López de Heredia è un'esperienza di vita - Prima Parte


Fa freddo, nonostante sia una maledetta mattina di Agosto, il termometro della macchina segna 12° e la strada per Haro presenta tratti più autunnali che estivi. Ci siamo, il GPS sta implorandomi di svoltare ad Avenida de Vizcaya. Sono nel posto giusto, questa strada sembra un piccolo distretto vinicolo formato da Bodegas dalla grande tradizione visto che, una di seguito all’altra, sorgono Muga , La Rioja Alta, Roda, De Gomez Cruzado e, ovviamente, López de Heredia, la mia destinazione finale, forse il motivo recondito del nostro viaggio in Spagna. Arriviamo presto, sono le nove del mattino, c’è ancora calma piatta, i gruppi di enoturisti in pullman non sono ancora arrivati. 
Una voce, proveniente dall’ingresso degli uffici, mi scuote dal mio torpore mattutino:”Ola, sei Andrea?”

Il "Txori Toki"
Maria López de Heredia, indossa una grande sciarpa al collo ed una parannanza nera, mi stringe la mano sorridente, i suoi occhi sono modesti, orgogliosi e pieni d’amore per la sua Terra e il suo lavoro. Capisco subito che sono di fronte ad una grande donna ed incontrarla segnerà indelebilmente la mia storia personale, non solo in fatto di vino. 

Iniziamo a parlare della storia delle cantina: tradizione e passato sono presenti in ogni atomo della Bodega fondata nel 1877 da D. Rafael López de Heredia y Landeta, un lungimirante studente di enologia che, a soli venti anni, credette nelle potenzialità del terroir della Rioja grazie anche alle continue visite dei negociants francesi di Bordeaux che, a quei tempi, stavano cercando nuove fonti di approviggionamento visto che le loro uve erano stato distrutte dalla fillossera.

Don Rafael López de Heredia
Chissà se quella che oggi viene definita una vera e propria “cattedrale del vino” era l’idea originaria del fondatore, sta di fatto che attualmente la “moderna” Bodega si estende su una superficie di oltre 50.000 mq divisa tra edifici (19.718 mq) e cantine sotterranee lunghe fino a 200 metri e profonde oltre 15 metri.

Il piazzale d'entrata
Maria è impaziente di farci vedere il suo mondo e apre il primo grande, pesante, portone in legno della giornata. Superata la soglia sembra di entrare in una macchina del tempo grazie alla quale vieni sbalzato in un altro mondo, in un altro tempo, tutto sembra essere rimasto come una volta e ti ritrovi lontano da Ysios e dalla falsa esteticità di progetti nati solo per attrarre gli enoturisti beoni della Rioja.

Entriamo nella "Bodega Blondeau" pregni di un misticismo inaspettato. 

Questo luogo – mi confida Maria – è uno dei più antichi dell’edificio ed è utilizzato per la prima fermentazione dei nostri vini rossi. Il legno delle botti proviene direttamente dagli Stati Uniti e dalla Francia assieme a piccoli quantitativi da Spagna ed ex Yugoslavia. Questi grandi spazi che vedi – continua – permettono all’area fresca di girare libera. Così si mantiene fresco l’ambiente e si controllano naturalmente le alte temperature provocate dalla fermentazione. Noi qua non facciamo nulla, l’unica cosa tecnologica sono le luci..”. 


Scendiamo, giriamo angoli bui, entriamo ed usciamo da tetri accessi, il nostro Cicerone ci sta portando verso il cuore antico e pulsante della Bodega. Attorno a noi solo vecchie botti di vino di chissà quale anno scritte da chissàchi con un gessetto col quale si sono tracciate sigle indecifrabili per noi poveri umani. Respiriamo a pieni polmoni muffa e storia. 

L’ennesima porta ci conduce all’interno della “Bodega Nueva”, uno spazio cantina costruito tra il 1904 e il 1907 a partire da una buca di grandi dimensioni a cui è stato applicato un tetto di cemento armato sorretto da colonne dello stesso materiale. La "Bodega Nueva" divenne in quel periodo uno dei primi edifici in Spagna ad utilizzare cemento armato a fini civili.

Botti dappertutto nell'oscurità della cantina
Superiamo una mezza dozzina di umide gallerie e ci troviamo all’interno della "Bodega Vieja", un luogo magico, ascetico, dove anche un bambino comprenderebbe il significato della parola TRADIZIONE STORICA. File e file di vecchie bottiglie coperte da sana e utile muffa ci danno il benvenuto e quasi sembra di scorgere, tra le ombre, la sagoma di D. Pedro López de Heredia, terza generazione della famiglia, che per soddisfare impellenti esigenze di spazio sacrificò parte della volta a botte della vecchia cantina per avere un’area di invecchiamento per i vini migliori classificati “Gran Reservas”. Quando si dice lungimiranza…

"Vecchie" bottiglie di Tondonia nella Bodega Vieja
Le sorprese non sono finite perché, scuotendoci dal nostro stato di soggezione misto a profonda venerazione enologica, Maria ci conduce verso “El Calado”, un bellissimo tunnel del 1892 di quasi 200 metri scavato nella roccia arenaria i cui lavori, commissionati da D. Rafael López de Heredia y Landeta in persona, sono durati quasi 15 anni. La galleria, che attraversa tutta la collina sovrastante, arriva fino alle sponde del fiume Ebro e permette di impilare fino a cinque barrique che stazionano costantemente ad una temperatura di 12°.

El Calado
Non facciamo in tempo ad ammirare il “panorama” che Maria blocca ogni nostro impuro pensiero sul nascere sottolineando che ”…tutta quella muffa e quei ragni che vediamo sulle pareti sono utili per combattere le fastidiose falene”. “Ogni cosa – continua – dentro le nostre cantine è al posto giusto da oltre 130 anni, è un microuniverso che non abbiamo intenzione di modificare visto i risultati che otteniamo”.

Maria
La fine del tunnel ci conduce ad una porta che, una volta aperta, apre la vista sulle sponde dell’Ebro. “Laggiù c’è il nostro vigneto più importante, il Tondonia, risale al 1913-14 ed è stato piantato dal nostro fondatore che già a quel tempo aveva ben presente l’importanza di avere vigne proprie di qualità. 
Si trova all’interno di una depressione a forma di conchiglia (Tondonia deriva proprio dalla parola latina retondo) situata sulla riva destra del fiume e presenta un terreno argilloso sabbioso con alta percentuale di calcare. 
Attualmente si estende per  oltre 170 ettari e produce in media 800.000 quintali di uva distinta tra le varietà tempranillo, garnacho, graciano e mazuelo per i rossi, e viura e malvasia per i bianchi. Da questo vigneto si producono i nostri vini migliori! 
Andrea, dammi il tuo Moleskine che ti disegno come è fatto il Tondonia….” 

Le sponde sul fiume Ebro
Chiediamo dove sono gli altri vigneti dell’azienda e Maria, disegnando forme ellittiche nell’orizzonte, mi indica le zone dove trovano sede le vigne da cui derivano il Viña Bosconia, il Viña Cubillo e il Viña Gravonia
Laggiù – indicandomi una zona vicino alle sponde dell’Ebro – si trova la vigna El Bosque, 15 ettari piantati ad un’altitudine di 465 metri con esposizione sud. Il suolo è un misto di argilla e calcare e le viti hanno un’età di 40 anni. Viña Cubillas, invece, là trovi da quella parte, è un po’ distante dalla Bodega, circa 4 Km. Ha un’altitudine di 410 metri e si estende per circa 24 ettari piantati su suolo argillloso e calcareo e le vigne hanno circa 40 anni. 
Viña Zaconia, 24 ettari piantati esclusivamente a viura, si estende per 24 ettari e le vigne, che poggiano su un suolo estremamente povero e sassoso, ricco di calcare, hanno un’ età media di 45 anni. Il fatto di avere un terreno bianco aiuta moltissimo le uve bianche a maturare al punto giusto. Vieni qua che ti disegno anche questi vigneti…”.

Mercoledì la seconda parte di questo viaggio al centro del vino


Il vino di Triei, un patrimonio sardo da salvare


Non ne parla nessuno se non i giornali della Sardegna che ogni tanto amo leggere. 
Questo post, oggi, è dedicato al Comune di Triei, piccolo centro della Provincia dell'Ogliastra, che da secoli vanta nel suo areale vigneti leggendari (Cannonau, Vernaccino e Amantesu) visto che, nel 1600, il vino prodotto da questi parti veniva usato in Vaticano per la messa.
Oggi, dare una scossa ad un'economia locale depressa, il Comune metterà a disposizione una fetta del proprio territorio per rilanciare il proprio vino attraverso la creazione di un vigneto sperimentale gestito da una cooperativa sociale.

«Triei spiega il s
indaco Muggianu - ha una grande tradizione per il vino. Cannonau in particolar modo ma nel nostro territorio ci sono da sempre anche altri vitigni. Il vino che si produce in maggiore quantità è il nero che poi sarebbe il rosso. Ma viene prodotto anche il cosiddetto vino bianco che in realtà è poi un rosato, un vino dessert che in pasato veniva usato per la colazione, in campagna, a base di turreddu, che sarebbe il nostro pane carasau, e formaggio o salsicce». 

Panorama di Triei
Storicamente le zone migliori per la coltivazione della vite a Triei sono dislocate nelle colline che circondano il paese. Su tutte c’è però una località da dove arriva il meglio del vino made in Triei, si chiama Talavè e si trova nella zona adiacente il villaggio nuragico di Bau Nuragi. 

«In quella zona, che risale al 1000 Avanti Cristo - aggiunge il sindaco di Triei - sono state scoperte tracce di vite addomesticata e quindi di una attività vinicola. Alcuni studiosi, in Olanda, facendo delle analisi su alcuni cocci trovati a Bau Nuragi, nell’aria di Talavè, hanno scoperto che da quelle parti si coltivava la vite. Un’altra nota storica del nostro vino è stata scoperta dall’archeologo Sancez della Sovraintendenza di Cagliari che aveva effettuato degli scavi nel nostro territorio; negli archivi del Vaticano ha scoperto che il Talavè veniva portato al Papa. Una ricerca che è stata presentata per la prima volta al Vinitaly del 2005 a Verona. Ancora più avanti con la storia, da alcune ricerche nella Curia Vescovile di Lanusei, risulta che a Marsiglia, si vendeva il vino” Triei». 

«Adesso - conclude il primo cittadino - l’idea è quella di tornare a valorizzare il marchio del Talavè coltivando il vitigno nella zona classica. Il consiglio comunale ha dato l’assenso alla richiesta della cantina Ogliastra che vuole creare un vigneto nella zona. Si tratta di una quindicina di ettari». 

A questa gente e al loro coraggio non possiamo che fare i migliori in bocca al lupo! 

Sangiovese Purosangue a Roma: due giorni per rivendicare l'orgoglio autoctono del Rosso di Montalcino


Davide Bonucci, mente ed anima dell'Enoclub Siena, è riuscito in un sogno: portare a Roma tutti i principali produttori di sangiovese di Montalcino, tra cui il grande Biondi Santi, per rivendicare pubblicamente la grandezza del Rosso di Montalcino, un vino che, nonostante qualche scettico, deve rimanere 100% sangiovese per continuare a rimanere grande ed appetibile dal mercato. 

Quasi 50 sono i produttori invitati che, durante la due giorni, presenteranno vecchie e nuove annate di Rosso di Montalcino, dimostrando la grandezza e la capacità di invecchiamento di un vino finora ingiustamente poco considerato e mal comunicato. 

Durante i due giorni della rassegna ospitata a Villa Aldobrandeschi saranno poi proposti anche dei seminari di approfondimento e altri eventi speciali:

Nel pomeriggio di venerdì 27 gennaio, il primo seminario proporrà una degustazione verticale di introvabili Rosso di Montalcino prodotti negli anni '80 da Gianfranco Soldera, uno dei più prestigiosi e ricercati produttori di Montalcino; seguirà un secondo seminario con la degustazione comparativa di vini a base Sangiovese dalle principali zone vocate della Toscana. Al termine della giornata di assaggi è prevista una cena-incontro con i produttori, la stampa e gli appassionati.

Sabato 28 gennaio si terranno due seminari curati da Armando Castagno, critico di vino, cultore del Sangiovese, esperto di Montalcino e autorevole firma della rivista Bibenda. Alla mattina, una degustazione alla cieca di confronto tra Rosso di Montalcino e Village Bourgogne. Al pomeriggio, un approfondimento-degustazione attorno al concetto di zonazione, dei diversi terreni e quadranti presenti a Montalcino.

L'ingresso di 15,00 euro e garantisce sia l'accesso ai tavoli di assaggio che ad un light buffet di accompagnamento. La partecipazione ai seminari e alla cena, è possibile solo su prenotazione.

Percorsi di Vino sarà il blog ufficiale della manifestazione e seguirò in diretta tutti gli eventi con interviste esclusive. Previste polemiche....

Quando: 27 e 28 gennaio 2012 

Dove: Villa Aldobrandeschi, Via Aldobrandeschi 14/16

Info e prenotazioni: Davide Bonucci 331 10.78.464, info@sangiovesepurosangue.it

Orari: Venerdì 27 Gennaio 2012: 13.00 - 19.30 Sabato 28 Gennaio 2012: 10.00 - 19.00. Dedicato agli operatori: 27 Gennaio ore 10.30 - 13.00



Bersani beve birra artigianale all'Open Baladin di Roma


Spopola su Twitter la foto di Bersani che, solo e pensieroso, beve una birra in un pub. La foto è stata scattata da Luca Sappino, consigliere municipale di Sinistra e Libertà. Bersani era in un locale di Campo de’ Fiori a Roma. Il tweet con cui Sappino ha condiviso la foto recita: "Leader di grande partito del fu centrosinistra cerca compagni di bevute."


Ah, ovviamente il locale è l'Open Baladin di Roma. Chi indovina che birra ha preso?

Fonte: Tgcom

Questo vino sa di meteorite. Aggiornare, prego, l'elenco dei descrittori


Ai vari profumi che gli enologi attribuiscono al vino sta per aggiungersi il 'retrogusto meteorite'. Un produttore cileno, riferisce il sito di Discovery Channel, ha lanciato un cabernet sauvignon chiamato 'meteorito' che e' stato fatto invecchiare in botte con un frammento di un asteroide datato 4,5 miliardi di anni fa.
"Sono stato interessato al vino e all'astronomia per molti anni - spiega l'inventore del Meteorito, Ian Hutcheon - e volevo trovare un modo per combinare le due cose". Il frammento utilizzato, lungo circa 7 centimetri, e' stato donato da un collezionista statunitense, e proviene da un meteorite caduto nel deserto di Atacama circa 6 mila anni fa.

Ian Hutcheon con il suo vino
L'unico posto dove si puo' bere il vino 'spaziale' e' l'osservatorio astronomico Tagua Tagua, fondato dallo stesso Hutcheon, circa 100 chilometri a sud ovest di Santiago, anche se a detta del produttore una parte dei 10 mila litri prodotti verra' esportata: "L'idea di immergere un meteorite nel vino mi e' venuta per poter dare a tutti la possibilita' di toccare qualcosa che viene dallo spazio - spiega - il Cabernet risultante ha un profumo piu' deciso".

Alla prossima degustazione pubblica me ne esco con questo descrittore, dite che farò un figurone?

Fonte: Ansa
 Articolo tratto dal sito Ansa.it

Tenute Dettori - Renosu Bianco


 Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi
le tue calzette rosse
e l'innocenza sulle gote tue
due arance ancor piu' rosse
e la cantina buia dove noi
respiravamo piano
e le tue corse, l'eco dei tuoi no,(oh no)
mi stai facendo paura
Dove sei stata cosa hai fatto mai?
Una donna, donna, dimmi
cosa vuol dir sono una donna ormai....

Esiste la Canzone del Sole ed esistono anche i vini del sole. Uno di questi, a mio parere, è il Renosu Bianco (taglio di vermentino e moscato delle annate dal 2003 al 2007) prodotto da Tenute Dettori, azienda sarda gestita egregiamente da Alessandro che, da piccolo artigiano vignaiolo, porta avanti con grande orgoglio, nelle terre di Badde Nigolosu, la sua tradizionale filosofia produttiva priva di ogni condizionamento chimico e meccanico.

Alessandro Dettori Fonte:Cosaspreziosas.com
Il Renosu Bianco, già dal suo colore dorato intenso, ti riporta con la mente alla luce dell'alba d'Agosto mentre l'olfatto, con la sua complessità ed intensità, ti precipita dritto dentro un cesto di frutta gialla matura, un campo di fieno estivo, la macchia mediterranea, mentre le sensazioni di miele d'acacia mi ricordano le colazioni da bambino prima di andare al mare.

Anche in bocca, al sorso, il vino come una supernova esplode in tutta la sua carica aromatica (grazie alle caratteristiche del moscato) avvolgendo tutto ciò che incontra terminando la sua corsa, da cavallo di razza, solo dopo molti minuti la deglutizione. Non c'è pesantezza però in questo vino, credetemi, ma solo tanto equilibrio che, ovviamente, è giocato su toni molto alti.
Il prezzo del Renosu è davvero commovente per cui, se potete, cercatelo e fatemi sapere se diventerà anche il vostro vino del sole.

La chimica del Bordeaux


Continuando il discorso sui bordolesi proprio ieri ho letto su Teatro Naturale un interessante articolo sulla identificazione della molecola che caratterizza i vini di Bordeaux.
Ernesto Vania, sul sito, scrive che grazie all'Università di Bordeaux, all'Inra e all'Ecole Nationale d’Ingénieurs des Travaux Agricoles de Bordeaux si è potuta identificare la molecola che forse meglio di altre è associata ai vini bordolesi.

Fonte: Teatro Naturale
Si tratta dell'etil-2-idrossi-4-metilpentoato che sarebbe stato direttamente all'aroma di "mora fresca", che è stato isolato utilizzando la gas cromatografia-sensoriale olfattometria (GC-O) e la gas-cromatografia a due dimensioni(GC-GC-MS).
Prioritariamente è stato eseguito un frazionamento in HPLC di estratti di vino rosso su una colonna C18. 
Si è così arrivati alla produzione di quattro frazioni con aromi di more e frutta rossa, che sono stati poi analizzati mediante GC-O, GC-GC-MS e GC-MS.
Si sono quindi isolati 10 esteri, corrispondenti a descrittori di frutta rossa o mora, che sono stati caratterizzati con GC-MS.
L'etil 2-idrossi-4-metilpentoato (etil Leucate, EL) è stato identificato per la prima volta come un composto, presente nel vino, associato direttamente all'aroma di mora fresca. 

Sono anche state individuate le soglie di percezione. Incredibilmente la soglia di percezione più elevata, 900 mg/l, è relativa a vino dearomatizzato.
La soglia di percezione di 300 mg/l è invece stata individuata in una soluzione "vino simile" (alcol 12%, pH 3,5).
E' stato inoltre scoperto che l'etil-2-idrossi-4-metilpentoato può interagire, a livello aromatico, con l'etil butanato. 


Per capire tutto l'articolo ho dovuto rigiocare col Piccolo Chimico che, però, non mi ha dato soddisfazione sulla domanda della settimana: ma sti Bordeaux francesi, sono davvero così buoni ed eterni?

Château Haut-Bailly 1990: l'immortalità del Bordeaux la metto in dubbio!


C'è un un solo grande sbaglio che l'appassionato può fare: avere pregiudizi nei confronti di un vino, che siano negativi o, come in questo caso, positivi. 
Avete presente un amico che porta a cena uno Château Haut-Bailly 1990? Questa persona verrà visto come un mito dalla maggioranza degli ospiti che, grazie a lui, potranno condividere un'esperienza enoica unica ed inimitabile. 
Il vino francese è il vino francese, Bordeaux è Bordeaux, a prescindere da tutto e da tutti!

Fonte: http://www.taste-a-wine.com
Ma siamo sicuri che Bordeaux sia sempre sinonimo qualità a prescindere? Avere nel bicchiere lo Château Haut-Bailly 1990 di certo non aiuta a rispondere positivamente alla domanda. Purtroppo.
All'inizio parte dolce, caramelloso, mi ricorda l'odore della Charms ai frutti di bosco, solo col tempo i profumi diventano più dignitosi ed evolvono su note di tabacco da pipa, spezie scure, foglie secche macerate, fungo porcino, brodo.
La bocca è in linea col naso e dipinge di autunno il palato che conosce un tannino perfettamente fuso ma poco rinvigorito da una spinta acidità che stenta a far decollare la beva. Che dire, mi è sembrato un taglio bordolese già "scollinato" che non vale quello che costa, cioè oltre 100 euro. 

Non vorrei generalizzare ma, tranne poce eccezioni, ultimamente ho bevuto molti Bordeaux, anche importanti, con un'aspettativa media di vita molto bassa. Che esperienze avete avuto voi? Io un pò deluso lo sono...

Ah, ultima cosa: non dite nulla all'amico che lo ha portato a tavola...


Giuseppe "Bepi" Quintarelli ci ha lasciato


Che periodo del cavolo, troppi maestri stanno morendo lasciando eredità troppo difficili da raccogliere. Che la Terra ti sia lieve Bepi!

Fonte: http://www.winewatch.com
 

La migliore etichetta di vino al mondo è dell'Alpha Crucis Shiraz 2008


Vi piace l'etichetta? Non male vero? Sicuramente è piaciuta molto alla World Label Awards Association che nel 2011 l'ha proclamata la più bella di tutte al mondo all'interno di una competizione che ha visto rivaleggiare Vecchio e Nuovo Mondo.


L'Alpha Crucis, in particolare, è uno Shiraz australiano la cui etichetta rappresenta la Croce del Sud dove l'azienda è la più brillante delle stelle.
Spiegando la filosofia che ispira il design, i responsabili di Alpha Crucis sostengono che: "L'arco di ellisse o parziale parabolica sopra la parte superiore del marchio rispecchia la forma del cielo notturno celeste, con la costellazione della Croce del Sud identificata da una linea tratteggiata così come era riprodotta nelle mappe stellari del secolo scorso".


Simbolo dell'emisfero australe la Croce del Sud è formata da cinque stelle categorizzate in base alla loro luminosità. La stella più luminosa rappresenta la prima lettera del greco alfabeto - Alpha, abbreviato nelle mappe stellari con il simbolo α. Le successive lettere greche vengono applicati in ordine decrescente di luminosità - Beta (β), gamma (γ), Delta (δ) e epsilon (ε).
In questo caso, come possiamo vedere dalla foto sottostante, l'azienda vinicola rappresenterebbe la stella più luminosta della costellazione. 
Oggi anche lezione di astronomia, tiè! 

Fonte: Wikipedia
 

Il Merlot di Bele Casel dal 2002 al 2006


Fare riferimento a Bele Casel e parlare del loro Merlot e non del Prosecco a molte persone potrà suonare stonato ma vi posso assicurare che Luca Ferraro e la sua famiglia hanno puntato molto su questo vitigno che, come scritto sul sito internet, rappresenta una vera e propria sfida per tutti loro.

Noi abbiamo fatto una pazzia, abbiamo piantato merlot , vitigno tipico delle nostre zone, ma sempre maltrattato, facendo produrre alle vigne quantità d’uva assurde. Beh noi volevamo risollevare il nome di quest’uva. Impianti molto stretti, diradamenti spinti, vendemmia di uve ben mature e l’acquisto di botti grandi per non alterare la tipicità del nostro merlot.

Durante le ultime feste, approfittando della compagnia di un nutrito gruppo di amici appassionati, sono finalmente riuscito a degustare tutta la verticale del Merlot Bele Casel che da tanto, troppo tempo avevo in cantina. Cinque annate, dalla 2002 alla 2006, che fanno capire che da quelle parti si fa veramente sul serio anche con i rossi. 

Prima di iniziare, però, qualche dettaglio tecnico: le vigne sono state piantate a circa 200 metri s.l.m in zona Cornuda su terreni rossi, ricchi di ferro e tendenzialmente argillosi. Impianti fitti (2.5x1 metro) a cordone speronato. Resa max 40 q.li ettaro. Vendemmia manuale. In cantina tutta la fermentazione avviene a contatto con le bucce con un primo travaso in botte e poi battonage per i primi 4 o 5 mesi. Rimane in in botte grande per almeno 24 mesi, niente filtrazioni e solo una piccola aggiunta di solforosa prima dell'imbottigliamento. Affinamento di almeno un anno in bottiglia.

La bella foto di Rossella di Ma che ti sei mangiato?

Merlot 2002: il millesimo di per sè non aiuta certo il giovane vignaiolo che per la prima volta cerca di vinificare il suo merlot. Nonostante tutte le difficoltà del caso, esperienza in primis, nel bicchiere il vino, inizialmente chiuso, esce fuori abbastanza bene con sentori terziari di cuoio, fiori secchi, humus e un tratto ferroso che, come vedremo, rappresenterà una caratteristica che ci accompagnerà lungo tutta le degustazione. In bocca è esile, l'anna fredda si sente, cede un pò a centro bocca ma si riprende bene alla fine con una persistenza inaspettata.

Merlot 2003: da un'annata fredda ad una siccitosa, il caldo non dà tregua nemmeno da queste parti. A differenza del precedente bicchiere, in questo si sente una maggiore rotondità ed morbidezza, anche le sensazioni olfattive tendono più al fruttato (amarena) anche se, col tempo, la mineralità rossa fa di nuovo capolino. Bocca morbida, forse un filo di alcol in eccesso, ma sicuramente più ampia e meno cadente.


Merlot 2004: l'annata equilibrata (finalmente) si rispecchia nel vino che, in assenza di picchi, va dritto per la sua strada senza troppi fronzoli e, per la prima volta, si scopre elegante nelle sue note di spezie, frutta rossa a grappolo e sapida mineralità. In bocca è fine, fresco, piacevolmente sapido e fruttato e, nonostante ceda un pò nel finale, va giù che è un piacere.

Merlot 2005: rispetto al precedente è più scarico nel colore e presenta riflessi granato come se, rispetto al precedente, fosse più vecchio. Anche al naso la terziarizzazione degli elementi olfattivi è più netta visto che si percepiscono nette le note di fiori rossi da diario, frutta rossa essiccata, humus e un tocco di mineralità più nera che rossa. Bocca bilanciata, ampia, elegantemente austera. Piaciuto molto anche se avrà forse vita breve.

Merlot 2006: scarico nel colore (cambio vinificazione?) si presenta con caratteristiche molto simili al precedente anche se, rispetto alla 2005, trovo un tocco di ciccia in più rappresentato da note cioccolatose, macis e radici. In bocca è sempre lui, minerale, sapido, abbastanza equilibrato, dritto e teso con un finale che, se fosse più grintoso, darebbe al vino quel qualcosa in più da portarlo nell'olimpo dei migliori merlot italiani. 

Bele Casel è solo all'inizio della sua storia in rosso per cui non ho dubbi che Luca Ferraro possa migliorare ulteriormente questo merlot che, col tempo, l'esperienza e la passione di tutta la famiglia, arriverà a contendersi lo scettro di miglior vino dell'azienda assieme al loro ottimo Prosecco.

Luca Ferraro Fonte: madeinkitchen.tv

Brindisi bipartisan alle Maldive: Schifani, Rutelli e Casini vanno a Champagne


Per carità, ognuno è libero di fare ciò che vuole nella vita, però mentre le pensionate del mio quartiere lottano per arrivare a fine mese, c'è chi dovrebbe dare il buon esempio e non lo fa. Ma, poi, dico, brindare francese con uno Champagne da supermercato. Bavboni!!!


Chateauneuf du Pape Clos du Mont Olivet 1998



Ho acquistato questo vino alcuni anni fa durante la mia vacanza in Provenza e Valle del Rodano. Su consiglio di Mike Tommasi sono passato a trovare questa famiglia di vignaioli che, nonostante le dimensioni non certo da "piccoli" (hanno 28 ettari di vigneto sparsi in tutta la denominazione), mantengono inalterata una filosofia e una attività produttiva basata sulla tradizione, l'attesa e la grande qualità della loro materia prima più importante: l'uva granache (90% del loro vigneto totale con viti quasi centenarie). 

Durante la visita in cantina rimasi estasiato da tutta la loro produzione, in particolar modo da questo Chateauneuf du Pape che, pur non rappresentando il loro prodotto di punta chiamato La Cuvée du Papet, è per me quello che più di altri ha scritto nel suo DNA la mappa genetica del territorio. 

Lo Chateauneuf du Pape Clos du Mont Olivet 1998 (80% Grenache, 10% Syrah, 6% Mourvedre and 4% Cinsault,  Counoise, Vaccarese, Muscardin, Terret Noir, Picpoul Noir) appena versato nel bicchiere sprigiona tutto il suo carattere rodanesco emanando sbuffi di oliva nera in salamoia a cui seguono intensi ventagli aromatici di cappero, frutta nera di rovo, argilla, terra rossa, chiodi di garofano, goudron per poi trasformarsi, col passare del tempo, in un nettare totalmente mediterraneo con i suoi echi di alloro, origano, pomodoro secco, pepe. Quasi quasi ci condivo la mia pizza.
In bocca poi è eccezionale, dopo 13 anni vanta ancora un'acidità sferzante che riesce perfettamente ad equilibrare 14,5° alcolici supportando una struttura che il palato qualifica come velluto rosso. Dopo la deglutizione tutti i richiami alla macchia mediterranea ritornano come nebbia che stenta a dissolversi.
Non vi dico il prezzo della bottiglia altrimenti partono i TIR da Roma.

Pensiero del nuovo anno: sto cominciando ad amare profondamente questo territorio e questi vini. Avvisati!


Il Gastronauta di Davide Paoloni sui ricarichi del vino al ristorante. Interventi di Cernilli, Ziliani, Nossiter, Vizzari, Alajmo, Troiani e Lenzini


Sabato c'è stata la solita bella trasmissione di Davide Paolini che ha messo a confronto più opinioni, a volte molto contrastanti, sul tema del ricarico dei vini nella ristorazione
A voi farvi una opinione. Io l'ho espressa nel post precedente, via Google+ e la cosa che mi è dispiaciuta è che alla fine, per qualcuno, sia passato per nemico di una certa ideologia. Bah. Io mi interrogo e mi pongo della domande perchè non credo di avere la verità assoluta su nulla. Cliccate qua per sentire la replica della trasmissione.



Il mio punto di vista sull'articolo di Nossiter su GQ


L'articolo a firma Jonathan Nossiter come previsto a suscitato molto clamore sul web per via di una serie di prese di posizione che non possono lasciare indifferenti. Nel mio piccolo, sapendo già di non apportare nulla di nuovo ad un argomento già affrontato da blog e giornalisti, provo a dire la mia per punti.

Punto uno: sono d'accordo con Nossiter quando sottolinea il fatto che i "naturali" siano una bella ed importante rivoluzione culturale, non solo italiana. Ma siamo sicuri che al loro interno non ci siano i soliti furbetti che stanno là per moda, opportunismo o altro. Quanti produttori fiutando l'affare si sono convertiti? E vogliamo parlare del prezzo franco cantina di alcuni vini bioqualcosa? Sarebbe auspicabile indagare anche all'interno del movimento dei naturali per capire, ad esempio, i motivi della frattura tra le varie assciazioni (non sono tutte dalla stessa parte?) oppure per comprendere come garantiscono la salubrità dei loro prodotti.

Punto due: nutro personalmente dubbi sul fatto che zolfo e rame rappresentino il punto più alto dell'agricoltura ecosostenibile. Il rame è un metallo pesante che si accumula nel terreno e la stessa Commisione Europea l'ha definito un male necessario. Siamo sicuri che poi tutti i piccoli agricoltori possano rischiare ogni anno di perdere tutto o parte il loro raccolto perchè amanti del BIO a tutti i costi? Se non raccoglie i frutti della terra questa gente non sa come campare e allora mi chiedo in tutto questo dove sta l'etica.

Punto tre: sono d'accordo con lui che le carte dei ristoranti siano spesso deprimenti e piene degli stessi nomi. Il problema, secondo me, è che il 90% dei ristoratori, esatto specchio della popolazione italiana, non conosce il vino per cui è inevitabile che si lascino consigliare da chi teoricamente ne sa più di loro: enoteche o, peggio, agenti che sponsorizzano la cantine che hanno in portafoglio. C'è soluzione a tutto questo? Sì, aumentare il livello di cultura del vino che obbligherebbe necessariamente i ristoratori a mettere certe bottiglie in carta.

Punto quattro: Nossiter ha ragione a scandalizzarsi di certi ricarichi folli ma, a mio parere, il consumatore in questo ambito ha un grande potere: non prendere quelle bottiglie, cambiare locale la prossima volta, portarsi il vino da casa. A Roma esistono ristoratori che ti fanno portare il tuo vino senza problema e senza chiedere il diritto di tappo. E poi, quando è che il ricarico è etico? E' giusto che bettole di quartiere e locali stellati abbiano lo stesso ricarico? Auspicare un ricarico medio del 50/100%, tipico delle enoteche, va bene anche per il ristorante che ti porta al tavolo un vecchio Borgogna che, nel caso, ti cambia se sa di tappo?

Punto cinque: Nossiter pone dei pesanti dubbi sul vino semi-industriale ed industriale facendo dedurre al lettore che sia tossico e/o che tradisca l'identità del storica del territorio. Io, fossi stato in lui, avrei approfondito il concetto perchè a ben vedere tutto il vino è tossico in quanto contiene alcool. Forse parla di tossicità in quanto contiene i pesticidi provenienti dalla vigna? Dovrebbe dimostrare che tutti i vini non naturali son così, altrimenti si generalizza e si fa passare, ad esempio, Biondi Santi per uno che spaccia chissà cosa. Qualcuno pensa che il suo sangiovese sia un vino tossico e non territoriale?

Punto sei: Nossiter, nonostante abbia avuto il coraggio di fare i nomi, poteva evitare di associare ll Convivio al bunga bunga. E' vero, i ricarichi documentati sono esagerati, però il lettore potrebbe pensare che il ristorante sia un covo di mignotte e papponi e questo, mi scuserà Nossiter, non rende giustizia al lavoro della famiglia Troiani. Lavoro onesto. Il gossip politico lasciamolo fuori dal vino.

Punto sette: non amo Casale del Giglio ma parlare di una azienda del tradimento che confonde il consumatore dichiarandosi "ecocompatibile", sia troppo duro e non mi stupisco della reazione di Santarelli che sta pensando di querelare il regista americano. Spero che Jonathan avrà tutte le prove per difendersi ma una cosa è certa: Casale del Giglio non è l'unica azienda nel Lazio ad avere certi parametri e il successo commerciale che ha avuto se l'è guadagnato sul campo non puntando la pistola alla testa di nessuno.

Punto otto: carte dei vini etiche dovrebbero corrispondere a menù etici. Non si può esaltare la carta di un ristorante quando poi quello mi propone una cacio e pepe a 13 euro o un tiramisù a 12 euro. Vogliamo parlare di questi ricarichi?

Potrei andare avanti per ore, ho toccato secondo me solo alcuni aspetti del problema, ma una cosa è certa: l'etica, in un contesto di grave crisi economica come questa che stiamo vivendo, sarà in futuro il giudice supremo del mercato. Gli operatori economici non speculativi, in un'ottica di auspicato consumo critico, garantiranno non solo noi clienti finali ma, soprattutto, la loro stessa esistenza perchè, piccoli o grandi che siano, prima o poi dovranno fare i conti con una povertà globale sempre più evidente.

Cliccando sulle foto qua sotto si può leggere, un pò piccolo per la verità, l'articolo integrale così ognuno è libero di farsi la sua idea.


Casale del Giglio contro Jonathan Nossiter. Botta e risposta su Dissapore in merito all'articolo apparso su GQ.

Sul Dissapore non si è fatta attendere la risposta di Casale del Giglio, nota azienda vitivinicola del Lazio, che risponde le rime a Jonathan Nossiter in merito alle sue accuse, che potete leggere qui, di essere industriali del vino non ecocompatibili.

LETTERA APERTA A JONATHAN NOSSITER

Caro Jonathan,


sono Antonio Santarelli, titolare della Casale del Giglio (non Casal). Con il mio enologo, Paolo Tiefenthaler, abbiamo letto il tuo assai infelice articolo dal titolo “Attenti al Vino”, apparso sul mensile GQ di Gennaio 2012 a pagina 30.
Rispettiamo il tuo approccio “NO-GLOBAL” (meno la tua competenza tecnica), ma non possiamo restare indifferenti alle pesanti e ingiuste accuse verso la nostra azienda, le altre aziende vinicole citate e verso gli stimati amici ristoratori romani.
Fai bene ad esaltare lo sforzo di quei viticultori che producono vini naturali e che riducono l’uso di prodotti di sintesi, ma questo vale anche per aziende come la nostra, che segue realmente da molti anni un protocollo “ecocompatibile”. Questo protocollo prevede l’assoluto non utilizzo di gran parte degli anticrittogamici in commercio, facendo uso di rame e zolfo secondo il protocollo applicato in Trentino e seguito da uno dei piu’ prestigiosi istituti di ricerca: Istituto agrario di San Michele all’Adige. Le analisi di controllo sulle uve dimostrano gia’ da molti anni l’assoluta assenza di qualsiasi residuo al momento della raccolta, cosi’ da allinearsi ai livelli della certificazione biologica, che potremmo facilmente richiedere e sfruttare a livello commerciale, ma che applichiamo silenziosamente come stile di lavoro. Dunque l’accusa di utilizzare “sostanze chimiche, “tossiche per qualsiasi cosa vivente” e’ veramente da dilettanti alla ricerca di effimera visibilita’.
Il tuo attacco alla Casale del Giglio e’ tuttavia ben congegniato e si ripete piu’ volte nel corso dell’articolo, anche per bocca del commesso di enoteca di primo pelo, tal Francesco Romanozzi (che lavora nell’affermata enoteca Bulzoni di Roma), che confonde l’antipatia personale con valutazioni oggettive, tenuto conto che il livello di apprezzamento dei vini della Casale del Giglio da parte del pubblico, romano e non, non crediamo si possa basare sull’indolenza del consumatore.
Questo giovane presuntuoso ha poi utilizzato termini confusi e generici,di cui non comprende forse neppure il significato e la giusta attribuzione.
Forse, caro Jonathan, hai voluto perfidamente sfruttare la sua incauta vanita’?
Ti facciamo osservare che,disponendo di una congrua estensione di vigneti propri, con annessa cantina vinicola, siamo tecnicamente considerati una azienda agricola vitivinicola e dunque non industriale.
Quando invece si parla di “tradimento”, rispetto a cosa lo si intende? Al fatto di aver ottenuto un’alta qualita’ e non alte rese? Al fatto di aver costruito una buona immagine rispetto alla bassa considerazione che il nostro territorio aveva in passato? Al fatto di essere orgogliosamente diventati una cantina di riferimento sul proprio mercato di appartenenza(Roma e Lazio), riuscendo a contrastare, battendosi ad armi pari, l’invasione dei vini nazionali che la facevano da padroni?
Al fatto di essere riusciti (insieme ad altre cantine laziali) a rappresentare la produzione regionale a livello nazionale con una capillare presenza nelle carte dei vini dei ristoranti d’Italia? Al fatto di aver creato una struttura di accoglienza altamente dignitosa, con uno staff professionale, rispetto alla riottosita’ e all’ignoranza verso l’ospite di certe cantine laziali del passato? Se cosi’ fosse, allora ci dichiariamo sicuramente dei “super traditori”!!!
Quanto all’abuso del termine “commerciale”, anche questo e’ un “non sense”, in quanto assecondare la spontanea richiesta del mercato e’ un fatto assolutamente “naturale” (ti disturba questo termine?).

Se fossi l’amico Alessandro Bulzoni, titolare dell’omonima enoteca, non mi terrei in azienda un imberbe khomeinista come Francesco Romanozzi, che divide le aziende fra “buone” e “cattive”, creando perplessita’ nei suoi clienti…
Quanto al termine “tossico”,poi, ti informiamo ulteriormente che anche la nostra cantina lavora,in parte, uve biologiche. Aggiungiamo inoltre che la nostra azienda e’ da anni coinvolta in attivita’ di ricerca anche tramite convenzioni universitarie e attraverso progetti di studio come “MAGIS” e “TERGEO”.
Abbiamo di recente sottoscritto un accordo di collaborazione con la Provincia di Latina nell’ambito del progetto europeo ”LIFE”, per il risparmio delle risorse idriche in agricoltura.
Nel 2010 l’azienda ha realizzato un impianto fotovoltaico da 200KW, sulla copertura della propria cantina, rendendosi cosi’ quasi totalmente indipendente a livello energetico.Evidentemente non documentarsi e’ ormai diventata la caratteristica di giornalisti sensazionalisti che non meritano di appartenere alla categoria.
Quanto alla strenua difesa degli autoctoni, che condividiamo, va detto che non si puo’ generalizzare in quanto nella storia c’ e’ sempre stata una “prima volta”, quando una nuova varieta’ approdava in un territorio. Quasi tutte le varieta’ viticole provengono dall’Asia Minore, per fare un esempio. In Friuli ci sono molti vitigni di origine francese o slava, oggi considerati “assolutamente” autoctoni. Nell’Agro Pontino (da noi) vi erano le paludi pontine,poi bonificate, dove non si potevano rintracciare vitigni storici, per cui e’ pienamente legittimo aver piantato, dopo anni di studi, le varieta’ che meglio si adattavano senza alcun pregiudizio alla Jonathan!
Piu’ a Nord, in Toscana, sempre sulla costa, c’e’ la Maremma (molto simile al nostro Agro Pontino), anch’essa un tempo paludosa. Vai a vedere, caro Jonathan, che razza di territorio vocato (lo ricordiamo anche al buon Romanozzi) ne e’ venuto fuori e che varieta’vitigni hanno piantato!!

Partecipiamo poi a progetti di valorizzazione del territorio, come gli scavi archeologici dell’antica citta’ di Satricum(documentati caro Jonathan!!!) e piste ciclabili (da noi promosse in una collaborazione bipartisan fra PDL e PD).
Infine disponiamo di una piccola oasi naturale che comprende un lago con pesci “viventi”che viene di frequente utilizzato dalla avifauna di passaggio, in particolare da aironi.
Pensa, caro Jonathan, in azienda ci sono anche numerosi conigli selvatici che negli ultimi anni si sono spontaneamente moltiplicati; forse saranno resistenti alle sostanze tossiche da te malevolmente immaginate. C’e’ tanto ancora, ma forse e’ giusto fermarsi qui. Chi ha potuto farci visita conosce la nostra passione, il nostro rigore e la nostra serieta’, qualita’ che non sembrano appartenerti. Tuttavia vogliamo augurarci che tutto cio’ non sia farina del tuo sacco ma che concorrenti sleali, che a fatica digeriscono il lavoro da noi fatto, ti abbiano facilmente manipolato…
In ogni caso ci riserviamo di tutelare la reputazione della nostra azienda nelle opportune sedi giudiziarie.

Distinti saluti


La risposta di Nossiter non si è fatta attendere e, devo dire, merita un plauso per pacatezza ed intelligenza. Magari a pensarci prima...

Egregio Sig. Santarelli,

Mi dispiace che il tono del mio articolo abbia provocato da parte sua una lettera talmente sarcastica. Ho ovviamente instaurato un dialogo incivile e questa non era la mia intenzione.
La verità è che lei non è il bersaglio del mio articolo. Sono preoccupato invece della speculazione – intesa come il contrario della produzione – che sta, nei miei occhi, distruggendo l’economia e la società occidentale. In linea di principio anche lei dovrebbe sentirsi scandalizzato, dato che vende i suoi vini a 5 euro e li trova rivenduti a 25. A lei sembra giusto? Non vorrebbe controllare un po’ la speculazione dei ristoratori che guadagnano sul vostro lavoro? E fra l’altro non ho la minima intenzione di mettere in discussione la vostra buona fede nell’elaborazione dei vostri prodotti. Volevo solo mettere in discussione il tipo di prodotto come espressione di un territorio e il fatto che una sola azienda domini il mercato locale di una grande città.
Ma leggendo la sua lettera mi chiedo anche perché un’azienda talmente forte, grande, riuscitissima – nel senso commerciale e critico – perda tempo con una piccola e singola voce critica in una rivista fuori settore e dopo tanti anni di ammirazione generalizzata? Mi dispiace soprattutto la reazione all’opinione di un giovane come Francesco Romanazzi. E’ una democrazia, il luogo in cui si può ancora esprimere un giudizio, no? E infatti l’ho citato perché mi sembra uno dei giovani appassionati più informati e impegnati nella ricerca etica della cultura del vino che abbia conosciuto: nonostante la sua età ha già lavorato in alcuni dei posti più impegnati nel vino a Roma, come Roscioli, Settembrini e Bulzoni.
Non siamo liberi, tutti e due, di dire che i vostri vini non ci piacciono? O che consideriamo il successo di marketing delle uve internazionali, sull’onda di ciò che si vende più facilmente dall’Australia alla Maremma fino all’Argentina, il contrario di un impegno necessario per salvare le tante bellissime uve autoctone laziali in pericolo? Ovviamente, come scrive lei, una tradizione comincia a volte con un gesto innovatore. Ma non può pretendere che mettendo sul mercato 1.2 millioni di bottliglie di Syrah, Merlot, Cabernet, Chardonnay, Sauvignon e gli altri “best seller” internazionali che tutti stanno impiantando in tutte le regioni del mondo, lei stia facendo un gesto di avanguardia! Lei ha assolutamente il diritto – per carità – di fare il tipo di prodotto che vuole, dove e quando lo vuole, ma la prego, lasci ai pochi che non sono convinti di questa scelta la possibilità di esprimere la propria opinione.
Per quanto riguarda poi la discussione sul biologico-non biologico, non ho capito bene. Siete in agricoltura biologica o no? Lei mi ha scritto una mail affermando chiaramente che non siete in agricoltura biologica. Praticamente vuol dire che utilizzate sostanze chimiche. Per via di questa sua affermazione, oltre che per quello che trovo scritto ad esempio nella guida Slow Wine (“Casale del Giglio: diserbo chimico/meccanico”), capisco che utilizzate prodotti di sintesi. Oppure vuol dirmi che nelle vigne e in cantina, non lasciate che una sola gocciolina di sostanze chimiche tocchi le uve e il vino? Perché tecnicamente, come lo sa molto meglio di me (io sono un regista di cinema che ama il vino e ne parlo come un laico ad un altro laico), il momento in cui qualsiasi sostanza chimica entra nella terra, nella pianta o nell’uva, il vino che ne risulta contiene almeno tracce di “tossicità”, perfettamente riscontrabili tramite analisi chimiche.
Forse la mia terminologia non è sempre preciso in Italiano: sto ancora imparando a maneggiare la vostra bellissima lingua. Ma ci tengo davvero a sottolineare che non era la mia intenzione di identificare l’azienda come eccezione.
Anzi, bisogna dire che 99% dei vini del mondo sono fatti così (anche molti che dichiarono uve biologiche dopo fanno tante cose in cantina che non si può sapere la “naturalità” di quello che si beve). Come la maggioranza delle cose che mangiamo. E so bene che anche molte stimabili persone che seguono il movimento del vino naturale con simpatia non sono d’accordo sull’idea della “tossicità” (sostenendo per esempio che l’alcool in sé sia già tossico…oppure altri che dicono che lo zolfo in sè è tossico, cose tecnicamente giuste*).

Accetto volentieri che non siamo tutti d’accordo su cosa sia un vino chimico, industriale o tossico. Però, visto quello che è successo per decenni nei campi (e nelle cantine) in Italia, in Francia, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, io personalmente sento il bisogno di reagire. Per la salute delle persone e dell’ambiente. Da qui nasce la mia ammirazione per l’impegno, coraggioso e innovatore, dei vignaioli naturali, da Elena Pantaleoni a Aubert de Villaine e Dominique Lafon (che non toglie il fatto che posso anche stimare chi non ha (ancora?) scelta questa strada).
Bisogna anche dire che negli ultimi anni, grazie al sorprendente successo di mercato della viticoltura biologica, biodinamica e naturale, sono state elaborate molte strategie aziendali per suggerire al consumatore che sta mangiando o bevendo cose sane – cosa spesso non vera – con frasi di marketing come “lutte raisonnée”. Mi perdoni se lo dico, ma mi sembra che “ecocompatibile” sia un’altra frase che rischia di confondere il consumatore. Inutile dire che se lei può affermare e provare che non c’è un gocciolino di sostanza chimica che entra nel suolo o nel suo vino, sarò il primo a scrivere una ritrattazione e chiederle scusa.
Anzi, se vuole, perché non facciamo un lavoro insieme? Chiediamo ad un agronomo ed un chimico di studiare durante l’anno tutte le vostre pratiche, nelle vigne e in cantina, e dopo facciamo un’analisi dei risultati da condividere a più voci (dagli specialisti, dal suo enologo, da lei, da un nutrizionista, da me, da un giornalista indipendente). Io conosco un bravissimo agronomo, Stefano Pescarmona, specialista in biodinamica, che insegna in vari posti in Italia, fra l’altro in un centro di ex tossicodipendenti ed anche all’Università di Slow Food a Bra. Potrei chiamarlo, magari insieme a Claude e Lydia Bourguignon, grandissimi biologi francesi, specialisti della vita del suolo. Qualsiasi sia il risultato (o i risultati), avremmo senz’altro molto da imparare, noi tutti.
Infine, lei sostiene che sono stato manipolato dai vignaioli naturali per motivi di concorrenza sleale. Lei mi lusinga. Invece credo che i produttori di vini naturali che conosco abbiano troppo lavoro nelle vigne per perdere tempo con un cineasta appassionato di vino.

Invece, vista l’ubiquità del suo vino nei ristoranti e nelle enoteche romani (ripeto, sono stupito del fatto che molti ristoratori lascino ad enoteche e altri “middlemen” la possibilità di costruire le loro carte dei vini), non credo che lei debba avere paura che anche qualche piccolo produttore di territorio possa trovare uno spazio accanto a voi. Non c’è nessuna minaccia per il vostro ampio dominio del mercato locale.
Ma se vuole, facciamo insieme anche uno studio economico-commerciale durante un anno per vedere da vicino le pratiche di distribuzione tra i ristoratori e enotecari di Roma. Con questo studio approfondito e dettagliato, potremmo imparare molto sulle strategie commerciali e di marketing che fanno la differenza nel mercato libero. Sarà senz’altro un insegnamento democratico per noi tutti.
Non sono contro di voi (e mi dispiace di offendere qualsiasi essere umano), nel modo più assoluto, anche se non amo i vostri vini (il che non è nulla più di un giudizio personale). Noto solo che in questo mondo il più grande e il più forte prende sempre più spazio – che lo voglia o no – lasciando al cittadino (di qualsiasi paese, in qualsiasi posto) meno scelta. Io, modestamente, vorrei difendere chi non riesce a trovare neanche un piccolo posto alla grande tavola della cultura e del piacere del vino. Non posso (e neanche vorrei) minacciarvi.
Vi auguro un successo democratico con la vostra visione, e auguro anche lo stesso agli altri con visioni diverse.

Cordiali saluti

Jonathan Nossiter


Jonathan Nossiter nemico di Robert Parker e...dei ristoratori romani


Jonathan Nossiter, nonostante l'aria da artista sognatore giramondo, è abituato a rompere certi sistemi di potere, non c'è dubbio, e dopo aver preso posizione su una certa élite del vino all'interno del suo film Mondovino, da qualche tempo, vivendo a Roma, se la sta prendendo con i "poveri" ristoratori della capitale rei di avere carte dei vini disastrose caratterizzate da ricarichi killer.
In pratica, dopo Robert Parker e Michel Rolland, i nuovi nemici del regista americano sono Felice a Testaccio e Il Convivio, ristoranti che, tra i vari a Roma, non hanno avuto la lungimiranza di inserire nello loro carta i vini naturali che, secondo Nossiter, rappresentano oggi una vera rivoluzione culturale.


Felice a Testaccio, in particolare, è reo, secondo il regista, di avere come carta dei vini un "massiccio ma decrepito raccoglitore di carta infilati nella plastica, che ha pretese di esaustività ma a volte presenta un triste nome solitario in cima a pagine vuote. Nell'elenco predominano cantine industriale e semi-industriali di tutte le principali regioni italiane: non certo i vini peggiori ma poco autentici e artigianali". I nomi? Ciccio Zaccagnini, Tasca d'Almerita, Antinori e Casale del Giglio, cantina laziale che, sempre secondo Nossiter, è un un'azienda che fa un vino industriale, tecnico, ruffiano, fatto nel posto meno vocato al vino al mondo. Amen. 


Il Convivio, ristorante della famiglia Troiani, viene visto dal regista di Mondovino come un ex punto di riferimento del periodo bunga bunga che si caratterizza per avere una "lista dei vini con ricarichi che farebbero inorgogliore qualsiasi tangentomane. Molti vini costano al bicchiere più di quanto il ristorante abbia pagato la bottiglia: un sovrapprezzo del 1200%! Che dire, per esempio, di un Verdicchio Garofoli, vino semi-industriale, a 14 euro? In tutto il mondo è considerato ragionevole un ricarico del 250% anche se in Italia o in Francia, data la vicinanza delle cantine, i ristoranti più etici si limitano al 100%, scendendo in alcuni casi al 50".

Il Sanlorenzo, altro ristorante cult di Roma, viene invece citato locale che, nonostante una carta dei vini dove sono presenti vini naturali come il Trebbiano di Emidio Pepe, ha ricarichi eccessivi che snaturano la volontà del vignaiolo di mantenere prezzi bassi di cantina.

L'ultima chicca riguarda i ristoranti che si lasciano fare la carta dei vini dalle enoteche. Secondo Nossiter è "come delegare ad uno sconosciuto la scelta delle proprie pratiche sessuali...".

Ma c'è qualche ristorante di Roma che piace al regista americano? Sì, sul sito Puntarella Rossa a precisa domanda Nossiter sbandiera il suo amore per l'osteria "Da Cesare", al Casaletto, che a suo giudizio ha una carta meravigliosa perché non ha una carta: la carta è lui. Le sue scelte sono all'antica: ti consiglia vini naturali quando chiedi di mangiare e quando ti manifesti come persona. Poi Settembrini e Primo al Pigneto.

Siete d'accordo con tutto questo? Io qualche generalizzazione di troppo e qualche "talebanismo" enoico (vedi Garofoli) l'ho trovato. Magari ne parlerò con lui di persona se vorrà. Benvenuto a Roma!



Addio a Giulio Gambelli


Addio Bicchierino



Daniele Cernilli, Montalcino e le sue denominazioni


Premessa: sto solo condividendo e commentando una notizia apparsa in Rete per cui, visti i tempi, sottolineo che il mio post non ha alcun intento polemico nei confronti dell'ex direttore del Gambero Rosso.
 
Daniele Cernilli, sull'ultimo Bibenda7, propone questo personale quadro delle denominazioni di Montalcino: 

[....]. Ma se proprio dovessi immaginare un disciplinare che tenesse conto delle diverse posizioni espresse dai produttori, che a maggioranza hanno votato per il mantenimento del Rosso di Montalcino con una base ampelografica di solo Sangiovese, ma che vede una minoranza qualificata che la pensa diversamente, e che rappresenta la parte maggiore della produzione effettiva della denominazione, allora farei come segue.   

Il Brunello non si tocca, questo deve essere chiaro. Io sarei addirittura per il divieto di botti piccole e limiterei le pratiche di “ringiovanimento”, oggi consentite per ben il 15%. 

Poi aprirei la Doc Montalcino Rosso al 15% di uve diverse dal Sangiovese, ma con al massimo il 5% di Cabernet Sauvignon, eliminando contemporaneamente la Doc Sant’Antimo che è stata utilizzata finora da poche aziende. 

Infine farei una nuova Doc Montalcino Sangiovese con quel vitigno in purezza, e che, questa solo, sia collegata alla Docg Brunello con la possibilità di declassamento di quest’ultimo. Questo obbligherebbe chi volesse produrre del Rosso di Montalcino, a questo punto più “moderno” e più vicino ad uno stile chiantigiano, a separarsi in modo preciso dal Brunello, e tutelerebbe tutti coloro che vedono nel solo Sangiovese la reale tipicità di Montalcino con una denominazione specifica, che sottolinea in modo inequivocabile proprio questo fatto. Ovviamente tutto questo è solo un mio personale punto di vista, ormai i giochi sono fatti e nulla cambierà. Ma immaginare realtà diverse e ragionare con logiche che possano andare al di là delle sterili contrapposizioni credo che sarebbe stata una buona cosa.

Una visione interessante, bipartisan, che lascia dentro di me un solo punto interrogativo: perchè modificare la denominazione Rosso di Montalcino creando confusione al mercato
Ok per la terza nuova DOC, comprendente i vitigni internazionali, che chiamerei, che ne so, Terre di Montalcino, un nome nuovo, slegato dal passato che, comunque, contiene quel riferimento territoriale tanto caro agli uffici marketing di molti grande aziende. Che ne dite?

Ezio Rivella, Presidente del Consorzio. Fonte: Acquabuona