompagnano al tavolo, scordatevi tavoli con mollettone e tre-tovaglie-tre una sopra all'altra dotati di apparecchiatura stellare, scordatevi menù elaborati scritti da mani sapienti, scordatevi carte dei vini che pesano un quintale, scordatevi pranzi con otto mini portate, preappetizer, benvenuto dello chef, post-post dessert.

Scordatevi tutto questo perché il ristorante Macchiascandona è nella rustica Maremma, in un posto non certo bello, in una costruzione non certo bella (eufemismo), però…
Però se riuscite a fare a meno di quanto detto all'inizio, se vi basta un'apparecchiatura-da-trattoria essenziale-ma-pulita, (purtroppo color rosa salmone, lo stesso delle tende), se riuscite a non digrignare i denti davanti a quadri alle pareti che meriterebbero di ardere all'inferno, insomma se non siete schiavi della stelleria michelin ma semplicemente amanti del buon cibo, allora potrete essere fra coloro che (fino a quando Mamma Milena non si rompe le scatole) avranno la possibilità di gustare i più buoni tortelli maremmani che essere umano possa desiderare.

Attenzione! Come dovrebbe essere fatto, per me, un tortello maremmano? Dovrebbe essere la sintesi suprema della finezza e della concretezza, il tutto raccolto in uno spazio di non meno di 10 cm x 10 cm. Un raviolo maremmano è composto da una sfoglia possibilmente sottile ma resistente e da un impasto di ricotta e spinaci amalgamati assieme da un pizzico di sale e di noce moscata. Questo quadrato irregolare viene condito con abbondante ragù di carne, che può essere anche di cinghiale.
Al ristorante Macchiascandona, che si trova in Maremma ma vicino al mare (dieci chilometri da Castiglione della Pescaia) fanno sicuramente il miglior raviolo maremmano che abbia mai mangiato in vita mia. Ognuno pesa più di un etto, è ripieno di ripieno sino quasi a scoppiare, eppure la sfoglia è finissima ma non cede: cede soltanto quando la metti in bocca, allora si scioglie come un burro.
Mamma Milena che di cognome fa Rabiti, li prepara da quasi cinquanta anni e la sua bravura andrebbe salvaguardata come i Panda, anche perché non fermandosi ai ravioli, anche l’acquacotta è di assoluto livello. In precedenza come non cadere sui classici crostini toscani oppure su qualcosa di sfizioso e saporito come le alici con le cipolline fresche.

Per secondo consiglierei il coniglio in tegame (in bianco, senza pomodoro) oppure l’agnello alla cacciatora, le costolette d’agnello alla brace o l’arista di maiale, magari accompagnata da fiori di zucca o altre verdure fritte alla perfezione, in modo da essere croccanti e saporite.
Come capite siamo tra piatti semplici e concreti, però la scelta delle materie prime ripaga sempre della “spartanità” del locale. Anche la carta dei vini, dove si trovano una ventina di buone etichette locali, per lo più Morellino di Scansano e Montecucco, è improntata alla semplicità, unita all’ottimo rapporto qualità prezzo.
Lo stesso validissimo rapporto lo avrete al momento del conto, visto che difficilmente, vino compreso, spenderete per un pasto completo più di 30-35 euro.
Ma un pasto completo potrebbe già essere il vostro piatto di tortelli, magari con una mezza porzione ulteriore come secondo.
Spesso, se non mi fermasse la poca saggezza rimasta, un piatto di tortelli della Milena li prenderei anche come dessert!

Ristorante Macchiascandona

Via Castiglionese snc, 58043 Castiglione della Pescaia (GR)
Telefono: 0564944127

Il sole è il suo corpo, il sale la sua anima: il Verdicchio dei Castelli di Jesi di La Staffa

Ormai, nonostante i suoi 25 anni, non è più una scoperta perchè già in tanti hanno scritto di lui. Stiamo parlando di Riccardo Baldi, anima e cuore de La Staffa, una piccola azienda famigliare che nella zona di Staffolo, nelle Marche, da qualche anno sta producendo un Verdicchio che sta facendo parlare di sè. In maniera positiva, ovviamente.



Sono andato a trovare Riccardo una domenica mattina di ottobre quando a Contrada Castelletta, piccola frazione di Staffolo, ancora tutti stanno dormendo o, al massimo, stanno facendo colazione con la radiolina accesa.



Riccardo, invece, è già lì che mi aspetta guardando le vigne che si trovano davanti la nuova cantina costruita grazie ai finanziamenti europei che gli hanno permesso di accollarsi un mutuo di "soli" trenta anni.

"Il verdicchio è stato tirato via già qualche giorno fa per cui rimane solo un po' di montepulciano per finire la vendemmia della quale, per ora, sono soddisfatto!" sono le sue prime parole appena lo raggiungo.

La sua storia, simile a quella di molti altri giovani vignaioli che ho conosciuto, inizia molti anni fa quando suo padre, in zona, acquista terreni e cantina per fare un po' di vino sia per la famiglia sia per avviare, se tutto va bene, una piccola attività commerciale. 
L'agricoltura, però, è dura e quando suo figlio finisce il liceo gli chiede, seppure giovanissimo, di aiutarlo in azienda altrimenti sarebbe stato difficile andare avanti. 
Riccardo tentenna, giustamente ha timore vista la poca esperienza, ma grazie all'aiuto dell'amico enologo Umberto Trombelli, a soli venti anni, getta il cuore oltre l'ostacolo e prende in mano l'attività di famiglia apportando, soprattutto a livello agronomico, cambiamenti rivoluzionari.

"La mia visione agricola ha rotto molto col passato perché, fin da subito, ho cominciato a gestire i vigneti in modo naturale ovvero, come dico sempre, faccio una agricoltura biologica di ispirazione biodinamica. Dico questo perché non uso preparati ma tutto il resto, compreso l'aspetto filosofico, l'ho fatto mio portandolo nelle vigne che gestisco a 360° grazie anche ai preziosi consigli che nel tempo mi hanno dato amici come Lucio Canestrari (Fattoria Coroncino) e Corrado Dottori (La Distesa)".



Oggi, La Staffa è una realtà agricola che può vantare oltre dieci ettari di vigneto dove la maggioranza, come facilmente si può pensare, è coltivato a verdicchio anche se non mancano piccoli impianti di trebbiano, montepulciano e lacrima. 

Le piante di verdicchio, suddivise in tante parcelle sparse nei dintorni di Staffolo, hanno età diverse visto che possiamo trovare vigne vecchie (1972 e 1974) e vigne molto più giovani (2013) alcune delle quali, in via sperimentale, sono state innestate a piede franco.

La piccola cantina di Riccardo è composta da vari ambienti dove trovano spazio vasche di acciaio, cemento e piccole botti di legno usate per il rosso.




La vinificazione dei suoi vini è molto semplice e tradizionale: viene usata una pressa aperta e si "lavora" il mosto non disdegnando il contatto con l'ossigeno. Il vino, prima di passare in bottiglia, viene affinato per qualche mese sulle fecce fini. Il Rubinia, montepulciano in purezza, rimane invece quattro anni in cantina prima di uscire sul mercato.



Ci sediamo nella piccola sala degustazione e cominciamo la degustazione iniziando dal Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore 2014 che, ancora giovanissimo, si presenta, vista l'annata, algido ed austero e con un sorso la cui caratteristica principale è rappresentata dalla grande sapidità del vino che, come vedremo, rappresenta un importante timbro di fabbrica de La Staffa. Riccardo, dopo avergli parlato di questa sensazione, ride e mi dice: "Contrada Castellaretta, dove siamo, è il costone opposto al Salmagina, una valle storica qua a Staffolo che grazie alla presenza nei suoli di sorgive salmastre dona sempre sensazioni saline ai vini di queste terre". Nonem omen.



Il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore 2013 deriva da una annata decisamente diversa rispetto alla precedente visto che il caldo ha giocato un ruolo fondamentale fornendo al vino la struttura tipica del Verdicchio di Staffolo. Finale di grande equilibrio e carattere la cui sapidità, rispetto alla 2014, risulta ancora più evidente e sfrontata.



Il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore 2010 è un giano bifronte un po' birichino perché se è vero che ha un olfatto "maturo" caratterizzato da note di idrocarburo e frutta gialla polposa, senza dubbio c'è anche la certezza che quando lo bevi ti rinvigorisce l'anima con la sua vibrante giovanezza tutta sale e acidità. Bellissimo vino che potrà dare in futuro ancora molto.



Riccardo porta in tavola il Cru aziendale ovvero il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore "Rincrocca" che degustiamo nelle annate 2013 e 2012. Il vino deriva dalle uve di un unico vigneto del 1972 situato poco distante dalla cantina che, a detta dello stesso Baldi, vanta la migliore esposizione della zona generando acini particolarmente grossi e compatti. Rispetto al "base" vinificato in accaio, questo Verdicchio affina per circa un anno in vasche di cemento e altri sei mesi in bottiglia prima di essere commercializzato. 



Rincrocca 2013 l'ho definito come una stella che sta per esplodere visto che, causa gioventù, ha un potenziale ancora inespresso. Per ora è compresso nelle sue sensazioni di frutta gialla, anice, erbe aromatiche e sensazioni salmastre. Sorso austero ma di grande struttura e persistenza.



Rincrocca 2012 è più espresso ed è una esplosione di agrumi, fiori bianchi e salgemma. Berlo è un vero piacere, Riccardo è riuscito infatti a fornire al vino una fervida armonia incalzata senza soluzione di continuità da una spinta minerale che rende questo Cru davvero estroverso. Evolverà e io non sarò più su questa terra...


Riccardo Baldi - Foto: www.matogvinnett.no

Lasciamo Riccardo tre ore dopo con la convinzione che sto ragazzo farà ancora tanta strada. Basterà seguire le sue orme ma, attenzione, il Baldi va velocissimo!!


Malvasia delle Lipari Passito 2012 – Lantieri Punta dell’Ufala. Il VINerdì di Garantito IGP

Di Roberto Giuliani


Ci vuole del coraggio per fare un vino così, dedizione, la vigna trattata come una figlia. Non ti ripaga, questo è certo, poche migliaia di bottiglie, lei lo fa per puro amore, ogni anno è una dura battaglia, un bene prezioso che non ha eguali, il Vulcano dolce e profondo di Paola Lantieri…

Montepulciano d'Abruzzo Villa Gemma 1993 Masciarelli: oltre ogni tempo - Garantito IGP

Di Roberto Giuliani

Ho avuto la fortuna di conoscere Gianni Masciarelli nel lontano 1999, in occasione di un importante evento romano, ricordo molto bene l'energia che trapelava dai suoi occhi, la voglia inarrestabile di raggiungere obiettivi da chiunque altro inimmaginabili. Si può dire tutto di lui, ma non certo che mancasse di volontà e di idee, è stato sicuramente uno degli uomini cardine dell'enologia moderna, la sua azienda di S. Martino sulla Marrucina (CH) è riuscita a portare alla ribalta internazionale un vino di cui ben pochi sapevano, e quello che sapevano era spesso confuso, del resto il suo Montepulciano era solo e soltanto suo, concepito secondo la sua personalissima visione.


Così scrissi di lui quell'anno:

"Il suo sogno è sempre stato quello di fare il vino più emozionante del mondo; può sembrare un'aspirazione un po' eccessiva e irraggiungibile, ma lui è fatto così, è esagerato nei sogni, nelle aspirazioni, nella cura meticolosa con la quale gestisce la sua azienda, nell'impegno estenuante che mette in vigna ed in cantina, seguendo in prima persona ogni singolo passaggio, fino all'imbottigliamento e alla spedizione. Gli uomini che lavorano con lui, collaboratori, vignaioli, cantinieri, sono rimasti inevitabilmente contagiati e trasportati in quest'enfasi, quest'energia vitale che col tempo ha finito per trasferirsi inevitabilmente (e con nostra grande gioia) nei suoi vini.
Ed il suo grande amico e maestro, Edoardo Valentini, il "folle" che ha creduto nel Montepulciano e nel Trebbiano, vitigni considerati senza speranza persino dagli enologi più esperti e blasonati, gli ha passato in qualche modo la sua esperienza e quella stessa carica che in tutti questi anni gli hanno consentito di diventare un mito, non solo in Abruzzo, ma in tutta la penisola. L'intento di Masciarelli era quello di valorizzare al massimo queste uve e dimostrare che, se si studia seriamente il terreno su cui è giusto impiantare, se si opera una selezione clonale accurata, se si dà realmente il tempo alla natura di consentire a queste piante di acclimatarsi (e ci vogliono almeno vent'anni!), soltanto allora si potranno ottenere dei risultati veri, non dettati dal caso, ma dalla grande esperienza maturata, dalla capacità di sapere interpretare il vitigno, l'annata e tutte le possibili varianti che si presentano durante il ciclo riproduttivo delle piante.
E' così che si arriva a produrre i vini "pensati", senza scorciatoie, senza trucchetti, senza ragionare in termini di business. E per fare questo ci vuole un amore viscerale per la propria terra, un grande rispetto per la natura ed una forza di volontà incrollabile. Tutto questo è Gianni Masciarelli, che ci sta regalando ormai ogni anno, senza sbagliare un colpo, degli autentici gioielli enologici".

Sono passati quasi 8 anni dalla sua prematura scomparsa, aveva solo 53 anni, ma l'azienda continua ad andare alla grande grazie anche alla dedizione e bravura di Marina Cvetic, sua giovane sposa che a soli 20 anni è divenuta direttore commerciale e dalla morte di Gianni, pur madre di tre figli, è riuscita non solo a mantenere in piedi un piccolo impero, ma addirittura a dargli equilibrio, continuità. Oggi l'azienda dispone di oltre 300 ettari suddivisi fra le quattro province abruzzesi e copre i mercati di oltre 50 Paesi.
Quello di aprire il Villa Gemma 1993 e raccontarvelo è stato un pensiero maturato dopo giorni e giorni, ogni volta rimandavo, prendevo tempo, anche perché questa era l'ultima bottiglia a mia disposizione di quel millesimo. Alla fine mi sono detto "il vino è fatto per essere bevuto", 23 anni non sono pochi, perché rischiare di trovarla rovinata? Ma figurati! Come poteva succedere? A meno di un tappo bastardo, difficilmente questo vino gelosamente custodito nella mia cantinetta climatizzata poteva rovinarsi, tanta è la materia che lo ha forgiato.


La prima cosa che mi ha colpito è stato il colore, certamente granato, ma di una intensità e concentrazione ancora potente, non c'era verso che la luce lo attraversasse. Ovviamente gli ho dato il tempo di ossigenarsi, è rimasto nel calice parecchi minuti, durante i quali percepivo continui movimenti e mutamenti: i primi minuti le note terziarie e il goudron ne hanno marcato il ritmo, ma poi si è via via aperto, rinfrescandosi e ringiovanendosi, rivelando ancora una spinta fruttata matura ma non ossidata, l'amarena, la mora, la prugna in confettura, cacao, pepe, sottobosco, fogliame umido, pelle conciata, foglia di tabacco e una nota straordinariamente balsamica e mentolata che ne suggellava l'ancora notevole vitalità.

Una volta assaggiato non ho avuto più dubbi, il vino stava meravigliosamente, quella struttura e alcolicità, la concentrazione di materia, tutto ha trovato una perfetta armonia, restituendo un vino di straordinaria integrità e bellezza.
Il bello del Villa Gemma sta proprio in questo, a parità di potenza e profondità, solo un grande Barolo può reggere tanta massa per oltre vent'anni senza appesantirsi, perdere grinta, al contrario è un esempio fulgido di una visione adulta, matura, saggia, ma ancora maledettamente giovane. Un grandissimo vino, avercene ancora...


Quel che so sul Ciliegiolo e relative interpretazioni

Lo confesso, fino a pochi giorni fa non mi potevo considerare un grande bevitore di Ciliegiolo che consideravo un vino abbastanza marginale visto le passate esperienze degustative.

L'invito dell'Associazione Produttori Ciliegiolo di Narni per partecipare alla seconda edizione di Ciliegiolo d'Italia è stata, perciò, un'occasione davvero ghiotta per capire davvero se con questo vitigno/vino io possa mai avere il giusto feeling.


Narni - Foto: Andrea Federici

Quindici giorni fa, pertanto, io e il Ciliegiolo ci siamo nuovamente messi alla prova, l'uno contro l'altro, e dopo due giorni passati nella splendida Narni (Terni), tra banchi di assaggio e seminari, finalmente abbiamo avuto modo di conoscerci meglio e, tra una litigata e l'altra, così come accade nei rapporti interpersonali, probabilmente da questa relazione contrastata è nata una passione che, se ben coltivata, sfocerà in un amore un po' folle che certamente mi porterà a rivedere la futura composizione della mia cantina personale.



Sul mio fido Moleskine ho preso stavolta pochi ma importanti appunti che, un po' alla rinfusa, cercherò di riportare sul blog con la speranza che, unendo tutti i punti, riesca a disegnare alla fine un profilo abbastanza completo del Ciliegiolo e di tutte le sue declinazioni. 

Ecco, punto per punto, tutto ciò che ho scoperto dove aver degustato oltre 60 campioni:

  • il ciliegiolo, come vitigno, è tipico dell'Italia centrale e sembra sia stato importato nel nostro Paese dalla Spagna. Studi recenti sul suo DNA lo mettono in stretta parentela col sangiovese del quale, addirittura, sarebbe uno dei genitori. In particolare tali studi tendono ad equiparare il ciliegiolo con l'aglianicone;
  • il ciliegiolo è presente a Narni e Comuni limitrofi fin dal Medioevo;
  • tradizionalmente è stato sempre considerato un vino da taglio;
  • il suo nome, come facile pensare, deriva dal suo colore rosso rubino e dal caratteristico aroma di ciliegia;

Foto: Andrea Federici

  • il ciliegiolo è stato spesso usato, soprattutto in Toscana, per produrre vino novello;
  • come scrive giustamente Giampaolo Gravina, il Ciliegiolo non è un rosso dal grande peso estrattivo. Se cercate i pesi massimi dovete rivolgervi altrove;
  • se le terre di elezione del vitigno solo Umbria e Maremma Toscana, ho trovato ciliegiolo piantato e prodotto anche in Lombardia, Liguria, Marche, Lazio e Puglia;
  • se deriva da zone scarsamente vocate e vinificato in maniera poco attenta, il ciliegiolo dà origine a rossi banali che ricordano, guarda un po', proprio il profilo dei vini novelli caratterizzati da un aroma poco complesso di frutta rossa e da un aspetto gustativo abbastanza "sfuggente";
  • del Ciliegiolo in purezza, se fatto bene, si apprezza la sua fragranza, la sua schiettezza e la sua succosità. Non chiedetegli grande complessità. Il nebbiolo lo trovate da altri parti.
  • il Ciliegiolo è dotato di scarso tannino e forse, proprio per questo, ha una beva che può toccare vette esaltanti!
  • per la sua delicatezza ama probabilmente l'acciaio o il legno grande. La barrique è invasiva e lo marca troppo anche se gestita al meglio.
  • a Narni e dintorni il Ciliegiolo è generalmente dotato di maggiore finezza rispetto a quello proveniente dalla Maremma dove risulta invece più caldo e rotondo;
  • dei 60 campioni degustati avrei comprato solo il 10%;
  • la strada per produrre grande Ciliegiolo è ancora in salita anche se, come vedremo successivamente, ci sono vignaioli che stanno tracciando la via maestra della qualità e dell'eleganza;

Foto: Andrea Federici
  • si può produrre un ciliegiolo interessante anche in Val Camonica;
  • le espressioni del Ciliegiolo in rosato sono ancora pochissime (4 campioni su 60) ma i risultati sono molto incoraggianti. Perchè non insistere su questa via?
  • il Ciliegiolo non mi convince ancora nella sua evoluzione temporale. Tranne rarissime eccezioni, dopo 4/5 anni ho trovato vini già in forte parabola discendente. Ad oggi, pertanto, si può asserire che il Ciliegiolo è un vino di pronta beva;
  • soffre le annate calde;
  • anche sui prezzi di vendita del vino c'è grande variabilità ovvero si passa da 8 euro fino ad arrivare ai 20 euro per una bottiglia. Il prezzo giusto per i vini migliori, forse, è a metà o poco più.


Dei tanti vini degustati sia in sala stampa che nei seminari condotti egregiamente da Fabio Pracchia, Gianmpaolo Gravina, Antonio Boco e Giampiero Pulcini vorrei segnalare i seguenti Ciliegiolo:

Leonardo Bussoletti - "Brecciaro" Ciliegiolo di Narni IGT 2014: Bussoletti oltre ad essere il presidente dell'Associazione Produttori Ciliegiolo di Narni è anche, a mio modesto parere, il vignaiolo che sta cercando di valorizzare al meglio questo vitigno anche attraverso una recente mappatura dei vecchi vigneti aziendali dai quali, in collaborazione con il prof. Valenti dell'Università di Siena, sono stati individuati circa 30 cloni di ciliegiolo a loro volta studiati per portare avanti una selezione clonale e massale. Il Brecciaro, il cui nome deriva dal terreno sassoso dove sono piantate le vigne, è un rosso luminoso, sanguigno, che punta sulla freschezza fruttata e su una verve floreale e balsamica che dona personalità aromatica. Sorso succoso, scattante e dotato di spinta sapida. Grandissima beva.

Foto: Andrea Federici

Antonio Camillo - "Il Principio" Maremma Toscana Ciliegiolo DOC 2015: dopo essere stato il braccio destro di Giampaolo Paglia a Poggio Argentiera, Camillo si è messo in proprio e ha iniziato a volare con le proprie ali. Il Principio è uno dei due ciliegiolo prodotti da questo bravo vignaiolo (l'altro è il Cru Vigna Vallerana Alta) che in maniera molto schietta e diretta con questo vino riesce ad interpretare il territorio della Maremma in maniera esemplare. E' un ciliegiolo dotato di struttura e carattere ma al tempo stesso si presenta scorrevole ed equilibrato. Un vino bandiera, senza compromessi, che ha ricevuto durante la manifestazione il premio “CILIEGIOLO: UN PICCOLO GRANDE ROSSO, A BRIGLIA SCIOLTA” alla memoria di DANTE CILIANIcaporedattore della redazione ternana de Il Messaggero e presidente dell’ordine dei giornalisti dell’Umbria prematuramente scomparso lo scorso settembre.


Antonio Camillo - Foto: Andrea  Federici

Fontesecca - Ciliegiolo IGT Umbria 2010: Paolo Bolla, vignaiolo con la passione per il mare e la vela, è di origine veneta e nel 2006, dopo aver acquistato un podere a Città della Pieve comincia a produrre con metodi naturali vini da vitigni autoctoni tra i quali spicca questo ciliegiolo che, durante il seminario condotto da Gravina, ha spiccato per personalità ed integrità e per un profilo olfattivo molto particolare dove ritrovavo sensazioni quasi marine di iodio e alghe. Sorso intenso, fresco e dalla lunga scia salata. P.s: l'annata 2014 dello stesso vino invece mi ha un po' deluso visto che risultava troppo "ridotta" per i miei gusti.

Foto: Andrea Federici

Maccario Dringenberg - Rossese di Dolceacqua Superiore Posaù “Biamonti” 2014 - Il VINerdì di Garantito IGP


Da vecchie vigne poste nella parte superiore del vigneto Posaù, è un vino col quale Giovanna Maccario trova la quadratura del cerchio attorno l’equilibrio e la piacevolezza assoluta del Rossese

Passato, presente e futuro del'Est! Est!! Est!!! di Montefiascone

L'Est!Est!!Est!!! di Montefiascone pochi giorni fa ha festeggiato, col neonato Consorzio di Tutela, i suoi primi 50 anni e l'evento, grazie alla partecipazione di politici, produttori e giornalisti, è servito a fare il punto sullo stato di salute di questa storica denominazione del Lazio i cui natali si fanno risalire al 1966 quando, subito dopo la Vernaccia di San Gimignano, viene riconosciuta DOC (nello stesso anno, ma a seguire, anche l'Ischia e il Frascati diventano denominazioni ad origine controllata).


La domanda che tutti, ma proprio tutti si facevano durante il convegno svoltosi nella storica Sala Innocenzo III della Rocca dei Papi di Montefiascone era la seguente: ma questo vino è buono e concorrenziale oppure no?

Fortunatamente la risposta data, soprattutto dagli stessi produttori che per l'occasione erano rappresentati da Riccardo Cotarella (Falesco), è stata realistica ovvero l'Est!Est!!Est!!! di Montefiascone non gode di ottima salute sia per la qualità media del prodotto sia per la politica dei prezzi di vendita che di certo non forniscono lustro a questa DOC che spesso la ritroviamo nei supermercati tra le offerte del mese assieme ad altri vini di dubbio pregio.

Il lago di Bolsena

Forse, dopo 50 anni, si è capito che il medico pietoso fa la ferita infetta e, a ben vedere, la svolta, forse definitiva, gli stessi produttori aderenti al Consorzio (Antica Cantina Leonardi, Bigi, Cantina di Montefiascone, Cantina Stefanonu, Falesco, Mazziotti, Villa Puri) la possono ricercare nello stesso disciplinare di produzione che con piccole ma sostanziali modifiche potrebbe riportare in vita un vino che, visto il terroir di appartenenza, non avrebbe da invidiare nulla agli altri grandi bianchi italiani.

Spulciando un po' tra il regolamento di produzione dell''Est!Est!!Est!!! di Montefiascone la prima cosa che salta all'occhio è rappresentata dalla base ampelografica del vino che è frutto di un blend di trebbiano toscano, localmente detto procanico dal 50% al 65%, trebbiano giallo, localmente detto rossetto dal 25 al 40% e malvasia bianca lunga e/o malvasia del Lazio dal 10 al 20%. In questo ambito siamo proprio sicuri che queste percentuali e questi vitigni diano il massimo valore aggiunto al vino? Attilio Scienza, ad esempio, anch'esso intervenuto al convegno, non ne era sicurissimo e ha chiesto ai vignaioli presenti di selezionare sempre di più i vitigni migliori puntando, ad esempio, sulle caratteristiche del rossetto che ultimamente, vinificato da solo, ha prodotto risultati eccellenti i quali vanno presi sicuramente in considerazione per una eventuale modifica dell'articolo 2 del disciplinare (base ampelografica).

Il convegno con Cotarella

A mio modesto parere, se di svolta qualitativa si deve parlare, le modifiche più urgenti andrebbero fatte senza dubbio all'interno dell'articolo 4 del disciplinare (Norme per la viticoltura) che ad oggi recita così:

Est! Est!! Est!!! di Montefiascone: produzione uva tonn/ettaro 13,00; titolo alcolometrico volumico naturale minimo: 10,00.

Est! Est!! Est!!! di Montefiascone Classico e Spumante: produzione uva tonn/ettaro: 11,00; titolo alcolometrico volumico naturale minimo: 10,50.

Nelle annate particolarmente favorevoli i quantitativi di uve destinate alla produzione dei vini a denominazione di origine controllata «Est! Est!! Est!!! di Montefiascone» nelle diverse tipologie previste, devono essere riportati nei limiti di cui sopra, attraverso un'accurata cernita delle uve, purché la produzione globale non superi del 20% i limiti medesimi, fermi restando i limiti resa uva/vino per i quantitativi di cui trattasi.

Siamo davvero sicuri, ma proprio sicuri sicuri, che una resa per ettaro di questo tipo, che genera conseguentemente livelli di alcol risibili, quasi da birra, sia adatta ad un vino di qualità? Non dico di dimezzare ma già ridurre le quantità/ettaro del 20/25% garantirebbero sicuramente un prodotto di maggiore pregio e sostanza con conseguente allineamento dei prezzi che oggi, lo ripeto, sono abbastanza simili a quelli di un buon vino da tavola.


Cari amici vignaioli, il futuro dell'Est!Est!!Est!!! di Montefiascone è nelle vostre mani e a nulla serviranno le sbandierate strategie di alleanza e comunicazione se poi il vino non è all'altezza del vostro straordinario territorio che, lo ricordo ancora, si sviluppa attorno al vulcanico lago di Bolsena la cui influenza climatica, caratterizzata da forti escursioni termiche tra giorno e notte, è garanzia di uve ben mature e ricche di profumi e sapori.


Perchè non sfruttare questo tesoro di cui vi circondate ogni giorno? Questo percorso verso l'eccellenza è ancora duro ma se anche Attilio Scienza e Carlo Hausmann (Assessore Agricoltura Regione Lazio) vi spronano a migliorare le tecniche produttive e a lavorare sul concetto, ancora lontano, di zonazione, significa che è tempo di cambiare e rimboccarsi le maniche evitando, come ha sostenuto anche Daniele Cernilli, di adagiarsi troppo sulla leggenda di Defuk** che non dovrebbe essere l'unico volano di vendita per l'Est!Est!!Est!!! di Montefiascone.

Un grande vino da queste parte si produceva (forse) ai tempi di Enrico V di Germania (1111 d.C.) e si deve continuare a farlo anche ai giorni nostri. Ora o mai più.

Monteverro: la linea sottile che collega Capalbio a Bordeaux

La scusa era quella di intervistare Michel Rolland, uno dei consulenti dell'azienda, ma in realtà il mio viaggio fino a Cabalbio, Maremma Toscana, aveva come unico scopo quello di placare la mia grande curiosità sull'azienda Monteverro di cui in molti mi aveva parlato in passato in modo entusiastico.


E' un a bella mattina di primavera quando, oltrepassando il grande cancello di entrata, veniamo accolti da Georg Weber e sua moglie Julia che, sorridenti e un filo emozionati, ci aspettano ai piedi di una scalinata dove fa bella mostra di sé la statua di un cinghiale, re incontrastato della Maremma, la cui presenza è così tenace in questo territorio da avere dato il nome a Monteverro, dove “verro” da queste parti è sinonimo di cinghiale maschio.

 


L'azienda, di recente costituzione, è nata solo nel 2003 quando Georg Weber, tedesco di Monaco di Baviera e discendente di una importante famiglia dedita alla commercializzazione di articoli da giardino, decide di investire in questo delizioso angolo di Toscana con l'intento di perseguire il suo sogno da wine lover ovvero ricreare nel nostro Paese vini che potessero competere con i grandi Bordeaux che, quando era studente Mba in Svizzera, gli rapirono cuore e anima. Georg, incoraggiato dalla sua famiglia, cominciò pertanto ad effettuare tutta una serie di analisi e valutazioni tecniche dei migliori terroir del mondo, da Bordeaux fino alla Napa Valley passando per Australia e Bolgheri per cercare il posto perfetto che alla fine, dopo tre anni di intenso lavoro preliminare, prese le forme dell'areale di Capalbio perchè, come ama spesso ripetere, a parità di condizioni ha preferito scegliere un territorio ancora abbastanza incontaminato dove iniziare da zero una nuova avventura.

Julia e Georg Weber - Foto:maremma-magazine.it

Con Georg e sua moglie montiamo sul fuoristrada e andiamo a fare un giro rapido di tutta la Tenuta che attualmente si estende per 50 ettari ad un’altitudine sul livello del mare che dai 30 metri sale dolcemente fino agli 80. Siamo solo a cinque chilometri dal Tirreno, all’orizzonte si staglia verso ovest la grande sagoma del Monte Argentario, mentre a sud-est è pianura, ultima propaggine di Toscana al confine con il Lazio. Tutto intorno olivi, seminativi macchia mediterranea e anche un delizioso e romantico laghetto, seminascosto dagli alberi a basso fusto, che permette di irrigare i vigneti in caso di siccità.


Oggi Georg e Julia gestiscono circa 27 ettari di vigne, tutte accorpate tra i 30 e i 70 metri s.l.m., dove prevale il Cabernet Sauvignon e, a seguire, Cabernet Franc, Merlot, Syrah, Grenache e Petit Verdot e Chardonnay. Un sistema di drenaggio integrato nella vigna in fase di impianto permette al terreno di liberarsi delle acque superflue, uno dei problemi che spesso interessa i suoli argillosi nella media profondità, rischiando di alterare lo sviluppo naturale della pianta.
Alla cura del vigneto ci pensano Michel Duclos, uno dei grandi esperti di potatura, e Lydia e Claude Bourguignon, nomi di riferimento nel mondo dell’agricoltura consapevole che a Monteverro, mi confida Georg, prenderà a breve la strada del biologico certificato.


Terminiamo il giro delle vigne e, dopo aver parcheggiato il fuoristrada all'esterno di un edificio parzialmente interrato e in linea con l'ambiente circostante, iniziamo il giro della cantina che parte con la scoperta della zona di raccolta delle uve che dopo la vendemmia, che inizia generalmente ad agosto con lo chardonay, sono sottoposte a raffreddamento e, successivamente, poste su due tavoli di cernita nell’ampio corridoio che porta alla tinaia, in cui sono presenti 45 vasche di fermentazione da 50 ettolitri ciascuna dove ogni singolo appezzamento viene suddiviso in micro parcelle secondo il grado di maturazione delle uve e delle loro diverse caratteristiche organolettiche, che a loro volta dipendono dalle differenze pur relativamente sensibili del terreno. 


Al termine della fermentazione, svolta tramite l'uso di lieviti indigeni e attraverso l'ausilio anche barrique aperte, il vino, attraverso il principio di gravità,  passa per caduta all'interno della maestosa cantina di maturazione dove sono presenti 500 barrique e due grandi serbatoi ovoidali in cemento che nel 2010 Matthieu Taunay, il giovane enologo aziendale con studi in Borgogna e Champagne, ha voluto acquistare per conservare freschezza e finezza del frutto del Syrah e del Grenache destinati al Tinata nonché dello Chardonnay. 


Giriamo un po' per la cantina, degustiamo i vari vini in affinamento direttamente dalle barrique, e alla fine ci accorgiamo che alle nostre spalle si apre una grande finestra con affaccio sulla sala di degustazione aziendale dove tutto il team di consulenti enologi di Monteverro, composto oltre che da Matthieu Taunay anche da Michel Rolland e Jean Hoefliger, sta lavorando ai tagli dei vari vini rossi dell'azienda che ben presto andremo a degustare assieme ai due bianchi a base di vermentino e chardonnay.


Passano dieci minuti e con Georg raggiungiamo questi guru dell'enologia mondiale che, terminato il loro lavoro da alchimisti, ci aspettano per degustare tutti assieme le nuove annate dei vini di Monteverro la cui prima vendemmia risale al 2008.


Come preannunciato partiamo dai bianchi e il primo vino che ci viene versato è il Vermentino di Monteverro 2014. Figlio di una vinificazione in acciaio e di un affinamento per sei mesi sulle fecce è un vino estremamente fresco e diretto e dalla beva compulsiva grazie alla sua acidità "agrumata" che lo rende perfetto nell'accompagnamento di prodotti ittici. Noi, ad esempio, lo abbiamo abbinato alla frittura di calamari e ci stava benone!


Il Monteverro Chardonnay 2013 viene invece affinato per 14 mesi in barrique di rovere francese (50% della produzione con 40% di legno nuovo) mentre l'altra metà viene messa a riposare in cemento nei tipici contenitori a forma di uovo che abbiamo visto in precedenza in cantina. Lo stile di questo vino ricalca molti bianchi della Borgogna: naso giocato su aromi di frutta gialla matura, vaniglia e nocciola tostata mentre al palato di conferma di classe ed equilibrio con una netta nota marina che va a confondersi con suadenti note speziate ed affumicate. 


Passiamo al primo rosso della gamma che prende il nome di Terre di Monteverro che degustiamo nell'annata 2013 e 2012. Frutto di un blend di Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot, questo rosso viene fermentato in acciao e barrique e affinato per 20 mesi in legno piccolo di cui il 60% di primo passaggio. L'annata 2013 del Terre di Monteverro si caratterizza per una bella freschezza di base esaltata da aromi di macchia mediterranea e fiori rossi di campo. Al gusto è vibrante, teso e di buona sapidità. 


Il 2012, invece, si fa notare per la sua struttura e il suo stile maggiormente fruttato. Sorso caldo, di grande equilibrio e dotato di tannino finemente estratto che regge alla grande un finale pulito e di grande eleganza.


L'altro rosso prodotto da Georg è il Tinata, degustato sempre nelle annate 2013 e 2012, che rappresenta il frutto di un blend di Syrah (70%) e Grenache (30%) piantati all'interno di una piccola parcella di vigneto adiacente un bosco composto con al centro una vecchia quercia centenaria. L'uva, una volta pressata, viene fermentata in acciaio e barrique e il vino, una volta ottenuto, viene affinato 16 mesi in barrique di rovere francese per il 70% della produzione mentre per il restante 30% è prevista una maturazione in cemento all'interno degli ormai già visti contenitori a uovo. 


Il Tinata 2013 si caratterizza per la sua anima mediterranea e per un sorso contraddistinto da scorrevolezza e leggiadria  mentre il Tinata 2012, seguendo le stesse sorti del Terre di Monteverro pari annata, ha un corpo più imponente dove spezie nere, tabacco e erbe aromatiche definiscono un quadro aromatico molto coinvolgente. La bocca è avvolgente, il tannino rotondo e ben integrato e la freschezza e la sapidità del vino ben supportano un finale caldo e decisamente persistente. Piccola curiosità finale: questo vino è una dedica di Georg Weber a sua madre, Cristina detta Tina, grande appassionata di Syrah.


Mentre scambio qualche parere con Rolland sui vini finora bevuti, sperando che il mio francese sia meglio del suo inglese, arriva in degustazione il Monteverro, il vino bandiera dell'azienda che, in linea più che teorica, rappresenta quel vino in stile bordolese che Georf aveva in mente di produrre fin da tempi del suo master in Svizzera. Questo rosso, frutto di un'abile cuvée di uve Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot, rigorosamente selezionate in fase di vendemmia e provenienti dalle migliori parcelle della tenuta. La fermentazione avviene in acciaio inox e barrique e il vino, una volta ottenuto, viene affinato per 24 mesi in legno piccolo di rovere francese di cui l'80% è di primo passaggio. 


Il Monteverro 2013 è decisamente accattivante grazie alle sensazioni di ciliegia nera, confettura di more, cardamomo, china e sottobosco che vanno a disegnare un corredo olfattivo di morbidezza e soavità che riscontro anche bevendo questo vino che avendo una grana tannica di tutto rispetto, avvolge il palato come una sciarpa calda e carezzevole. La persistenza finale è lunghissima e speziata.


Il Monteverro 2012 ha invece il passo più scattante e una armonia strutturale decisamente sopra la media. Niente muscoli perciò, ma tanta eleganza e freschezza grazie ad una sapiente gestione del legno che regala suggestioni di spezie nere, erbe aromatiche, fiori secchi e lavanda mentre al sorso la preziosa e finissima intelaiatura tannica viene perfettamente orchestrata dalla squillante sapidità e dalla freschezza del vino che rende la beva assolutamente compulsiva.


Termino la visita a Monteverro con una bella intervista a Michel Rolland che potete leggere a questo link e con una promessa: rivederci tutti assieme almeno una volta l'anno per valutare la crescita qualitativa di questi vini che, pur non essendo alla portata di tutte le tasche, rappresentano sicuramente una eccellenza tutta italiana da esportare nel  mondo.



Prosit!