Château Haut-Bailly 1990: l'immortalità del Bordeaux la metto in dubbio!


C'è un un solo grande sbaglio che l'appassionato può fare: avere pregiudizi nei confronti di un vino, che siano negativi o, come in questo caso, positivi. 
Avete presente un amico che porta a cena uno Château Haut-Bailly 1990? Questa persona verrà visto come un mito dalla maggioranza degli ospiti che, grazie a lui, potranno condividere un'esperienza enoica unica ed inimitabile. 
Il vino francese è il vino francese, Bordeaux è Bordeaux, a prescindere da tutto e da tutti!

Fonte: http://www.taste-a-wine.com
Ma siamo sicuri che Bordeaux sia sempre sinonimo qualità a prescindere? Avere nel bicchiere lo Château Haut-Bailly 1990 di certo non aiuta a rispondere positivamente alla domanda. Purtroppo.
All'inizio parte dolce, caramelloso, mi ricorda l'odore della Charms ai frutti di bosco, solo col tempo i profumi diventano più dignitosi ed evolvono su note di tabacco da pipa, spezie scure, foglie secche macerate, fungo porcino, brodo.
La bocca è in linea col naso e dipinge di autunno il palato che conosce un tannino perfettamente fuso ma poco rinvigorito da una spinta acidità che stenta a far decollare la beva. Che dire, mi è sembrato un taglio bordolese già "scollinato" che non vale quello che costa, cioè oltre 100 euro. 

Non vorrei generalizzare ma, tranne poce eccezioni, ultimamente ho bevuto molti Bordeaux, anche importanti, con un'aspettativa media di vita molto bassa. Che esperienze avete avuto voi? Io un pò deluso lo sono...

Ah, ultima cosa: non dite nulla all'amico che lo ha portato a tavola...


Giuseppe "Bepi" Quintarelli ci ha lasciato


Che periodo del cavolo, troppi maestri stanno morendo lasciando eredità troppo difficili da raccogliere. Che la Terra ti sia lieve Bepi!

Fonte: http://www.winewatch.com
 

La migliore etichetta di vino al mondo è dell'Alpha Crucis Shiraz 2008


Vi piace l'etichetta? Non male vero? Sicuramente è piaciuta molto alla World Label Awards Association che nel 2011 l'ha proclamata la più bella di tutte al mondo all'interno di una competizione che ha visto rivaleggiare Vecchio e Nuovo Mondo.


L'Alpha Crucis, in particolare, è uno Shiraz australiano la cui etichetta rappresenta la Croce del Sud dove l'azienda è la più brillante delle stelle.
Spiegando la filosofia che ispira il design, i responsabili di Alpha Crucis sostengono che: "L'arco di ellisse o parziale parabolica sopra la parte superiore del marchio rispecchia la forma del cielo notturno celeste, con la costellazione della Croce del Sud identificata da una linea tratteggiata così come era riprodotta nelle mappe stellari del secolo scorso".


Simbolo dell'emisfero australe la Croce del Sud è formata da cinque stelle categorizzate in base alla loro luminosità. La stella più luminosa rappresenta la prima lettera del greco alfabeto - Alpha, abbreviato nelle mappe stellari con il simbolo α. Le successive lettere greche vengono applicati in ordine decrescente di luminosità - Beta (β), gamma (γ), Delta (δ) e epsilon (ε).
In questo caso, come possiamo vedere dalla foto sottostante, l'azienda vinicola rappresenterebbe la stella più luminosta della costellazione. 
Oggi anche lezione di astronomia, tiè! 

Fonte: Wikipedia
 

Il Merlot di Bele Casel dal 2002 al 2006


Fare riferimento a Bele Casel e parlare del loro Merlot e non del Prosecco a molte persone potrà suonare stonato ma vi posso assicurare che Luca Ferraro e la sua famiglia hanno puntato molto su questo vitigno che, come scritto sul sito internet, rappresenta una vera e propria sfida per tutti loro.

Noi abbiamo fatto una pazzia, abbiamo piantato merlot , vitigno tipico delle nostre zone, ma sempre maltrattato, facendo produrre alle vigne quantità d’uva assurde. Beh noi volevamo risollevare il nome di quest’uva. Impianti molto stretti, diradamenti spinti, vendemmia di uve ben mature e l’acquisto di botti grandi per non alterare la tipicità del nostro merlot.

Durante le ultime feste, approfittando della compagnia di un nutrito gruppo di amici appassionati, sono finalmente riuscito a degustare tutta la verticale del Merlot Bele Casel che da tanto, troppo tempo avevo in cantina. Cinque annate, dalla 2002 alla 2006, che fanno capire che da quelle parti si fa veramente sul serio anche con i rossi. 

Prima di iniziare, però, qualche dettaglio tecnico: le vigne sono state piantate a circa 200 metri s.l.m in zona Cornuda su terreni rossi, ricchi di ferro e tendenzialmente argillosi. Impianti fitti (2.5x1 metro) a cordone speronato. Resa max 40 q.li ettaro. Vendemmia manuale. In cantina tutta la fermentazione avviene a contatto con le bucce con un primo travaso in botte e poi battonage per i primi 4 o 5 mesi. Rimane in in botte grande per almeno 24 mesi, niente filtrazioni e solo una piccola aggiunta di solforosa prima dell'imbottigliamento. Affinamento di almeno un anno in bottiglia.

La bella foto di Rossella di Ma che ti sei mangiato?

Merlot 2002: il millesimo di per sè non aiuta certo il giovane vignaiolo che per la prima volta cerca di vinificare il suo merlot. Nonostante tutte le difficoltà del caso, esperienza in primis, nel bicchiere il vino, inizialmente chiuso, esce fuori abbastanza bene con sentori terziari di cuoio, fiori secchi, humus e un tratto ferroso che, come vedremo, rappresenterà una caratteristica che ci accompagnerà lungo tutta le degustazione. In bocca è esile, l'anna fredda si sente, cede un pò a centro bocca ma si riprende bene alla fine con una persistenza inaspettata.

Merlot 2003: da un'annata fredda ad una siccitosa, il caldo non dà tregua nemmeno da queste parti. A differenza del precedente bicchiere, in questo si sente una maggiore rotondità ed morbidezza, anche le sensazioni olfattive tendono più al fruttato (amarena) anche se, col tempo, la mineralità rossa fa di nuovo capolino. Bocca morbida, forse un filo di alcol in eccesso, ma sicuramente più ampia e meno cadente.


Merlot 2004: l'annata equilibrata (finalmente) si rispecchia nel vino che, in assenza di picchi, va dritto per la sua strada senza troppi fronzoli e, per la prima volta, si scopre elegante nelle sue note di spezie, frutta rossa a grappolo e sapida mineralità. In bocca è fine, fresco, piacevolmente sapido e fruttato e, nonostante ceda un pò nel finale, va giù che è un piacere.

Merlot 2005: rispetto al precedente è più scarico nel colore e presenta riflessi granato come se, rispetto al precedente, fosse più vecchio. Anche al naso la terziarizzazione degli elementi olfattivi è più netta visto che si percepiscono nette le note di fiori rossi da diario, frutta rossa essiccata, humus e un tocco di mineralità più nera che rossa. Bocca bilanciata, ampia, elegantemente austera. Piaciuto molto anche se avrà forse vita breve.

Merlot 2006: scarico nel colore (cambio vinificazione?) si presenta con caratteristiche molto simili al precedente anche se, rispetto alla 2005, trovo un tocco di ciccia in più rappresentato da note cioccolatose, macis e radici. In bocca è sempre lui, minerale, sapido, abbastanza equilibrato, dritto e teso con un finale che, se fosse più grintoso, darebbe al vino quel qualcosa in più da portarlo nell'olimpo dei migliori merlot italiani. 

Bele Casel è solo all'inizio della sua storia in rosso per cui non ho dubbi che Luca Ferraro possa migliorare ulteriormente questo merlot che, col tempo, l'esperienza e la passione di tutta la famiglia, arriverà a contendersi lo scettro di miglior vino dell'azienda assieme al loro ottimo Prosecco.

Luca Ferraro Fonte: madeinkitchen.tv

Brindisi bipartisan alle Maldive: Schifani, Rutelli e Casini vanno a Champagne


Per carità, ognuno è libero di fare ciò che vuole nella vita, però mentre le pensionate del mio quartiere lottano per arrivare a fine mese, c'è chi dovrebbe dare il buon esempio e non lo fa. Ma, poi, dico, brindare francese con uno Champagne da supermercato. Bavboni!!!


Chateauneuf du Pape Clos du Mont Olivet 1998



Ho acquistato questo vino alcuni anni fa durante la mia vacanza in Provenza e Valle del Rodano. Su consiglio di Mike Tommasi sono passato a trovare questa famiglia di vignaioli che, nonostante le dimensioni non certo da "piccoli" (hanno 28 ettari di vigneto sparsi in tutta la denominazione), mantengono inalterata una filosofia e una attività produttiva basata sulla tradizione, l'attesa e la grande qualità della loro materia prima più importante: l'uva granache (90% del loro vigneto totale con viti quasi centenarie). 

Durante la visita in cantina rimasi estasiato da tutta la loro produzione, in particolar modo da questo Chateauneuf du Pape che, pur non rappresentando il loro prodotto di punta chiamato La Cuvée du Papet, è per me quello che più di altri ha scritto nel suo DNA la mappa genetica del territorio. 

Lo Chateauneuf du Pape Clos du Mont Olivet 1998 (80% Grenache, 10% Syrah, 6% Mourvedre and 4% Cinsault,  Counoise, Vaccarese, Muscardin, Terret Noir, Picpoul Noir) appena versato nel bicchiere sprigiona tutto il suo carattere rodanesco emanando sbuffi di oliva nera in salamoia a cui seguono intensi ventagli aromatici di cappero, frutta nera di rovo, argilla, terra rossa, chiodi di garofano, goudron per poi trasformarsi, col passare del tempo, in un nettare totalmente mediterraneo con i suoi echi di alloro, origano, pomodoro secco, pepe. Quasi quasi ci condivo la mia pizza.
In bocca poi è eccezionale, dopo 13 anni vanta ancora un'acidità sferzante che riesce perfettamente ad equilibrare 14,5° alcolici supportando una struttura che il palato qualifica come velluto rosso. Dopo la deglutizione tutti i richiami alla macchia mediterranea ritornano come nebbia che stenta a dissolversi.
Non vi dico il prezzo della bottiglia altrimenti partono i TIR da Roma.

Pensiero del nuovo anno: sto cominciando ad amare profondamente questo territorio e questi vini. Avvisati!


Il Gastronauta di Davide Paoloni sui ricarichi del vino al ristorante. Interventi di Cernilli, Ziliani, Nossiter, Vizzari, Alajmo, Troiani e Lenzini


Sabato c'è stata la solita bella trasmissione di Davide Paolini che ha messo a confronto più opinioni, a volte molto contrastanti, sul tema del ricarico dei vini nella ristorazione
A voi farvi una opinione. Io l'ho espressa nel post precedente, via Google+ e la cosa che mi è dispiaciuta è che alla fine, per qualcuno, sia passato per nemico di una certa ideologia. Bah. Io mi interrogo e mi pongo della domande perchè non credo di avere la verità assoluta su nulla. Cliccate qua per sentire la replica della trasmissione.



Il mio punto di vista sull'articolo di Nossiter su GQ


L'articolo a firma Jonathan Nossiter come previsto a suscitato molto clamore sul web per via di una serie di prese di posizione che non possono lasciare indifferenti. Nel mio piccolo, sapendo già di non apportare nulla di nuovo ad un argomento già affrontato da blog e giornalisti, provo a dire la mia per punti.

Punto uno: sono d'accordo con Nossiter quando sottolinea il fatto che i "naturali" siano una bella ed importante rivoluzione culturale, non solo italiana. Ma siamo sicuri che al loro interno non ci siano i soliti furbetti che stanno là per moda, opportunismo o altro. Quanti produttori fiutando l'affare si sono convertiti? E vogliamo parlare del prezzo franco cantina di alcuni vini bioqualcosa? Sarebbe auspicabile indagare anche all'interno del movimento dei naturali per capire, ad esempio, i motivi della frattura tra le varie assciazioni (non sono tutte dalla stessa parte?) oppure per comprendere come garantiscono la salubrità dei loro prodotti.

Punto due: nutro personalmente dubbi sul fatto che zolfo e rame rappresentino il punto più alto dell'agricoltura ecosostenibile. Il rame è un metallo pesante che si accumula nel terreno e la stessa Commisione Europea l'ha definito un male necessario. Siamo sicuri che poi tutti i piccoli agricoltori possano rischiare ogni anno di perdere tutto o parte il loro raccolto perchè amanti del BIO a tutti i costi? Se non raccoglie i frutti della terra questa gente non sa come campare e allora mi chiedo in tutto questo dove sta l'etica.

Punto tre: sono d'accordo con lui che le carte dei ristoranti siano spesso deprimenti e piene degli stessi nomi. Il problema, secondo me, è che il 90% dei ristoratori, esatto specchio della popolazione italiana, non conosce il vino per cui è inevitabile che si lascino consigliare da chi teoricamente ne sa più di loro: enoteche o, peggio, agenti che sponsorizzano la cantine che hanno in portafoglio. C'è soluzione a tutto questo? Sì, aumentare il livello di cultura del vino che obbligherebbe necessariamente i ristoratori a mettere certe bottiglie in carta.

Punto quattro: Nossiter ha ragione a scandalizzarsi di certi ricarichi folli ma, a mio parere, il consumatore in questo ambito ha un grande potere: non prendere quelle bottiglie, cambiare locale la prossima volta, portarsi il vino da casa. A Roma esistono ristoratori che ti fanno portare il tuo vino senza problema e senza chiedere il diritto di tappo. E poi, quando è che il ricarico è etico? E' giusto che bettole di quartiere e locali stellati abbiano lo stesso ricarico? Auspicare un ricarico medio del 50/100%, tipico delle enoteche, va bene anche per il ristorante che ti porta al tavolo un vecchio Borgogna che, nel caso, ti cambia se sa di tappo?

Punto cinque: Nossiter pone dei pesanti dubbi sul vino semi-industriale ed industriale facendo dedurre al lettore che sia tossico e/o che tradisca l'identità del storica del territorio. Io, fossi stato in lui, avrei approfondito il concetto perchè a ben vedere tutto il vino è tossico in quanto contiene alcool. Forse parla di tossicità in quanto contiene i pesticidi provenienti dalla vigna? Dovrebbe dimostrare che tutti i vini non naturali son così, altrimenti si generalizza e si fa passare, ad esempio, Biondi Santi per uno che spaccia chissà cosa. Qualcuno pensa che il suo sangiovese sia un vino tossico e non territoriale?

Punto sei: Nossiter, nonostante abbia avuto il coraggio di fare i nomi, poteva evitare di associare ll Convivio al bunga bunga. E' vero, i ricarichi documentati sono esagerati, però il lettore potrebbe pensare che il ristorante sia un covo di mignotte e papponi e questo, mi scuserà Nossiter, non rende giustizia al lavoro della famiglia Troiani. Lavoro onesto. Il gossip politico lasciamolo fuori dal vino.

Punto sette: non amo Casale del Giglio ma parlare di una azienda del tradimento che confonde il consumatore dichiarandosi "ecocompatibile", sia troppo duro e non mi stupisco della reazione di Santarelli che sta pensando di querelare il regista americano. Spero che Jonathan avrà tutte le prove per difendersi ma una cosa è certa: Casale del Giglio non è l'unica azienda nel Lazio ad avere certi parametri e il successo commerciale che ha avuto se l'è guadagnato sul campo non puntando la pistola alla testa di nessuno.

Punto otto: carte dei vini etiche dovrebbero corrispondere a menù etici. Non si può esaltare la carta di un ristorante quando poi quello mi propone una cacio e pepe a 13 euro o un tiramisù a 12 euro. Vogliamo parlare di questi ricarichi?

Potrei andare avanti per ore, ho toccato secondo me solo alcuni aspetti del problema, ma una cosa è certa: l'etica, in un contesto di grave crisi economica come questa che stiamo vivendo, sarà in futuro il giudice supremo del mercato. Gli operatori economici non speculativi, in un'ottica di auspicato consumo critico, garantiranno non solo noi clienti finali ma, soprattutto, la loro stessa esistenza perchè, piccoli o grandi che siano, prima o poi dovranno fare i conti con una povertà globale sempre più evidente.

Cliccando sulle foto qua sotto si può leggere, un pò piccolo per la verità, l'articolo integrale così ognuno è libero di farsi la sua idea.


Casale del Giglio contro Jonathan Nossiter. Botta e risposta su Dissapore in merito all'articolo apparso su GQ.

Sul Dissapore non si è fatta attendere la risposta di Casale del Giglio, nota azienda vitivinicola del Lazio, che risponde le rime a Jonathan Nossiter in merito alle sue accuse, che potete leggere qui, di essere industriali del vino non ecocompatibili.

LETTERA APERTA A JONATHAN NOSSITER

Caro Jonathan,


sono Antonio Santarelli, titolare della Casale del Giglio (non Casal). Con il mio enologo, Paolo Tiefenthaler, abbiamo letto il tuo assai infelice articolo dal titolo “Attenti al Vino”, apparso sul mensile GQ di Gennaio 2012 a pagina 30.
Rispettiamo il tuo approccio “NO-GLOBAL” (meno la tua competenza tecnica), ma non possiamo restare indifferenti alle pesanti e ingiuste accuse verso la nostra azienda, le altre aziende vinicole citate e verso gli stimati amici ristoratori romani.
Fai bene ad esaltare lo sforzo di quei viticultori che producono vini naturali e che riducono l’uso di prodotti di sintesi, ma questo vale anche per aziende come la nostra, che segue realmente da molti anni un protocollo “ecocompatibile”. Questo protocollo prevede l’assoluto non utilizzo di gran parte degli anticrittogamici in commercio, facendo uso di rame e zolfo secondo il protocollo applicato in Trentino e seguito da uno dei piu’ prestigiosi istituti di ricerca: Istituto agrario di San Michele all’Adige. Le analisi di controllo sulle uve dimostrano gia’ da molti anni l’assoluta assenza di qualsiasi residuo al momento della raccolta, cosi’ da allinearsi ai livelli della certificazione biologica, che potremmo facilmente richiedere e sfruttare a livello commerciale, ma che applichiamo silenziosamente come stile di lavoro. Dunque l’accusa di utilizzare “sostanze chimiche, “tossiche per qualsiasi cosa vivente” e’ veramente da dilettanti alla ricerca di effimera visibilita’.
Il tuo attacco alla Casale del Giglio e’ tuttavia ben congegniato e si ripete piu’ volte nel corso dell’articolo, anche per bocca del commesso di enoteca di primo pelo, tal Francesco Romanozzi (che lavora nell’affermata enoteca Bulzoni di Roma), che confonde l’antipatia personale con valutazioni oggettive, tenuto conto che il livello di apprezzamento dei vini della Casale del Giglio da parte del pubblico, romano e non, non crediamo si possa basare sull’indolenza del consumatore.
Questo giovane presuntuoso ha poi utilizzato termini confusi e generici,di cui non comprende forse neppure il significato e la giusta attribuzione.
Forse, caro Jonathan, hai voluto perfidamente sfruttare la sua incauta vanita’?
Ti facciamo osservare che,disponendo di una congrua estensione di vigneti propri, con annessa cantina vinicola, siamo tecnicamente considerati una azienda agricola vitivinicola e dunque non industriale.
Quando invece si parla di “tradimento”, rispetto a cosa lo si intende? Al fatto di aver ottenuto un’alta qualita’ e non alte rese? Al fatto di aver costruito una buona immagine rispetto alla bassa considerazione che il nostro territorio aveva in passato? Al fatto di essere orgogliosamente diventati una cantina di riferimento sul proprio mercato di appartenenza(Roma e Lazio), riuscendo a contrastare, battendosi ad armi pari, l’invasione dei vini nazionali che la facevano da padroni?
Al fatto di essere riusciti (insieme ad altre cantine laziali) a rappresentare la produzione regionale a livello nazionale con una capillare presenza nelle carte dei vini dei ristoranti d’Italia? Al fatto di aver creato una struttura di accoglienza altamente dignitosa, con uno staff professionale, rispetto alla riottosita’ e all’ignoranza verso l’ospite di certe cantine laziali del passato? Se cosi’ fosse, allora ci dichiariamo sicuramente dei “super traditori”!!!
Quanto all’abuso del termine “commerciale”, anche questo e’ un “non sense”, in quanto assecondare la spontanea richiesta del mercato e’ un fatto assolutamente “naturale” (ti disturba questo termine?).

Se fossi l’amico Alessandro Bulzoni, titolare dell’omonima enoteca, non mi terrei in azienda un imberbe khomeinista come Francesco Romanozzi, che divide le aziende fra “buone” e “cattive”, creando perplessita’ nei suoi clienti…
Quanto al termine “tossico”,poi, ti informiamo ulteriormente che anche la nostra cantina lavora,in parte, uve biologiche. Aggiungiamo inoltre che la nostra azienda e’ da anni coinvolta in attivita’ di ricerca anche tramite convenzioni universitarie e attraverso progetti di studio come “MAGIS” e “TERGEO”.
Abbiamo di recente sottoscritto un accordo di collaborazione con la Provincia di Latina nell’ambito del progetto europeo ”LIFE”, per il risparmio delle risorse idriche in agricoltura.
Nel 2010 l’azienda ha realizzato un impianto fotovoltaico da 200KW, sulla copertura della propria cantina, rendendosi cosi’ quasi totalmente indipendente a livello energetico.Evidentemente non documentarsi e’ ormai diventata la caratteristica di giornalisti sensazionalisti che non meritano di appartenere alla categoria.
Quanto alla strenua difesa degli autoctoni, che condividiamo, va detto che non si puo’ generalizzare in quanto nella storia c’ e’ sempre stata una “prima volta”, quando una nuova varieta’ approdava in un territorio. Quasi tutte le varieta’ viticole provengono dall’Asia Minore, per fare un esempio. In Friuli ci sono molti vitigni di origine francese o slava, oggi considerati “assolutamente” autoctoni. Nell’Agro Pontino (da noi) vi erano le paludi pontine,poi bonificate, dove non si potevano rintracciare vitigni storici, per cui e’ pienamente legittimo aver piantato, dopo anni di studi, le varieta’ che meglio si adattavano senza alcun pregiudizio alla Jonathan!
Piu’ a Nord, in Toscana, sempre sulla costa, c’e’ la Maremma (molto simile al nostro Agro Pontino), anch’essa un tempo paludosa. Vai a vedere, caro Jonathan, che razza di territorio vocato (lo ricordiamo anche al buon Romanozzi) ne e’ venuto fuori e che varieta’vitigni hanno piantato!!

Partecipiamo poi a progetti di valorizzazione del territorio, come gli scavi archeologici dell’antica citta’ di Satricum(documentati caro Jonathan!!!) e piste ciclabili (da noi promosse in una collaborazione bipartisan fra PDL e PD).
Infine disponiamo di una piccola oasi naturale che comprende un lago con pesci “viventi”che viene di frequente utilizzato dalla avifauna di passaggio, in particolare da aironi.
Pensa, caro Jonathan, in azienda ci sono anche numerosi conigli selvatici che negli ultimi anni si sono spontaneamente moltiplicati; forse saranno resistenti alle sostanze tossiche da te malevolmente immaginate. C’e’ tanto ancora, ma forse e’ giusto fermarsi qui. Chi ha potuto farci visita conosce la nostra passione, il nostro rigore e la nostra serieta’, qualita’ che non sembrano appartenerti. Tuttavia vogliamo augurarci che tutto cio’ non sia farina del tuo sacco ma che concorrenti sleali, che a fatica digeriscono il lavoro da noi fatto, ti abbiano facilmente manipolato…
In ogni caso ci riserviamo di tutelare la reputazione della nostra azienda nelle opportune sedi giudiziarie.

Distinti saluti


La risposta di Nossiter non si è fatta attendere e, devo dire, merita un plauso per pacatezza ed intelligenza. Magari a pensarci prima...

Egregio Sig. Santarelli,

Mi dispiace che il tono del mio articolo abbia provocato da parte sua una lettera talmente sarcastica. Ho ovviamente instaurato un dialogo incivile e questa non era la mia intenzione.
La verità è che lei non è il bersaglio del mio articolo. Sono preoccupato invece della speculazione – intesa come il contrario della produzione – che sta, nei miei occhi, distruggendo l’economia e la società occidentale. In linea di principio anche lei dovrebbe sentirsi scandalizzato, dato che vende i suoi vini a 5 euro e li trova rivenduti a 25. A lei sembra giusto? Non vorrebbe controllare un po’ la speculazione dei ristoratori che guadagnano sul vostro lavoro? E fra l’altro non ho la minima intenzione di mettere in discussione la vostra buona fede nell’elaborazione dei vostri prodotti. Volevo solo mettere in discussione il tipo di prodotto come espressione di un territorio e il fatto che una sola azienda domini il mercato locale di una grande città.
Ma leggendo la sua lettera mi chiedo anche perché un’azienda talmente forte, grande, riuscitissima – nel senso commerciale e critico – perda tempo con una piccola e singola voce critica in una rivista fuori settore e dopo tanti anni di ammirazione generalizzata? Mi dispiace soprattutto la reazione all’opinione di un giovane come Francesco Romanazzi. E’ una democrazia, il luogo in cui si può ancora esprimere un giudizio, no? E infatti l’ho citato perché mi sembra uno dei giovani appassionati più informati e impegnati nella ricerca etica della cultura del vino che abbia conosciuto: nonostante la sua età ha già lavorato in alcuni dei posti più impegnati nel vino a Roma, come Roscioli, Settembrini e Bulzoni.
Non siamo liberi, tutti e due, di dire che i vostri vini non ci piacciono? O che consideriamo il successo di marketing delle uve internazionali, sull’onda di ciò che si vende più facilmente dall’Australia alla Maremma fino all’Argentina, il contrario di un impegno necessario per salvare le tante bellissime uve autoctone laziali in pericolo? Ovviamente, come scrive lei, una tradizione comincia a volte con un gesto innovatore. Ma non può pretendere che mettendo sul mercato 1.2 millioni di bottliglie di Syrah, Merlot, Cabernet, Chardonnay, Sauvignon e gli altri “best seller” internazionali che tutti stanno impiantando in tutte le regioni del mondo, lei stia facendo un gesto di avanguardia! Lei ha assolutamente il diritto – per carità – di fare il tipo di prodotto che vuole, dove e quando lo vuole, ma la prego, lasci ai pochi che non sono convinti di questa scelta la possibilità di esprimere la propria opinione.
Per quanto riguarda poi la discussione sul biologico-non biologico, non ho capito bene. Siete in agricoltura biologica o no? Lei mi ha scritto una mail affermando chiaramente che non siete in agricoltura biologica. Praticamente vuol dire che utilizzate sostanze chimiche. Per via di questa sua affermazione, oltre che per quello che trovo scritto ad esempio nella guida Slow Wine (“Casale del Giglio: diserbo chimico/meccanico”), capisco che utilizzate prodotti di sintesi. Oppure vuol dirmi che nelle vigne e in cantina, non lasciate che una sola gocciolina di sostanze chimiche tocchi le uve e il vino? Perché tecnicamente, come lo sa molto meglio di me (io sono un regista di cinema che ama il vino e ne parlo come un laico ad un altro laico), il momento in cui qualsiasi sostanza chimica entra nella terra, nella pianta o nell’uva, il vino che ne risulta contiene almeno tracce di “tossicità”, perfettamente riscontrabili tramite analisi chimiche.
Forse la mia terminologia non è sempre preciso in Italiano: sto ancora imparando a maneggiare la vostra bellissima lingua. Ma ci tengo davvero a sottolineare che non era la mia intenzione di identificare l’azienda come eccezione.
Anzi, bisogna dire che 99% dei vini del mondo sono fatti così (anche molti che dichiarono uve biologiche dopo fanno tante cose in cantina che non si può sapere la “naturalità” di quello che si beve). Come la maggioranza delle cose che mangiamo. E so bene che anche molte stimabili persone che seguono il movimento del vino naturale con simpatia non sono d’accordo sull’idea della “tossicità” (sostenendo per esempio che l’alcool in sé sia già tossico…oppure altri che dicono che lo zolfo in sè è tossico, cose tecnicamente giuste*).

Accetto volentieri che non siamo tutti d’accordo su cosa sia un vino chimico, industriale o tossico. Però, visto quello che è successo per decenni nei campi (e nelle cantine) in Italia, in Francia, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, io personalmente sento il bisogno di reagire. Per la salute delle persone e dell’ambiente. Da qui nasce la mia ammirazione per l’impegno, coraggioso e innovatore, dei vignaioli naturali, da Elena Pantaleoni a Aubert de Villaine e Dominique Lafon (che non toglie il fatto che posso anche stimare chi non ha (ancora?) scelta questa strada).
Bisogna anche dire che negli ultimi anni, grazie al sorprendente successo di mercato della viticoltura biologica, biodinamica e naturale, sono state elaborate molte strategie aziendali per suggerire al consumatore che sta mangiando o bevendo cose sane – cosa spesso non vera – con frasi di marketing come “lutte raisonnée”. Mi perdoni se lo dico, ma mi sembra che “ecocompatibile” sia un’altra frase che rischia di confondere il consumatore. Inutile dire che se lei può affermare e provare che non c’è un gocciolino di sostanza chimica che entra nel suolo o nel suo vino, sarò il primo a scrivere una ritrattazione e chiederle scusa.
Anzi, se vuole, perché non facciamo un lavoro insieme? Chiediamo ad un agronomo ed un chimico di studiare durante l’anno tutte le vostre pratiche, nelle vigne e in cantina, e dopo facciamo un’analisi dei risultati da condividere a più voci (dagli specialisti, dal suo enologo, da lei, da un nutrizionista, da me, da un giornalista indipendente). Io conosco un bravissimo agronomo, Stefano Pescarmona, specialista in biodinamica, che insegna in vari posti in Italia, fra l’altro in un centro di ex tossicodipendenti ed anche all’Università di Slow Food a Bra. Potrei chiamarlo, magari insieme a Claude e Lydia Bourguignon, grandissimi biologi francesi, specialisti della vita del suolo. Qualsiasi sia il risultato (o i risultati), avremmo senz’altro molto da imparare, noi tutti.
Infine, lei sostiene che sono stato manipolato dai vignaioli naturali per motivi di concorrenza sleale. Lei mi lusinga. Invece credo che i produttori di vini naturali che conosco abbiano troppo lavoro nelle vigne per perdere tempo con un cineasta appassionato di vino.

Invece, vista l’ubiquità del suo vino nei ristoranti e nelle enoteche romani (ripeto, sono stupito del fatto che molti ristoratori lascino ad enoteche e altri “middlemen” la possibilità di costruire le loro carte dei vini), non credo che lei debba avere paura che anche qualche piccolo produttore di territorio possa trovare uno spazio accanto a voi. Non c’è nessuna minaccia per il vostro ampio dominio del mercato locale.
Ma se vuole, facciamo insieme anche uno studio economico-commerciale durante un anno per vedere da vicino le pratiche di distribuzione tra i ristoratori e enotecari di Roma. Con questo studio approfondito e dettagliato, potremmo imparare molto sulle strategie commerciali e di marketing che fanno la differenza nel mercato libero. Sarà senz’altro un insegnamento democratico per noi tutti.
Non sono contro di voi (e mi dispiace di offendere qualsiasi essere umano), nel modo più assoluto, anche se non amo i vostri vini (il che non è nulla più di un giudizio personale). Noto solo che in questo mondo il più grande e il più forte prende sempre più spazio – che lo voglia o no – lasciando al cittadino (di qualsiasi paese, in qualsiasi posto) meno scelta. Io, modestamente, vorrei difendere chi non riesce a trovare neanche un piccolo posto alla grande tavola della cultura e del piacere del vino. Non posso (e neanche vorrei) minacciarvi.
Vi auguro un successo democratico con la vostra visione, e auguro anche lo stesso agli altri con visioni diverse.

Cordiali saluti

Jonathan Nossiter


Jonathan Nossiter nemico di Robert Parker e...dei ristoratori romani


Jonathan Nossiter, nonostante l'aria da artista sognatore giramondo, è abituato a rompere certi sistemi di potere, non c'è dubbio, e dopo aver preso posizione su una certa élite del vino all'interno del suo film Mondovino, da qualche tempo, vivendo a Roma, se la sta prendendo con i "poveri" ristoratori della capitale rei di avere carte dei vini disastrose caratterizzate da ricarichi killer.
In pratica, dopo Robert Parker e Michel Rolland, i nuovi nemici del regista americano sono Felice a Testaccio e Il Convivio, ristoranti che, tra i vari a Roma, non hanno avuto la lungimiranza di inserire nello loro carta i vini naturali che, secondo Nossiter, rappresentano oggi una vera rivoluzione culturale.


Felice a Testaccio, in particolare, è reo, secondo il regista, di avere come carta dei vini un "massiccio ma decrepito raccoglitore di carta infilati nella plastica, che ha pretese di esaustività ma a volte presenta un triste nome solitario in cima a pagine vuote. Nell'elenco predominano cantine industriale e semi-industriali di tutte le principali regioni italiane: non certo i vini peggiori ma poco autentici e artigianali". I nomi? Ciccio Zaccagnini, Tasca d'Almerita, Antinori e Casale del Giglio, cantina laziale che, sempre secondo Nossiter, è un un'azienda che fa un vino industriale, tecnico, ruffiano, fatto nel posto meno vocato al vino al mondo. Amen. 


Il Convivio, ristorante della famiglia Troiani, viene visto dal regista di Mondovino come un ex punto di riferimento del periodo bunga bunga che si caratterizza per avere una "lista dei vini con ricarichi che farebbero inorgogliore qualsiasi tangentomane. Molti vini costano al bicchiere più di quanto il ristorante abbia pagato la bottiglia: un sovrapprezzo del 1200%! Che dire, per esempio, di un Verdicchio Garofoli, vino semi-industriale, a 14 euro? In tutto il mondo è considerato ragionevole un ricarico del 250% anche se in Italia o in Francia, data la vicinanza delle cantine, i ristoranti più etici si limitano al 100%, scendendo in alcuni casi al 50".

Il Sanlorenzo, altro ristorante cult di Roma, viene invece citato locale che, nonostante una carta dei vini dove sono presenti vini naturali come il Trebbiano di Emidio Pepe, ha ricarichi eccessivi che snaturano la volontà del vignaiolo di mantenere prezzi bassi di cantina.

L'ultima chicca riguarda i ristoranti che si lasciano fare la carta dei vini dalle enoteche. Secondo Nossiter è "come delegare ad uno sconosciuto la scelta delle proprie pratiche sessuali...".

Ma c'è qualche ristorante di Roma che piace al regista americano? Sì, sul sito Puntarella Rossa a precisa domanda Nossiter sbandiera il suo amore per l'osteria "Da Cesare", al Casaletto, che a suo giudizio ha una carta meravigliosa perché non ha una carta: la carta è lui. Le sue scelte sono all'antica: ti consiglia vini naturali quando chiedi di mangiare e quando ti manifesti come persona. Poi Settembrini e Primo al Pigneto.

Siete d'accordo con tutto questo? Io qualche generalizzazione di troppo e qualche "talebanismo" enoico (vedi Garofoli) l'ho trovato. Magari ne parlerò con lui di persona se vorrà. Benvenuto a Roma!



Addio a Giulio Gambelli


Addio Bicchierino



Daniele Cernilli, Montalcino e le sue denominazioni


Premessa: sto solo condividendo e commentando una notizia apparsa in Rete per cui, visti i tempi, sottolineo che il mio post non ha alcun intento polemico nei confronti dell'ex direttore del Gambero Rosso.
 
Daniele Cernilli, sull'ultimo Bibenda7, propone questo personale quadro delle denominazioni di Montalcino: 

[....]. Ma se proprio dovessi immaginare un disciplinare che tenesse conto delle diverse posizioni espresse dai produttori, che a maggioranza hanno votato per il mantenimento del Rosso di Montalcino con una base ampelografica di solo Sangiovese, ma che vede una minoranza qualificata che la pensa diversamente, e che rappresenta la parte maggiore della produzione effettiva della denominazione, allora farei come segue.   

Il Brunello non si tocca, questo deve essere chiaro. Io sarei addirittura per il divieto di botti piccole e limiterei le pratiche di “ringiovanimento”, oggi consentite per ben il 15%. 

Poi aprirei la Doc Montalcino Rosso al 15% di uve diverse dal Sangiovese, ma con al massimo il 5% di Cabernet Sauvignon, eliminando contemporaneamente la Doc Sant’Antimo che è stata utilizzata finora da poche aziende. 

Infine farei una nuova Doc Montalcino Sangiovese con quel vitigno in purezza, e che, questa solo, sia collegata alla Docg Brunello con la possibilità di declassamento di quest’ultimo. Questo obbligherebbe chi volesse produrre del Rosso di Montalcino, a questo punto più “moderno” e più vicino ad uno stile chiantigiano, a separarsi in modo preciso dal Brunello, e tutelerebbe tutti coloro che vedono nel solo Sangiovese la reale tipicità di Montalcino con una denominazione specifica, che sottolinea in modo inequivocabile proprio questo fatto. Ovviamente tutto questo è solo un mio personale punto di vista, ormai i giochi sono fatti e nulla cambierà. Ma immaginare realtà diverse e ragionare con logiche che possano andare al di là delle sterili contrapposizioni credo che sarebbe stata una buona cosa.

Una visione interessante, bipartisan, che lascia dentro di me un solo punto interrogativo: perchè modificare la denominazione Rosso di Montalcino creando confusione al mercato
Ok per la terza nuova DOC, comprendente i vitigni internazionali, che chiamerei, che ne so, Terre di Montalcino, un nome nuovo, slegato dal passato che, comunque, contiene quel riferimento territoriale tanto caro agli uffici marketing di molti grande aziende. Che ne dite?

Ezio Rivella, Presidente del Consorzio. Fonte: Acquabuona

Antonello Maietta e i suoi Spunti di Svista


Caro Presidente Maietta, chi scrive di vino sul web, si sa, oltre a commettere possibili reati ed essere un visionario è anche una persona che si documenta molto per nutrire la propria passione. Proprio in questo ambito, in orari post  lavorativi, mi sono recentemente imbattuto in alcuni post riguardanti l'Associazione Italiana Sommelier (meglio ora?) che in quest'ultimo periodo, a mio modesto parere, non se la sta passando bene a livello comunicativo.
Caro Maietta, essendo un frequentatore del web, avrà certamente letto la dichiarazione di Daniele Cernilli, responsabile della comunicazione Associazione Italiana Sommelier, il quale imputa all'autorevole figura del Presidente Associazione Italiana Sommelier, quindi lei, la responsabilità di aver allontanato Franco Ziliani dall'Associazione anche se, giorni dopo, lo stesso Ziliani riferisce di un vostro colloquio basato su futuri progetti del sito dell'Associazione che rappresenta.

C'eravamo tanto amati. Fonte: Pignataro Wine Blog
Signor Presidente, la strana coppia Cernilli/Ziliani le ha fatto fare una discreta figuraccia per cui sono qua a chiederle se conferma o smentisce quanto scritto da Ziliani o Cernilli che a livello comunicativo, ci tengo a  sottolineare, pochi giorni fa ha dovuto "subire" lo strano editoriale di Ricci sul mondo del vino raccontato via web.
Bel pasticcio, non trova? Che ne pensa ora di questo Spunto di Svista?

Vinnatur e il concetto di Terroir di Claude Bourguignon




Mentre sono d'accordo che il concetto di Terroir debba riferirsi necessariamente ad arie vocate, non trovo giusto alla fine ricondurlo ad un concetto "naturale" dove solo chi produce senza pesticidi e senza tecnicismi di cantina sia un figo. Ci sono molti vini di Terroir che vengono prodotti da vignaioli che oggi non rientrano tra i naturali puri. Chi? A Montalcino c'è ne è uno chiamato Biondi Santi.

Bevuto a Natale: Emidio Pepe Montepulciano d'Abruzzo 1995



Guardo la bottiglia perplesso, so bene che Emidio Pepe, ultimo contadino vero dell'Abruzzo del vino, divide da sempre gli enoappassionati per il suo essere non omologato e per la variabilità delle sue bottiglie che rischiano di mandarti all'inferno o in paradiso in un attimo.
Guardo la bottiglia perplesso e mi dico che sarà per la prossima volta, che questo è il prezzo che devo pagare per la "naturalità" della cantina e per una artigianalità contadina (imbottigliano, dicono, ancora a mano) che spesso incenso ma che oggi, mentre scrivo, stramaledico visto il risultato finale: vino gettato via. Sì, non ce l'ho fatta a berlo tutto.
Appena apro la bottiglia e verso il montepulciano nel bicchiere la prima sensazione che ho avuto è di essere all'interno di una scena del crimine di CSI: l'odore ematico che si sprigionava dal bicchiere era talmente forte che, se chiudevo gli occhi, immaginavo di essere dentro ad uno dei film splatter Peter Jackson.

Poco dopo, però, arriva lui, il vero killer di Natale: Monsieur Brettanomyces. Da quel momento in poi non c'è ne è stato più per nessuno. Lascio il vino respirare per ore, lo travaso, lo lascio anche un giorno ad ossigenare. Nulla. Il vino sa di fattoria, di cavallo, non altro in questo odore, per molti considerato caratteriale e tipico, che mi possa affascinare a tal punto di proseguire con questo vino che in bocca, bisogna sottolinearlo, risulta davvero ottimo come equilibrio e lunghezza anche se minato da quel retrogusto tremendo. Apro un'altra bottiglia del '95. Lo stesso odore.

Mi perdonerà Emidio se scrivo queste cose, so perfettamente che ferirò la sua anima fiera di vignaiolo, però in una carriera prestigiosa come la sua certi incidenti possono accadere. Penso anche che non sia la prima volta che glielo dicono.
Ricordo ancora il suo Montepulciano 1977. Ecco, rivoglio quelle sensazioni e sono sicuro che in futuro le ritroverò nei suoi vini.

Il Regalo di Natale più inutile del mondo


Per me se la battono queste due "creazioni"

Fontana
La bottiglia con due colli e due bicchieri
Avete altre idee?

L'ES 2009 di Gianfranco Fino vola più alto di tutti!


Gentleman, il mensile di Milano Finanza, anche quest'anno ha tirato le somme circa i giudizi delle principali guide italiane del vino (manca Slowine che pur non fornendo voti numerici ha comunque ha premiato produttore e vino) come Gambero Rosso, L’Espresso, Veronelli, Associazione Italiana Sommelier e Luca Maroni. Nella Top 100 curata dal giornale la vittoria è andata all'ES 2009 di Gianfranco Fino che quest'anno pare abbia messo tutti d'accordo. 
Una domanda mi pongo: cosa accadrà con la 2010 che a mio parere è superiore?


La risposta di Franco Ricci su Bibenda7


Ecco cosa ha scritto oggi Ricci su Bibenda7.

Che ho detto:
  1. Che Ais non è un acronimo di comunicazione penetrante perché riprodotto nel tempo da oltre 30 Marchi e quindi non andrebbe usato. Che dice Antonello Maietta? Dice: “non facciamo passare il termine Ais, ma comunichiamo la nostra associazione con il nome per esteso, Associazione Italiana Sommelier”.
  2. Che scambiarsi pareri sul web, nei forum o altro durante l’orario di lavoro è reato.
Che dicono l’ex Ministro Brunetta e la Legge dello Stato? Uguale.

Ah, e questo qua sotto l'ho scritto io?  

Ci danno pensiero, però, altri tipi di messaggi: alcuni navigatori della rete, ad esempio, anziché apparecchiare la tavola aspettando gli amici, per servire un piatto caldo e un bel bicchiere di vino per viverne insieme qualità ed emozioni, quel bicchiere se lo bevono invece virtualmente. 
Mi riferiscono, perché io non frequento, che hanno lanciato la moda di giudicare il vino e parlarne in maniera interattiva con più persone, scambiandosi pareri positivi o negativi di quella e di quell’altra etichetta. 
Insomma, delusioni o esaltazioni di Barolo o di grandi Champagne, vengono trasmesse da una stanza, seduti davanti a un computer.
Una visione distorta del vino, diciamo noi, abituati a far capire il meraviglioso prodotto, dalla Sicilia al Piemonte, nelle aule dei nostri corsi, avvezzi ad assaggiare insieme lo stesso vino e, soprattutto, in uguale bicchiere...  
Siamo profondamente convinti che non si possa parlare opportunamente e tecnicamente di un vino semplicemente sulla base del ricordo d’averlo bevuto.

Vabbè, tutto ok, non c'ho capito un cazzo io e tutti noi che scriviamo sul web siamo dei rincoglioniti che, oltre ad interpretare male le parole, commettono anche reato.
Ognuno guardi nel suo orticello e alla polvere sotto al tappeto. Grazie.